12 Aprile 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LA CORRESPONSIONE DEL TFR DA PARTE DEL TERZO OBBLIGATO IN SOLIDO CON IL DATORE DI LAVORO ESCLUDE LA POSSIBILITA' DI SURROGAZIONE PER L'INTERVENTO DEL FONDO DI GARANZIA INPS.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 7352 DEL 16 MARZO 2021.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 7352 del 16 marzo 2021, ha (ri)confermato, in tema di obbligazione solidale negli appalti ex art. 29, D.Lgs. n°276/2003, che il terzo – committente obbligato in solido – non è legittimato a surrogarsi, relativamente agli importi corrisposti, nella posizione creditoria vantata dal lavoratore nei confronti del Fondo di garanzia Inps, ex art. 2, legge 29 maggio 1982, n°297.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Brescia aveva ritenuto corretta la decisione di primo grado in ordine alla sussistenza dell'obbligazione solidale della società Trenitalia Spa in qualità di committente rispetto alle domande proposte nei confronti del datore di lavoro appaltatore, da parte di un gruppo di dipendenti per i crediti maturati per retribuzioni e TFR. La Corte aveva altresì ritenuto insussistente il diritto di Trenitalia di surrogarsi nei diritti dei lavoratori nei confronti del Fondo di garanzia Inps.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso Trenitalia Spa al quale hanno resistito i lavoratori e l'Inps terzo chiamato in causa.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso premettendo che, in continuità con i numerosi precedenti, è stato ormai definitivamente superato il precedente orientamento che consentiva all'obbligato solidale del datore di lavoro di surrogarsi, relativamente agli importi corrisposti, nella posizione vantata dal lavoratore nei confronti del Fondo di garanzia. Invero, hanno puntualizzato gli Ermellini, la corresponsione del TFR da parte di un terzo esclude, in radice, il presupposto voluto dalla legge per l'intervento del Fondo di garanzia, costituito dall'inadempimento del datore di lavoro determinato da uno stato di insolvenza e ciò, a maggior ragione, allorché il terzo sia il committente che, in forza dell'art. 29, D.Lgs. 276/2003, corrisponda i trattamenti retributivi ed il TFR ai dipendenti del proprio appaltatore, dal momento che il committente adempie ad un'obbligazione propria, nascente dalla legge.

Acclarata la natura previdenziale della prestazione dovuta dal Fondo di garanzia, e la sua autonomia rispetto alle obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro, hanno aggiunto gli Ermellini, deve logicamente escludersi la possibilità che un terzo, che abbia a qualunque titolo pagato i debiti del datore di lavoro insolvente, possa surrogarsi nella posizione che il lavoratore assicurato avrebbe potuto vantare nei confronti del Fondo di garanzia, posto che le disponibilità del Fondo di garanzia non possono in alcun modo essere utilizzate al di fuori della finalità istituzionale del Fondo stesso (Cfr. L. n°297 del 1982, art.2, comma 8), espressione dell'intervento solidaristico della collettività a favore dei lavoratori (o dei loro aventi diritto) che non abbiano ricevuto il pagamento del TFR a causa dello stato di insolvenza del loro datore di lavoro.

Il committente resta, ex adverso, legittimato a surrogarsi nei diritti del lavoratore verso il datore di lavoro appaltatore, ex art. 1203 c.c., co. 3.

I CREDITI IRPEF, IVA E IRAP SONO SOGGETTI A PRESCRIZIONE DECENNALE, MENTRE QUELLI PER SANZIONI SONO SOGGETTO AL TERMINE QUINQUENNALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8120 DEL 23 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 8120 del 23 marzo 2021, ha statuito che i crediti di imposta sono, in via generale, soggetti alla prescrizione ordinaria decennale a meno che la legge non disponga diversamente, come nel caso dell’art.3 c.9 della L.335/1995 per i contributi previdenziali.

In particolare, i crediti Irpef, Iva e Irap, nonché l’imposta di registro sono soggetti alla canonica prescrizione decennale, non producendosi nessuna riduzione dell’ordinario termine di prescrizione proprio del credito solo per il fatto della iscrizione a ruolo ed emissione della cartella.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour hanno completamente ribaltato le decisioni dei Giudici Territoriali, accogliendo le doglianze dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, che intimava il pagamento di IRPEF e addizionali per l’anno 2000, con una cartella di pagamento notificata in data 12/11/2004 e atto di intimazione notificato il 17/10/2014, agli eredi del contribuente.

Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini hanno evidenziato come i crediti di imposta sono, in via generale, soggetti alla prescrizione ordinaria decennale, ex art.2946 C.C., se la legge non disponga diversamente, e nello specifico i crediti IRPEF, IVA, IRAP e imposta di registro, sono sempre soggetti alla prescrizione decennale. Ex adverso, le sanzioni sono invece soggette alla prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 20 del D.lgs. n. 472/1997, e in ogni caso, non si applicano agli eredi.

In nuce, per la S.C., gli interessi dovuti costituiscono un’obbligazione accessoria a quella per sorte capitale, suscettibile di autonome vicende, di tal ché il credito relativo a questi accessori resta soggetto al proprio termine di prescrizione quinquennale, come fissato dall’art. 2948 C.C., decorrente dalla data in cui il credito principale è divenuto esigibile.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE CHE DURANTE L’ASSENZA PER MALATTIA VIENE SOPRESO AD ALLENARE UNA SQUADRA DI CALCIO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 8443 DEL 25 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 8443 del 25 marzo 2021, ha statuito la legittimità del licenziamento disciplinare comminato ad un dipendente, assente dal lavoro per malattia a seguito di un intervento chirurgico, sorpreso ad allenare una squadra di calcio.

Nel caso in trattazione, infatti, un dipendente impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli per lesione del vincolo fiduciario in quanto, durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia, si era dedicato all’attività ludica di allenatore di una squadra di calcio.

I Giudici di merito ritenevano legittimo il provvedimento. In particolare, la Corte di Appello, confermando la decisione di primo grado, rigettava il reclamo proposto dal lavoratore ritenendo legittimo il recesso, per interruzione del vincolo fiduciario, in quanto il lavoratore, durante il periodo di malattia, aveva svolto “un’attività impegnativa al di fuori dell’azienda, esponendo se stesso al rischio di un aggravamento delle proprie condizioni di salute e comunque di un rallentamento della definitiva guarigione clinica”. Dalla lettura della documentazione medica prodotta dal lavoratore, infatti, era emerso che i medici avessero raccomandato al paziente di svolgere una moderata attività fisica, sempre in presenza del fisioterapista mentre, nella realtà dei fatti, il lavoratore si era spinto ben oltre la leggera attività intrattenendosi a lungo sul campo di calcio, partecipando al gioco, correndo e dribblando gli avversari. Secondo i Giudici, pertanto, atteso che l’attività posta in essere dal lavoratore per diletto era ben più faticosa ed impegnativa di quella di tipo impiegatizio propria del suo lavoro, il dipendente avrebbe potuto rientrare al lavoro già alcuni mesi prima della contestazione disciplinare che ne aveva causato il licenziamento.

Il lavoratore proponeva ricorso per la cassazione della sentenza sostenendo che la Corte territoriale non avesse considerato che la sua presenza presso il campo di calcio non era dovuta allo svolgimento dell’attività di allenatore della squadra di calcio, bensì dettata dalla necessità di effettuare attività di riabilitazione, come prescritto dai medici. I Giudici ritenevano il ricorso inammissibile in quanto tra il primo ed il secondo grado di giudizio era stato constatato che il lavoratore aveva svolto l’attività di allenatore di calcio, attività ben più impegnativa di quella consigliata dai medici ai fini della riabilitazione quando, invece, avrebbe dovuto stare a casa e svolgere una terapia riabilitativa per rimettersi in sesto dopo l’operazione chirurgica e riprendere regolarmente il proprio lavoro.

In conclusione, la Suprema Corte giudicava inammissibile il ricorso e confermava la legittimità del licenziamento disciplinare.

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CON INIDONEITA’ SOPRAVVENUTA, SE IL DATORE NON PROVA DI AVER CERCATO DI ADOTTARE ACCOMODAMENTI RAGIONEVOLI PER EVITARLO.

CORTE DI CASSAZIONE –SENTENZA N. 6497 DEL 9 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 6497 del 9 marzo 2021, ha statuito che, in caso di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro – purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido – ai fini della legittimità del recesso, in applicazione dell'art. 3, comma 3-bis, D.lgs. n. 216/2003, di recepimento dell'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata e conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

Nel caso in trattazione, infatti, un dipendente impugnava il licenziamento intimato per sopravenuta infermità fisica alla mansione, con conseguente impossibilità a rendere la prestazione lavorativa alla quale era addetto. La Corte d’Appello adita, premessa l’applicabilità del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, ritenendo che sussista, in capo al datore di lavoro, un obbligo generale di adottare tutti gli accorgimenti volti ad evitare il licenziamento, anche qualora questi incidano sull’organizzazione dell’azienda, confermava la pronuncia del Tribunale ordinario, condannando la società datrice alla reintegra ex art. 18, L. n. 300/1970.

La società datrice proponeva ricorso per la cassazione della sentenza con due motivi di doglianza. Con il primo, lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 3-bis, D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, con il secondo violazione dell’art. 2697 c.c. circa l’onere della prova. Il citato articolo prevede che, “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli” nei luoghi di lavoro allo scopo di garantire ai lavoratori disabili l’uguaglianza con gli altri lavoratori. La Corte di legittimità analizzando il concetto di “accomodamento ragionevole” ha ritenuto che dovessero intendersi tali quegli accorgimenti posti a carico del datore di lavoro, al fine di dare ragionevolezza al provvedimento di recesso adottato, che non comportino oneri organizzativi eccessivi a carico del datore di lavoro, oneri cioè dal costo sproporzionato rispetto alle dimensioni e tipologia dell’azienda. Inoltre, tali accorgimenti devono essere “ragionevoli”, cioè tali che, pur in presenza di un costo sostenibile, non siano illogici, tenuto conto dell’interesse di altri lavoratori coinvolti e/o dell’assetto complessivo dell’azienda medesima. Il Supremo Collegio, già in passato, aveva stabilito che in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di "handicap",  ai fine della legittimità del recesso, sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro, purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido (ex multis Cass. n. 27243 del 2018; in conformità v. Cass. n. 6678 del 2019 e Cass. n. 18556 del 2019).

Riguardo al secondo motivo di doglianza, gli Ermellini hanno ribadito che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo di dare la prova dell’impossibilità di utilizzare diversamente il licenziamento in esubero (c.d. obbligo di repêchage) è posto a carico del datore di lavoro che può dimostrare la sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 3 L. n. 604/1966 anche mediante ricorso a presunzioni e fatti indiziari, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili. Il datore, infine, aveva l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver offerto al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.

Nel caso in specie, oltre a questi oneri, gravavano sul datore anche quelli stabiliti dal richiamato articolo 3 comma 3 bis del D.Lgs. n. 216 del 2003: trovandosi il lavoratore in una condizione di limitazione dovuta ad infermità il datore di lavoro doveva dimostrare di aver adempiuto l’obbligo della previa verifica della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso. Secondo la Suprema Corte ciò non era avvenuto essendosi il datore di lavoro limitato ad affermare l’impossibilità del repêchage del dipendente inidoneo fisicamente in base ai criteri “statici” correlati al licenziamento per soppressione di mansioni, lasciando sforniti di prova gli ulteriori criteri di “accomodamento ragionevoli” di cui all’articolo 3 comma 3-bis, d.lgs. n. 216/2003.

In conclusione, la Cassazione ha rigettato il ricorso ritenuto infondato ed ha confermato la reintegra del lavoratore.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO, SE IL DATORE DI LAVORO PROVA L’IMPOSSIBILITÀ DI RICOLLOCARE IL LAVORATORE IN MANSIONI COMPATIBILI CON QUELLE SVOLTE IN PRECEDENZA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7218 DEL 15 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n. 7218 del 15 marzo 2021, ha statuito la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo se, pur in presenza di nuove assunzioni, il datore di lavoro riesce a dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altre posizioni relative a mansioni compatibili con quelle già svolte.

Nel caso in oggetto, un lavoratore adiva il Tribunale, chiedendo l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo, determinato dalla chiusura del punto vendita. Sia il Tribunale, che la Corte d’Appello respingevano la domanda.

Il lavoratore ricorreva quindi in Cassazione, denunciando la falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e la violazione dell'obbligo del repechage, giacché a pochi giorni dal licenziamento era stato assunto un altro lavoratore con la stessa mansione attribuita al ricorrente. La Suprema Corte, sulla base di un orientamento già consolidato, ha affermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comporta l’onere per il lavoratore di dimostrare sia il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sia di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di lavoro dì continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo. Il datore di lavoro ha invece l’onere di dimostrare l’esistenza del giustificato motivo e l’impossibilità di repéchage del lavoratore, per l’assenza di posti di lavoro nei quali possa essere riutilizzato. Da questo punto di vista diventa rilevante la dimostrazione che al momento del licenziamento non sussistevano posizioni analoghe a quella soppressa, restando incluse in questa valutazione solo le posizioni relative a mansioni compatibili con le competenze professionali di cui il lavoratore sia già in possesso e che pertanto non comportino un obbligo per la parte datoriale di fornire una nuova e diversa formazione al prestatore di lavoro subordinato.

Nel caso de quo, il datore di lavoro aveva sia dimostrato la contrazione del volume di affari che aveva determinato la chiusura del punto vendita, sia l’impossibilità di ricollocare il lavoratore. Peraltro, a parere dei Giudici di legittimità, tale obbligo non sussisteva in quanto la nuova assunzione era avvenuta per colmare il vuoto di organico determinato dalle dimissioni di un altro dipendente, che svolgeva mansioni diverse, non essendo rilevante neppure il dato formale della qualifica comunicata al centro per l'impiego con riferimento alla nuova assunzione. Pertanto, per le ragioni esposte, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore, confermando la sentenza dei Giudici di merito.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 12 Aprile 2021