10 Maggio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

COSTITUISCE DOLOSO OCCULTAMENTO DEL DEBITO CONTRIBUTIVO LA CONDOTTA DEL PROFESSIONISTA CHE OMETTA LA COMPILAZIONE DEL MODELLO UNICO NELLA PARTE DEDICATA AL CALCOLO DEI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.8419 DEL 25 MARZO 2021.
La Corte di Cassazione – ordinanza n°8419 del 25 marzo 2021 – ha confermato, in tema di sospensione della prescrizione, che qualora il debitore abbia posto in essere un comportamento intenzionalmente diretto ad occultare al creditore l'esistenza dell'obbligazione non possono invocarsi i normali termini di prescrizione.
Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Torino, confermando la sentenza di prime cure, aveva rigettato l'appello dell'Inps volto a sentir dichiarare l'obbligo in capo ad un professionista, ingegnere, docente presso un Istituto Tecnico Industriale, del pagamento, alla gestione separata ex art. 2, comma 26, Legge 335/95, a titolo di contributi derivanti dallo svolgimento di attività professionale nell'anno 2008; in particolare, la Corte territoriale aveva accolto l'eccezione di prescrizione proposta dal professionista, ritenendo che il provvedimento di iscrizione d'ufficio alla  gestione separata, ricevuto il 27 giugno 2014, fosse intervenuto dopo oltre cinque anni dalla scadenza del termine di pagamento del saldo dei contributi 2008 (16 giugno 2009) con conseguente estinzione per prescrizione del credito vantato dall'Inps.
Per la cassazione della pronuncia ha proposto ricorso in Cassazione l'Istituto previdenziale dolendosi circa la sussistenza di un termine di sospensione della prescrizione (Cfr. art. 2941 c.c., n° 8) per non avere il professionista provveduto a compilare, in sede di dichiarazione dei redditi, il quadro RR del modello unico.
Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso affermando che ricorre la causa di sospensione della prescrizione di cui all'art. 2941 c.c., n°8, qualora il debitore abbia posto in essere una condotta tale da comportare per il creditore una vera e propria impossibilità di agire, e non una mera difficoltà di accertamento del credito, e quindi quando abbia posto in essere un comportamento intenzionalmente diretto ad occultare al creditore l'esistenza dell'obbligazione.
Sul punto, hanno argomentato gli Ermellini, la recente Ordinanza della Suprema Corte  n°6677 del 2019 ha già affermato che, "in tema di sospensione della prescrizione, costituisce doloso occultamento del debito contributivo verso l'ente previdenziale, ai fini dell'applicabilità dell'articolo 2941 c.c., n. 8, la condotta del professionista che ometta di compilare la dichiarazione dei redditi nella parte relativa ai proventi della propria attività, utile al calcolo dei contributi per la gestione separata (quadro RR del modello)".
Nella fattispecie, hanno concluso gli Ermellini, la Corte territoriale, aveva correttamente affermato la decorrenza del dies a quo della prescrizione quinquennale dalla data di scadenza del credito ma, nel contempo, aveva omesso di applicare la causa di sospensione, ex art 2941 c.c., n°8, che avrebbe dovuto considerarsi ricorrente secondo l'insegnamento dettato dalla giurisprudenza della Corte.

 

DEVE ESCLUDERSI LA CUMULABILITA' DELLO STATUS' DI COMPONENTE DEL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE DI SOCIETA' DI CAPITALI CON QUELLA DI LAVORATORE DIPENDENTE LADDOVE NON SIA POSSIBILE L'EFFETTIVO ASSOGGETTAMENTO AL POTERE DIRETTIVO, DI CONTROLLO E DISCIPLINARE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.10308 DEL 20 APRILE 2021.
La Corte di Cassazione – ordinanza n°10308 del 20 aprile 2021 – ha (ri)confermato, in tema di insussistenza del rapporto di lavoro dipendente, la incompatibilità del lavoro subordinato con la carica di consigliere del C.d.A. di società di capitali con deleghe di potere gestorio.
Nel caso de quo, l'Agenzia delle Entrate notificava ad una S.p.a. avvisi di accertamento con i quali, ritenendo insussistente un rapporto di lavoro dipendente, recuperava a tassazione i costi dedotti a titolo di retribuzione corrisposta dalla società ad un lavoratore che, contemporaneamente, rivestiva anche la carica di membro del Consiglio di amministrazione.
In particolare, si contestava che, essendo il subordinato, nella sua qualità di consigliere, titolare di una delega alla gestione del settore amministrativo fiscale e finanziario con firma libera, la sua posizione era incompatibile con quella di lavoratore dipendente della stessa società, con conseguente indeducibilità del costo, da parte della società, ai sensi dell'art. 95 del T.u.i.r..
Impugnato l'atto impositivo, la Commissione tributaria Provinciale rigettava il ricorso e, all'esito dell'appello proposto dalla società contribuente, la Commissione tributaria Regionale, parimenti respingeva l'impugnazione.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società dolendosi, tra l'altro, dell'omessa pronuncia della C.T.R. sulla questione relativa alla deducibilità del costo sostenuto per il lavoro prestato dal lavoratore.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso evidenziando, in via generale, che deve escludersi la cumulabilità delle qualità di amministratore unico di società di capitali e di lavoratore dipendente della medesima società, non potendo, in tal caso, ricorrere l'effettivo assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare di altri, che si configura come requisito tipico della subordinazione; ciò, per il contenuto sostanzialmente imprenditoriale dell'attività gestoria svolta dall'amministratore unico in relazione alla quale non è individuabile la formazione di una volontà imprenditoriale distinta. Nella diversa ipotesi di rapporto di lavoro subordinato instaurato tra un membro del C.d.A. di società di capitali e la società stessa, non potendo, in astratto, escludersi la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato, è necessario che colui che intende far valere tale tipo di rapporto fornisca la prova della sussistenza del vincolo di subordinazione mediante assoggettamento all'altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare.
Nella fattispecie in esame, hanno continuato gli Ermellini, la C.T.R., dopo avere rilevato che al lavoratore, membro del C.d.A. era stata conferita delega per la gestione del settore amministrativo, fiscale e finanziario, "in piena autonomia" e in assenza di controllo da parte del consiglio o del Presidente, aveva altresì posto in rilievo che tale delega gli attribuiva ampi poteri, tra i quali quelli di rappresentare la S.p.a. in giudizio, di transigere e conciliare qualsiasi vertenza, sia in sede giudiziale che stragiudiziale, nonché di controllare il personale dipendente.
Da ultimo, hanno evidenziato i Giudici della Suprema Corte, dalla accertata insussistenza del vincolo di subordinazione discende l'indeducibilità dei costi sostenuti dalla società a titolo di retribuzioni, il che impone di ritenere infondati i motivi di doglianza addotti dalla società istante.


È ILLEGITTIMO L’ACCERTAMENTO EMESSO DALL’A.D.E. SE IL CONTRIBUENTE NON PRODUCE, SE PUR RICHIESTO DAGLI UFFICI, IL QUESTIONARIO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 11405 DEL 30 APRILE 2021
Vi segnaliamo, per le opportune riflessioni, l’interessante pronuncia della Suprema Corte di Cassazione in materia di “questionario”, “mancato invio”, “condizione per l’emissione dell’accertamento”, “principio del contraddittorio”.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11405 del 30 aprile 2021, ha statuito che è illegittimo l'accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate se il contribuente produce a mezzo Pec esclusivamente i documenti richiesti ma non il relativo questionario.
Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, hanno accolto il ricorso di una società alla quale l’Amministrazione Finanziaria aveva dato quindici giorni per fornire chiarimenti sull'Iva e per riconsegnare firmato il questionario inviato.
Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini hanno ricordato alcuni principi sull'obbligo di contraddittorio da parte dell'Agenzia delle Entrate, evidenziando che, “in tema di accertamento fiscale, l'invio del questionario da parte dell'Amministrazione Finanziaria, previsto dagli artt. 32, c.4, DPR n. 600 del 1973 e 51, c.5, DPR n. 633 del 1972, assolve alla funzione di assicurare, in rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà della materia tributaria, un dialogo preventivo tra fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni, essendo necessario che l'ufficio fissi un termine minimo per l'adempimento degli inviti o delle richieste, avvertendo il contribuente delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dall'inottemperanza alle stesse senza che, in caso di mancato rispetto della suddetta sequenza procedimentale, sia invocabile la sanzione dell'inutilizzabilità della documentazione esibita dal contribuente solo con l'introduzione del processo tributario, trattandosi di obblighi di informativa espressione del medesimo principio di lealtà, il quale deve connotare, ai sensi degli artt. 6 e 10 Statuto del contribuente, l'azione dell'ufficio”.
In nuce, per la S.C., l’Agenzia delle Entrate ha una mera facoltà di interlocuzione con il contribuente e tale discrezionalità consente il potere altrettanto discrezionale di modificare ovvero di ritirare l'ordine di consegnare il questionario. Pertanto, il mancato e compiuto rispetto dell'ordine procedimentale fissato a carico dell'Amministrazione Finanziaria nell'esercizio di tale potere discrezionale non viene a inficiare di nullità l'atto impositivo emesso ma il soggetto contribuente può chiederne l'annullamento perché non è stato rispettato il suo diritto di difesa, ancorché limitato all'invio dei soli documenti e non del questionario.

 

LA CONDOTTA DISCRIMINATORIA DEL LAVORATORE NEI CONFRONTI DI ALTRI DIPENDENTI DETERMINA LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO ACQUIESCENTE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 11113 DEL 27 APRILE 2021
La Corte di Cassazione, ordinanza n. 11113 del 27 aprile 2021, ha statuito la responsabilità del datore di lavoro per condotte discriminatorie tenute da altri dipendenti all’interno dell’azienda.
Nel caso de quo una lavoratrice ricorreva in Tribunale proponendo domanda di accertamento della sussistenza di discriminazione di genere ex art. 38 del D.lgs. n. 198/2006 da parte del datore di lavoro, a causa della condotta tenuta da un’altra dipendente, gerarchicamente superiore alla ricorrente, che con atteggiamenti intimidatori incoraggiava la lavoratrice appena rientrata dalla maternità ad abbandonare il lavoro, in quanto la sua nuova condizione familiare avrebbe potuto generare problemi al datore di lavoro dal punto di vista organizzativo.
Mentre in primo grado la domanda veniva rigettata, in secondo grado la Corte Distrettuale accoglieva il ricorso. Il datore di lavoro ricorreva pertanto in Cassazione, asserendo non imputabile a se stesso un mero diverbio tra colleghe.
La Suprema Corte, confermando la sentenza della Corte d’Appello, afferma che la condotta tenuta dalla lavoratrice posta in posizione di superiorità gerarchica denota senza dubbio un atteggiamento discriminatorio, giacché le espressioni dispregiative usate e le modalità intimidatorie mostravano una palese avversione verso opzioni esistenziali alternative, da cui scaturiva l’esortazione ad abbandonare il lavoro.
Nella fattispecie in esame, inoltre, grava sul datore di lavoro una responsabilità oggettiva in considerazione della posizione gerarchica della lavoratrice che aveva assunto atteggiamenti discriminatori. Infatti, il suo ruolo, aldilà della collocazione gerarchica formale, faceva presupporre che la dipendente fosse autorizzata ad esprimere quelle opinioni per conto del datore di lavoro. Infine, il datore di lavoro non aveva posto in essere comportamenti efficaci per la repressione di questo tipo di condotta, al contrario l’inerzia della società datrice aveva determinato all’interno dei luoghi di lavoro un clima discriminatorio nei confronti della dipendente rientrata dalla maternità.
Per le ragioni esposte, dunque, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso del datore di lavoro, obbligando lo stesso, in virtù del vincolo solidale, a risarcire il danno arrecato dalla dipendente gerarchicamente superiore.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DETERMINATO DAL RIFIUTO DI SVOLGERE LE MANSIONI ASSEGNATE DAL DATORE DI LAVORO CESSIONARIO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10867 DEL 23 APRILE 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n. 10867 del 23 aprile 2021, statuisce la legittimità del licenziamento intimato per giusta causa e determinato dal rifiuto del lavoratore di adempiere alle mansioni affidategli dall’azienda cessionaria, in caso di acquisto del ramo di azienda presso cui era impiegato.
Nel caso in oggetto, una lavoratrice adiva il Tribunale per richiedere l’accertamento dell’illegittimità per mancanza di giusta causa del licenziamento intimatole dal datore di lavoro. Quest’ultimo aveva adottato il provvedimento espulsivo facendo seguito a numerose lettere di contestazione disciplinare nelle quali richiamava la dipendente ad ottemperare ai propri doveri. Il rifiuto della stessa di svolgere le nuove mansioni, affidate già dal cedente, era determinato dalle condizioni lavorative ritenute disagevoli, nonché dalla considerazione delle stesse come parte di un insieme più ampio di comportamenti ritenuti prevaricatori da parte del datore di lavoro cedente. Tali mansioni confermate al momento dell’acquisto di ramo d’azienda da parte del cessionario non erano state di fatto mai svolte dalla ricorrente, che lamentava inoltre la dequalificazione professionale determinata dal cambio di mansioni.
Soccombente in entrambi in gradi di giudizio, la lavoratrice ricorreva in Cassazione.
Nel giudizio di legittimità, gli Ermellini, confermando la sentenza di secondo grado, affermano che il rifiuto del lavoratore di adempiere la propria obbligazione di svolgere la prestazione lavorativa, potrebbe rappresentare una legittima forma di autotutela in presenza di un inadempimento del datore di lavoro tale da compromettere la vita o la salute del lavoratore, nel caso in esame la lavoratrice lamentava un comportamento vessatorio lesivo della sua salute e professionalità riferito a  periodi antecedenti alla cessione del ramo d’azienda ed imputabili pertanto al solo datore di lavoro cedente, con il quale la società cessionaria resta solidalmente responsabile, ma dal punto di vista esclusivamente patrimoniale del rapporto di lavoro, non potendo estendersi tale responsabilità anche alle conseguenze derivanti da eventuali condotte illegittime tenute dal cedente. Per le ragioni esposte la Suprema Corte, confermando il disposto dei Giudici di merito, rigetta il ricorso della lavoratrice.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Luigi Carbonelli, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 10 Maggio 2021