26 Aprile 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IL DATORE DI LAVORO CHE NON FA RUOTARE CORRETTAMENTE IL LAVORATORE IN CIGS RISPETTO AGLI ALTRI RISPONDE DEL DANNO SOGGETTO A PRESCRIZIONE DECENNALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10378 DEL 20 APRILE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 10378 del 20 aprile 2021, ha statuito che qualora il datore di lavoro ponga illegittimamente in cigs un proprio dipendente, facendolo ruotare meno degli altri, deve risarcire il lavoratore e la prescrizione di detto risarcimento è decennale.

La Corte d’Appello di Sassari, riformando parzialmente la sentenza del relativo Tribunale, condannava un datore, previa declaratoria di illegittimità della collocazione in cigs di un lavoratore con sospensione a zero ore, al pagamento della differenza fra la normale retribuzione ed il trattamento percepito durante la cigs.

La società ricorreva per la cassazione della sentenza con tre motivi di cui il principale consisteva nella censura mossa alla Corte distrettuale per violazione del regime della prescrizione applicabile.

Infatti, il datore sosteneva che la disapplicazione del provvedimento di concessione della cigs, nei confronti del subordinato, comportava la riviviscenza dell’originaria obbligazione retributiva con applicazione del regime comune della prescrizione breve (5 anni) ex art. 2948 c.c.

I Giudici di Piazza Cavour hanno ribadito il consolidato orientamento nomofilattico (ex plurimis, sentenza n° 24738 del 4.12.2015) con il quale si è statuito che il lavoratore ingiustificatamente sospeso non vanta il diritto alla riammissione in servizio, trattandosi di un “facere infungibile”, ma – ex adverso – ha il diritto ad ottenere il risarcimento del danno nella misura corrispondente alla differenza fra le retribuzioni spettanti nel periodo di ingiustificata sospensione del rapporto ed il trattamento di cassa integrazione corrisposto nello stesso periodo.

Detto risarcimento, di natura contrattuale, soggiace alla prescrizione decennale e non a quella breve quinquennale. A corroborazione di tale statuizione la Suprema Corte ha menzionato i propri precedenti di cui alle sentenze n.ri 10483/2019 e 25139/2010.

LE CONVENZIONI STIPULATE TRA GLI STATI RIVESTONO CARATTERE DI SPECIALITA' E PREVALGONO RISPETTO ALLE CORRISPONDENTI NORME NAZIONALI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.9725 DEL 14 APRILE 2021.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 9725 del 14 aprile 2021, ha (ri)confermato il valore delle norme convenzionali finalizzate ad evitare la doppia imposizione attraverso l'attribuzione del potere di imposizione fiscale ad uno Stato contraente e, corrispondentemente, con la rinuncia all'esercizio di tale potere da parte dell'altro Stato, oppure, in alternativa, la previsione di una potestà impositiva concorrente dei due Stati, con il ricorso allo strumento del credito di imposta.

Nel caso de quo, un contribuente aveva ricevuto formale avviso di pagamento con il quale l'Agenzia delle Entrate accertava un reddito imponibile in Italia stante l'omessa dichiarazione dei redditi. In particolare, rispondendo ad un questionario dell'Ufficio, il contribuente aveva chiarito, invero, di aver soggiornato e svolto attività di lavoro dipendente per 183 giorni in Germania, ove aveva presentato la relativa dichiarazione dei redditi e pagato integralmente le relative imposte. Avviato il contraddittorio per la definizione agevolata delle sanzioni, il contribuente invocava il diritto a beneficiare del credito d'imposta in virtù del divieto di doppia imposizione, puntualmente respinto dall'Ufficio che lo riteneva subordinato alla (omessa) presentazione della dichiarazione dei redditi, essendo il contribuente fiscalmente residente in Italia.

La Commissione tributaria provinciale accoglieva le ragioni del contribuente cui reagiva l'Amministrazione finanziaria, promuovendo ricorso in appello. Il Giudice d'Appello riformava integralmente la sentenza, confermando la legittimità dell'originario atto impositivo ed il contribuente adiva la Suprema Corte per la cassazione della sentenza, invocando la Convenzione contro le doppie imposizioni conclusa da Italia e Germania.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso,  affermando che la Convenzione stipulata tra gli Stati (al fine di eliminare la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali), al pari delle altre norme internazionali pattizie, riveste carattere di specialità rispetto alle corrispondenti norme nazionali e, quindi prevale su queste ultime, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti, tra l'altro, dagli obblighi internazionali sanciti dall'art. 117 Cost., comma 1. In particolare, l'art. 15 della Convenzione conclusa tra Italia e Repubblica Federale di Germania è chiara nell'ancorare la potestà impositiva allo Stato di residenza solo se coincidente con quello in cui il lavoro viene esercitato. La disposizione prevede infatti che, nel caso in cui l'attività sia svolta nell'altro Stato contraente – ovvero quello in cui il contribuente non ha residenza – "le remunerazioni percepite a tale titolo sono imponibili in questo altro Stato".

Nella fattispecie in esame, hanno argomentato gli Ermellini, non era contestata né la residenza in Italia del contribuente e neanche che avesse prestato la sua attività lavorativa in Germania per almeno 183 giorni, ove, tra l'altro, aveva assolto a tutti gli obblighi tributari mediante il versamento integrale delle imposte. Pertanto, restando "fuori fuoco" l'eventuale ricorso all'art. 165 del Tuir (id: norma nazionale) non potevano richiedersi ulteriori adempimenti o versamenti di imposta in Italia.

LA PROVA DELLA NOTIFICA DI UN ATTO IMPOSITIVO, IN CASO DI IRREPERIBILITA’ RELATIVA, RICHIEDE IL DEPOSITO DELLA COMUNICAZIONE DI AVVENUTO DEPOSITO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE – SENTENZA N. 10012 DEL 15 APRILE 2021

La Corte di Cassazione – Sezioni Unite -, sentenza n° 10012 del 15 aprile 2021, ha statuito che non è sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima per assolvere l’onere del perfezionamento di una procedura di notifica di atto impositivo mediante l’impiego diretto del servizio postale in caso di temporanea assenza del destinatario (id: irreperibilità relativa).

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, accogliendo le doglianze di una società contribuente, che lamentava la mancata rituale notifica degli atti impositivi prodromici e quindi l’inesistenza della relativa cartella di pagamento per IRPEF anni 2006 e 2007, hanno evidenziato i principi basilari per una regolare notifica di un atto impositivo, ovvero processuale tramite il servizio postale, secondo le previsioni della Legge n. 890/1982, qualora l’atto notificato non venga consegnato al destinatario:

  • per rifiuto a riceverlo;
  • per temporanea assenza del destinatario stesso;
  • per assenza e/o inidoneità di altre persone a riceverlo.

Per gli Ermellini, nelle ipotesi elencate la prova del perfezionamento della procedura notificatoria può essere data dal notificante solo ed esclusivamente mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (id: CAD – comunicazione di avvenuto deposito).

In nuce, la S.C. ha così risolto il contrasto interpretativo esistente sulla questione all’interno della giurisprudenza di legittimità, che vedeva contrapposte due diversi indirizzi.
Un primo orientamento, più risalente, affermava che ai fini della prova del perfezionamento della notifica postale diretta in caso di assenza temporanea del destinatario, fosse sufficiente che l’Ente impositore notificante producesse in giudizio l’avviso di ricevimento della raccomandata contenente l’atto notificando con l’attestazione di spedizione della CAD.

Ex adverso, l’altra diversa lettura, affermatasi a partire dall’ordinanza n. 5077/2019, prevede che, per considerare perfezionata la procedura di notificazione, è necessario verificare in concreto l’avvenuta ricezione della CAD e a tal fine il notificante è processualmente onerato della produzione del relativo avviso di ricevimento.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DELL’UNICO DIPENDNETE IN FORZA A CAUSA DELLA CONTRAZIONE DEL BUDGET

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 7676 DEL 18 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 7676 del 18 marzo 2021, ha statuito la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo comminato ad una dipendente a causa di una contrazione del budget a disposizione.

Nel caso in trattazione, infatti, la dipendente di uno studio odontoiatrico impugnava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole per la sopravvenuta riduzione del budget destinato ai lavoratori dipendenti, chiedendo il risarcimento del danno subito, la reintegrazione, il pagamento delle retribuzioni spettanti dal giorno del licenziamento fino alla reintegrazione oltre alle differenze retributive per le differenti mansioni svolte.

La Corte d’Appello, confermando la decisione di primo grado, rigettava l’appello proposto dalla lavoratrice ritenendo legittimo il provvedimento di recesso, avendo ritenuto formato il giudicato implicito sulla prova della esistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento consistita nella riduzione del budget. I Giudici inoltre avevano ritenuto non applicabile l’istituto del "repechage" poiché l’appellante era unica dipendente dello studio odontoiatrico.

Avverso tale sentenza la lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione con quattro motivi di doglianza, ritenuti tutti inammissibili. Secondo i Giudici, infatti, era pienamente condivisibile il giudizio dei giudici di prime cure non potendosi porre in discussione il giustificato motivo oggettivo del licenziamento rappresentato dalla riduzione del budget né tantomeno fare ricorso al repêchage essendo la lavoratrice l’unico dipendente dello studio.

In conclusione, la Suprema Corte giudicava inammissibile il ricorso, respingeva la richiesta della donna di ottenere il risarcimento dei danni, la reintegrazione e il pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino al giorno del rientro in ufficio e confermava la legittimità del licenziamento.

LEGITTIMO L’ACCORDO CON IL QUALE IL LAVORATORE RINUNCIA AL RIPOSO NEI GIORNI DI FESTIVITÀ NAZIONALE INFRASETTIMANALE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 8958 DEL 31 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 8958 del 31 marzo 2021, ha stabilito la legittimità degli accordi tra datore di lavoro e lavoratore tesi alla rinuncia all’astensione dal lavoro nei giorni delle festività infrasettimanali.

Nel caso de quo, alcuni lavoratori proponevano ricorso in Tribunale contro il datore di lavoro per l’annullamento delle sanzioni disciplinari conservative applicate in seguito alla contestazione dell’astensione dal lavoro durante alcune festività nazionali infrasettimanali. Sia in primo che in secondo grado la domanda veniva accolta, in quanto i Giudici di merito avevano ritenuto nulle le clausole di disponibilità lavorativa anche nei giorni festivi, in considerazione della loro indeterminatezza, tenuto conto della posizione di debolezza che ricopre il lavoratore al momento della sottoscrizione e della piena ed unilaterale discrezionalità del datore di lavoro.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione. I Supremi Giudici, nel ribaltare la sentenza di secondo grado, hanno affermato che la Legge n. 260/1949 riconosce ai lavoratori il diritto soggettivo di astenersi dal lavoro durante le festività, tuttavia il divieto di lavorare nelle giornate festive non risulta essere assoluto, giacché le festività infrasettimanali non trovano nel nostro ordinamento una particolare tutela costituzionale, come accade per le ferie e per i riposi, anche alla luce della diversa finalità che viene perseguita da questi ultimi volti a tutelare lo stato di salute del lavoratore. Al contrario, le festività infrasettimanali non hanno una funzione ristoratrice, ma possono a seconda dei casi rappresentare l’occasione celebrativa di determinate ricorrenze religiose o, per quanto radicate nella tradizione, non rappresentano un diritto fondamentale del lavoratore. Devono pertanto riconoscersi come diritti disponibili cui il lavoratore può rinunciare manifestando la propria volontà attraverso un atto di autonomia in accordo con il datore di lavoro, purché l’oggetto delle clausole inserite a questo proposito all’interno del contratto abbiano contenuto determinato ed il potere del datore di lavoro di richiedere la prestazione lavorativa sia improntato ai principi di buona fede e correttezza. Per le ragioni esposte la Suprema Corte, accogliendo il ricorso del datore di lavoro, ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte d’Appello.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 26 Aprile 2021