19 Aprile 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI MARZO 2021

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Marzo 2021. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Marzo 2021 è pari a 1,108138 e l’indice Istat è 103,30

 

L'ABBANDONO DEL POSTO DI LAVORO, IN ORDINE ALLA SUA DURATA, DEVE ESSERE VALUTATO IN RELAZIONE ALLA POSSIBILITA' DI INCIDERE SULLE ESIGENZE DEL SERVIZIO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7223 DEL 15 MARZO 2021.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 7223 del 15 marzo 2021, ha statuito, in tema di abbandono del posto di lavoro con conseguente licenziamento disciplinare del lavoratore, che la valutazione circa la legittimità del recesso deve ricomprendere l'elemento oggettivo e soggettivo della fattispecie occorsa.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Bari aveva confermato la pronuncia del Giudice di prima istanza con la quale era stata respinta la domanda di un lavoratore, con mansioni di guardia giurata, volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimato sulla base dell'addebito relativo all'abbandono del posto di lavoro per venti minuti, senza indossare il giubbotto antiproiettile, al fine di rimuovere la propria auto dal luogo ove era parcheggiata.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la guardia giurata eccependo che l'episodio, nello specifico, doveva ricondursi ad una ipotesi di allontanamento momentaneo dal posto di lavoro, posto che il lavoratore non intendeva affatto sottrarsi ai propri obblighi, ma solo sospendere brevemente la sua prestazione, onde soddisfare esigenze di natura meramente personale e indifferibili.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ed avallato l'operato della Corte di merito che, nello scrutinare la vicenda, si era attenuta ai principi consolidati già espressi dalla Suprema Corte. La fattispecie dell'abbandono del posto di lavoro, hanno continuato gli Ermellini, di cui all'art. 140 del c.c.n.l. Istituti di vigilanza privata presenta una duplice connotazione: sotto il profilo oggettivo, rileva l'intensità dell'inadempimento agli obblighi di sorveglianza, dovendosi l'abbandono identificare nel totale distacco dal bene da proteggere, mentre la durata nel tempo della condotta contestata va apprezzata non già in senso assoluto, ma in relazione alla sua possibilità di incidere sulle esigenze del servizio, dovendosi comunque escludere che l'abbandono richieda una durata protratta per l'intero orario residuo del turno di servizio svolto; sotto il profilo soggettivo, è richiesta la semplice coscienza e volontà della condotta di abbandono, indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo dell'allontanamento.

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, la gravità del vulnus arrecato all'elemento fiduciario e sotteso al vincolo lavorativo, giustificava la proporzionalità della sanzione irrogata rispetto alla mancanza ascritta.


L’AGENZIA DELLE ENTRATE HA SEMPRE LA POSSIBILITA’ DI RETTIFICARE I COSTI PLURIENNALI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE – SENTENZA N. 8500 DEL 25 MARZO 2021

La Corte di Cassazione – Sezioni Unite-, sentenza n° 8500 del 25 marzo 2021, ha statuito che l’Amministrazione Finanziaria può rettificare al contribuente il componente pluriennale del reddito anche nell'esercizio successivo a quello in cui la voce è stata appostata a bilancio per la prima volta. L'immediato disconoscimento del costo spalmato su più esercizi, infatti, costituisce una mera facoltà e non un obbligo per l'erario, in quanto le annualità successive hanno rilevanza autonoma tanto da consentire il recupero d'imposta ed escludere la decadenza. Pertanto, nel caso di una svalutazione pluriennale, dunque, l'intangibilità potrebbe scattare soltanto con un giudicato che attesta la legittimità dell'operazione contabile.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour hanno accolto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate, ribaltando il verdetto dei Giudici Territoriali che aveva annullato l'accertamento ai fini di IRES e IRAP a carico dell'intermediario finanziario ritenuto come stabile organizzazione in Italia di una società olandese. Secondo l'Amministrazione Finanziaria, alla stabile organizzazione risultava imputata una posta passiva come la svalutazione su crediti di finanziamento ascrivibili solo nei limiti della quota figurativa del patrimonio di vigilanza, ritenuti decaduti dai Giudici di prime cure, in quanto i funzionari del fisco non aveva rettificato la svalutazione del credito alla società in default nel periodo d'imposta in cui per la prima volta il componente negativo del reddito compariva a bilancio.

Per gli Ermellini, l'accertamento dell'imposta sul reddito si rinnova di anno in anno, e deve essere possibile per ogni periodo d'imposta anche rispetto al fatto costitutivo del costo pluriennale dedotto, non soltanto alla correttezza della singola quota annuale di deduzione. Pertanto, quando il fisco contesta i presupposti del componente di reddito pluriennale, la decadenza dal potere di accertamento ex art. 43 DPR n.600/73 deve essere verificata in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale è indicato il singolo rateo di riparto del componente pluriennale, ex adverso, non è rilevante il termine per la rettifica della dichiarazione del periodo d'imposta in cui quella voce è maturata o iscritta per la prima volta a bilancio.

In nuce, per la S.C., il fatto che non scatti l'accertamento alla dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale non implica la preclusione e, quindi, non esclude il sindacato per il periodo successivo. Infatti, ogni volta che è riportato in dichiarazione il componente di reddito pluriennale ne vengono richiamati e riutilizzati tutti i fatti presupposti e gli elementi costitutivi, e così quando l’Agenzia delle Entrate rettifica la dichiarazione non va ad incidere a danno del contribuente sulla denuncia dell'anno di primo riporto o su quelle successive già decadute.


AI FINI DEL RISARCIMENTO DALL’AZIENDA NON E’ SUFFICIENTE CHE LA MALATTIA PROFESSIONALE SIA RICONOSCIUTA DALL’INAIL

CORTE DI CASSAZIONE –SENTENZA N. 7515 DEL 17 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7515 del 17 marzo 2021, ha stabilito che il riconoscimento della malattia professionale – che aveva causato la morte del lavoratore – da parte dell’Inail non è sufficiente per legittimare l’azione risarcitoria dei familiari del lavoratore nei confronti dell’azienda datrice di lavoro.

Nel caso in trattazione, infatti, i familiari di un ex dipendente dell’Ilva, deceduto a causa di un tumore polmonare classificato dall’INAIL quale “malattia professionale dovuta all’inalazione di idrocarburi policiclici aromatici (IPA)”, citavano in giudizio l’azienda datrice al fine di ottenere un ristoro economico per il danno morale patito a causa del decesso del loro congiunto causato da una patologia “contratta durante il periodo lavorativo e riconosciuta dall’Inail”.

La Corte d’Appello, rigettando i gravami di ambo le parti, confermava la decisione dei Giudici di merito evidenziando che non era stato dimostrato il necessario nesso di causalità tra la malattia del lavoratore e l’eventuale mancata adozione di misure atte a prevenire l’insorgere della patologia e precisando che “non è sufficiente il riconoscimento da parte dell’Inail della malattia professionale, che, comunque, non era opponibile alla Ilva spa”. I Giudici, inoltre, evidenziavano che non era stata provata alcuna attività illecita da parte del datore di lavoro.

Avverso tale decisione gli eredi del lavoratore proponevano inutilmente ricorso in Cassazione. La Suprema Corte, infatti, confermava in toto il ragionamento seguito dai giudici d’Appello sulla base di due assunti: che l’avvenuto riconoscimento della malattia professionale fosse inopponibile alla società datrice di lavoro, in quanto trattasi di un provvedimento amministrativo ed estraneo ad ogni contraddittorio con il datore, e che non fosse stata in alcun modo provata una eventuale attività illecita del datore di lavoro.

In conclusione, secondo i Giudici di Cassazione “il provvedimento dell’Inail non può assumere, ai fini di una eventuale responsabilità del datore di lavoro, né valenza indiziaria, stante la sua inopponibilità alla società, né valore di fatto notorio, non potendosi giuridicamente individuare come tale” e, pertanto, ai familiari del lavoratore defunto non spetta alcun risarcimento.


L’OMISSIONE DELL’INDICAZIONE DI UN IMPORTO MINIMO GARANTITO NEL PATTO DI NON CONCORRENZA NON NE COMPROMETTE LA VALIDITÀ

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 5540 DEL 1° MARZO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 5540 del 1° marzo 2021, ha statuito che il patto di non concorrenza stipulato tra datore di lavoro e lavoratore non è da ritenere nullo per indeterminatezza del corrispettivo, quando venga omessa l’indicazione di un importo minimo garantito nelle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro intercorrente tra le parti.

Nel caso de quo, una lavoratrice adiva il Tribunale per ottenere l’accertamento della nullità del patto di non concorrenza stipulato con il datore di lavoro, con il quale era stato pattuito un corrispettivo annuo in costanza di rapporto di lavoro, pari a 18.000,00 euro per tre anni, da frazionare in caso di risoluzione anticipata.

Se i Giudici di prime cure respingevano la domanda, la Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado, accoglieva il ricorso, dichiarando nullo il patto per mancanza di determinazione o determinabilità del corrispettivo riconosciuto alla lavoratrice.

Avverso la sentenza, il datore di lavoro proponeva ricorso in Cassazione.

I Giudici di Piazza Cavour affermano che, l’istituto disciplinato dall’art. 2125 c.c. ha la duplice finalità di salvaguardare l’imprenditore ed il lavoratore nei rispettivi interessi di tutela del patrimonio immateriale dell’azienda e di assoluta libertà nel ricollocare la propria professionalità nel mercato del lavoro. Tuttavia, lo stesso articolo del Codice Civile richiama una serie di elementi senza i quali il patto è da ritenersi nullo, tra i quali il corrispettivo. È però stato più volte confermato l’orientamento secondo cui il patto resta autonomo rispetto al contratto di lavoro, pertanto il corrispettivo pattuito non assume valore retributivo, essendo subordinato ai soli requisiti generali di determinatezza o determinabilità indicati dall’art. 1346 c.c., ne deriva che operano su piani diversi la nullità derivante da assoluta indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo in quanto vizio del contratto rispetto al requisito previsto dall’art. 1346 c.c., dalla nullità prevista dall’art. 2125 c.c., per assenza di pattuizione del corrispettivo o per iniquità dello stesso, rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore. Nel caso in oggetto non è ravvisabile una nullità ex art. 2125 c.c., pertanto la Suprema Corte, accogliendo il ricorso, cassa la sentenza rinviando alla Corte d’Appello.


LA MANCATA PROROGA DEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO DI UNA LAVORATRICE IN STATO DI GRAVIDANZA RAPPRESENTA UN COMPORTAMENTO DISCRIMINATORIO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5476 DEL 26 FEBBRAIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5476 del 26 febbraio 2021, ha statuito che la mancata proroga del contratto di una lavoratrice in stato di gravidanza rappresenta un atto discriminatorio.

Nel caso de quo, una lavoratrice adiva il Tribunale chiedendo l’accertamento della natura discriminatoria della mancata proroga del contratto a tempo determinato, concessa a tutti gli altri lavoratori nella medesima situazione contrattuale, in ragione dello stato di gravidanza della ricorrente.

Il Giudice di primo grado accoglieva il ricorso, mentre la Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, respingeva la domanda ritenendo prive di fondamento le doglianze della lavoratrice a causa della mancanza di elementi idonei a provare il comportamento discriminatorio. La lavoratrice ricorreva in Cassazione.

I Giudici di legittimità hanno affermato che la discriminazione, se riferita ad eventi di gravidanza o maternità, rappresenta una forma di discriminazione di genere contro la quale è stata sviluppata una copiosa produzione normativa e giurisprudenziale, sia nazionale che comunitaria. In questo contesto normativo – giurisprudenziale assume particolare rilevanza il D.lgs. n. 198/2006 che definisce, all’art. 25, discriminazione diretta ogni comportamento o atto volto a determinare un trattamento meno favorevole di un lavoratore rispetto all’altro che si trovi in una situazione analoga; inoltre, lo stesso decreto prevede, all’art. 40, che, quando il ricorrente fornisce elementi di fatto desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni e ad altri aspetti del rapporto contrattuale idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di comportamenti discriminatori, sarà onere del convenuto provare l'insussistenza della discriminazione. A tale riguardo la Suprema Corte, richiamando precedenti orientamenti, ha confermato che nei giudizi aventi ad oggetto condotte discriminatorie la dimostrazione della condotta illegittima non segue i canoni ordinari ex art. 2729 c.c., ma quelli speciali, secondo i quali è onere del lavoratore provare il trattamento ritenuto meno favorevole, ma allo stesso tempo resta onere del datore di lavoro provare l’esclusione della condotta discriminatoria, in coordinazione con il principio di vicinanza della prova che ripartisce l’onere probatorio anche in base alla possibilità di provare fatti che ricadono nella sfera di azione di ciascuna delle parti. Nel caso in oggetto, il comportamento discriminatorio dato dalla mancata proroga, che aveva prodotto effetti sfavorevoli per la lavoratrice era stato dimostrato dalle esigenze di personale del datore di lavoro che aveva mantenuto in servizio gli altri lavoratori, mentre il datore di lavoro non aveva fornito la prova dell’esclusione della condotta discriminatoria, pertanto in accoglimento del ricorso proposto dalla lavoratrice, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

Condividi:

Modificato: 19 Aprile 2021