14 Giugno 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA MANCATA INTEGRAZIONE E AGGIORNAMENTO DEL DOCUMENTO DI VALUTAZIONE DEL RISCHIO NON COSTITUISCONO CONDOTTE CHE INTEGRANO IL REATO DI EPIDEMIA COLPOSA EX ARTT. 438 E 452 C.P.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 20416 DEL 24 MAGGIO 2021.

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 20416 del 24 maggio 2021, ha statuito, in ordine al reato di epidemia colposa ex artt. 438 e 452 c.p., scaturente da violazioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, che il mancato aggiornamento del documento di valutazione del rischio per la gestione dell'emergenza da Covid-19 non costituisce condotta commissiva e pertanto non integra il reato.

Nel caso de quo, il Tribunale per il riesame di Catania, aveva annullato, con apposita ordinanza, il decreto di sequestro preventivo (e di convalida del sequestro di urgenza adottato dal P.M.) di una casa di riposo emesso dal G.I.P. del Tribunale di Caltagirone nei confronti del rappresentante legale, indagato per epidemia colposa ex artt. 438 e 452 c.p. per violazioni in materia di salute e di sicurezza del lavoro ex artt. 65, 68 e 271 del D.Lgs. n°81/2008. In particolare, era stata segnalata la omessa integrazione del documento di valutazione dei rischi con le procedure previste dal DPCM 24 aprile 2020 in ordine all'emergenza sanitaria Covid-19 e l'omesso aggiornamento dello stesso.

Per la cassazione dell'ordinanza ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Caltagirone eccependo che anche la mancata integrazione e/o l'omesso aggiornamento del DVR rispetto al rischio biologico in generale, e a quello da COVID-19 in particolare, costituiscono condotte che integrano gli estremi della fattispecie incriminatrice,  a fronte della loro efficienza causale a cagionare un'epidemia a titolo colposo, come del resto si era verificato nel caso di specie, ove numerosi anziani (deceduti) e lavoratori dipendenti erano risultati positivi al virus

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendolo infondato. In particolare, gli Ermellini hanno rimarcato che in tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l'art. 438 c.p., con la locuzione "mediante la diffusione di germi patogeni", richiede una condotta commissiva a forma vincolata. In ogni caso, hanno continuato gli Ermellini, pur volendo aderire alla tesi del ricorrente in cassazione, nel decreto di sequestro preventivo disposto dal Gip non erano stati dedotti né illustrati gli elementi e le ragioni logico-giuridiche in base ai quali la condotta omissiva dell'indagato era causalmente collegabile alla successiva diffusione del virus da Covid-19 tra i pazienti ed il personale dalla casa di riposo. Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, non è possibile desumere "con alto grado di credibilità logica o credibilità razionale" che la diffusione/contrazione del virus Covid-19 nei pazienti e nei dipendenti della casa di riposo sarebbe venuta meno. Non è da escludere, infatti, che qualora l'indagato avesse integrato il documento di valutazione dei rischi e valutato il rischio biologico, ex D.Lgs n°81/2008, la propagazione del virus sarebbe comunque avvenuta per fattori causali alternativi.

LA CARTELLA DI PAGAMENTO EMESSA DA CONTROLLO AUTOMATICO SENZA AVVISO BONARIO È LEGITTIMA PER I TRIBUTI DICHIARATI E NON VERSATI

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 14102 DEL 24 MAGGIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 14102 del 24 maggio 2021, ha statuito che è pienamente legittima la cartella di pagamento emessa dall’Amministrazione Finanziaria da controllo automatico delle dichiarazioni, senza essere preceduta dall’avviso bonario, per i tributi dichiarati e non versati dal contribuente.

Nel caso specie, i Giudici di Piazza Cavour, hanno accolto il ricorso promosso dall’Agenzia delle Entrate contro la decisione con cui la CTR aveva dichiarato illegittime alcune cartelle di pagamento per Iva, Irap e altri tributi, emesse a seguito di controllo automatizzato a carico di una società contribuente e riguardanti mancati pagamenti di numerose obbligazioni tributarie. L’Amministrazione ricorrente lamentava, tra le altre doglianze, violazione e falsa applicazione di legge per avere, la Commissione tributaria regionale, ritenuto che le cartelle impugnate fossero difettose di motivazione.

Con l’ordinanza de qua, la Quinta sezione civile della Cassazione ha ricordato come, sebbene, in via generale, la cartella esattoriale che non segua uno specifico atto impositivo già notificato al contribuente ma costituisca il primo e unico atto con il quale l’ente impositore eserciti la pretesa tributaria, debba essere motivata alla stregua di un atto propriamente impositivo, e tale obbligo di motivazione deve essere differenziato a seconda del contenuto prescritto per ciascun tipo di atto. Così, nel caso specifico in cui la cartella sia stata emessa a seguito di liquidazione effettuata in base alle dichiarazioni rese dalla stessa società contribuente, l’obbligo di motivazione può essere assolto tramite il mero richiamo a tali dichiarazioni, in quanto, essendo la stessa contribuente già a conoscenza delle medesime, non è necessario che siano indicati i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa.

Inoltre, gli Ermellini hanno accolto gli ulteriori motivi sollevati dall’amministrazione ricorrente rispetto alle parti della sentenza in cui era stato ritenuto che l’omesso invio alla società della preventiva comunicazione di irregolarità avrebbe prodotto la nullità della successiva cartella di pagamento e che fosse stata preclusa, alla società contribuente, la possibilità di definire le sanzioni nella canonica misura di un terzo delle stesse. A tal proposito, la Corte di Legittimità ha ricordato che, in materia di riscossione, l’invio al contribuente della comunicazione di irregolarità è dovuto solo nel caso in cui dai controlli automatici emerga un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione, ovvero una maggiore o minore imposta.

In nuce, per la S.C., l'obbligo di informare il contribuente prima dell'iscrizione a ruolo è previsto solo in presenza di incertezze su aspetti rilevanti dalla dichiarazione, ancorché la sua omissione, comunque, determina una mera irregolarità e non preclude, una volta ricevuta la notifica della cartella, di corrispondere quanto dovuto con riduzione della sanzione. L’emissione dell’avviso bonario, per contro, non è prescritto in caso di omessi o tardivi versamenti, ipotesi in cui, peraltro, non spetta nemmeno la riduzione delle sanzioni amministrative.

LA REINTEGRAZIONE EX ART. 18 COMMA 4, APPLICATA ALLE SOLE IPOTESI PREVISTE DAI CCNL, DETERMINA CONTRASTO CON IL PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA DEI LAVORATORI

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA INTERLOCUTORIA N. 14777 DEL 27 MAGGIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza interlocutoria n. 14777 del 27 maggio 2021, ha affermato che la reintegrazione ex art. 18 comma 4 della Legge n. 300/1970, solo per fattispecie tipizzate dai CCNL, determina disparità di trattamento tra lavoratori.

Nel caso in oggetto, il lavoratore, assunto con mansioni di comandante delle guardie giurate, adiva il Tribunale per chiedere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, intimato per giusta causa, in seguito alla contestazione di una serie di comportamenti tra cui: denigrazione del datore di lavoro, mancata denuncia di un’aggressione ai danni di un addetto alla sicurezza, omessa comunicazione dei turni di lavoro alla Questura.

Il Tribunale accoglieva il ricorso, disponendo la reintegra del lavoratore, mentre la Corte d’Appello in parziale riforma della sentenza di primo grado, pur riconoscendo l’illegittimità del licenziamento, sulla base della non sussumibilità della condotta alle ipotesi contrattuali punite con sanzione conservativa, disponeva la corresponsione di un’indennità economica, ma non anche la reintegra del lavoratore, che ricorreva dunque in Cassazione.

La Suprema Corte ha affermato che la questione rappresenta momento di riflessione in merito alle disposizioni contenute nell’art. 18 comma 4 e 5 della Legge n. 300/1970, in quanto dai precedenti orientamenti espressi in merito alla portata della norma emergono profili di irragionevolezza, laddove la stessa prevede la reintegrazione come strumento di tutela solo nelle ipotesi tipizzate previste dal contratto collettivo, giacché da tale principio deriverebbe che alle condotte non rientranti esplicitamente tra quelle sanzionate con provvedimenti conservativi non sarebbe possibile applicare la tutela reintegratoria.

Infatti, l’art. 2106 c.c. demanda alla contrattazione collettiva il compito di individuare comportamenti contestabili e relative sanzioni. Tuttavia, l’impossibilità di tipizzare tutti i comportamenti sanzionabili, impone sovente il ricorso a clausole generali o norme di chiusura, che sembrano essere in contrasto con il principio pacifico secondo il quale i comportamenti passibili di sanzione conservativa tipizzati nel codice disciplinare risultano essere vincolanti per il datore di lavoro, in quanto condizione di maggior favore per il soggetto debole. Su tale presupposto, applicare il principio della tipizzazione delle condotte per decidere tra tutela reintegratoria e indennitaria, determinerebbe disparità di trattamento tra lavoratori, giustificate unicamente da un’impostazione approssimativa e non particolareggiata del contratto collettivo o del codice disciplinare.  La corretta interpretazione dell’art. 18 comma 4 e 5 dello Statuto dei Lavoratori assume allora valore nomofilattico, in quanto compito del legislatore è di approntare strumenti di tutela del lavoratore che, indipendentemente dal tipo di tutela (economica o reintegratoria), siano basati su criteri di ragionevolezza ed uguaglianza.  Per le motivazioni esposte è stata disposta la trasmissione del procedimento alla Quarte Sezione lavoro.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL MANAGER CHE UTILIZZI L’AUTO AZIENDALE PER SODDISFARE INTERESSI PRIVATI DURANTE L’ORARIO DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N.14632 DEL 26 MAGGIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 14632 del 26 maggio 2021, ha statuito la legittimità del licenziamento per giusta causa comminato al manager reo di essersi recato, in orario di lavoro ed utilizzando l’auto aziendale, presso l’esercizio commerciale gestito dalla società di cui è socio.

Nel caso in commento, un impiegato di area Manager aveva impugnato il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice per avere, durante l’orario di lavoro, svolto attività extralavorativa seppure in un settore differente rispetto a quello del datore. Era stato appurato, infatti, che il lavoratore almeno in due circostanze, utilizzando l’auto aziendale, si era recato presso il negozio di cui era socio trattenendosi per circa quaranta minuti.

Evidente per i Giudici d’Appello, giudicanti in sede di Rinvio dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 13199/2017), la gravità della condotta idonea a ledere gli interessi del datore ed il danno economico cagionato dalla corresponsione della retribuzione anche per il periodo in cui il dipendente svolgeva attività lavorativa per conto proprio. Per i Giudici, dunque, la sanzione espulsiva era proporzionata alla gravità della condotta, atteso che il comportamento del manager aveva leso irreparabilmente il vincolo fiduciario tra azienda e lavoratore.

Alle medesime conclusioni giungeva la Suprema Corte, adita dal lavoratore, ritenendo evidente la gravità della condotta tenuta dal manager che, durante l’orario di lavoro ed utilizzando l’autovettura aziendale, si era recato presso l’esercizio commerciale gestito da una società di cui egli era membro, trattenendosi per circa quaranta minuti. Evidente, quindi, il venir meno del vincolo fiduciario ed il nocumento economico a seguito dell’esercizio di attività in proprio durante l’orario di lavoro. In ultimo, la Corte ribadiva come il dipendente non si sia affatto ispirato a condotta incentrata su correttezza e buonafede, valori questi intimamente correlati al ruolo di manager da lui svolto, e gli ampi gradi di autonomia concessi siano stati sfruttati da lui medesimo per soddisfare quasi esclusivamente i propri interessi. Tutto ciò aggravava irrimediabilmente la posizione del lavoratore.

I COSTI DA ATTIVITA’ ILLECITA SONO DEDUCIBILI SE NON INTERVIENE L’AZIONE PENALE E L’ESENZIONE IVA DELLE PRESTAZIONI SANITARIA NON SUSSISTE SE CHI LE EFFETTUA NON E’ ABILITATO ALLA PROFESSIONE MEDICA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA 15411 DEL 03.06.2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 15411 del 3 giugno 2021, in materia di abusivismo professionale (odontoiatra), ha riaffermato i seguenti due importanti principi.

Con il primo motivo di censura, l’AdE proponeva, contrariamente a quanto accaduto in CTR, di recuperare a tassazione i costi portati in deduzione dal contribuente giacché “utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, come tali indeducibili”. La Corte, pur non entrando nel merito delle singole contestazioni, ha precisato che l’indeducibilità dei costi, seppur legati al compimento di atti qualificatisi come delitti, non sussiste se non sia stata preventivamente esercitata dal Pubblico Ministero l’azione penale, ovvero qualora il Giudice non abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell'articolo 424 del codice di procedura penale, ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall'articolo 157 del codice penale.

Gli Ermellini, infatti, hanno statuito che “qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell'articolo 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell'articolo 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi"; conseguentemente, per la disposizione non è sufficiente, per negare la deduzione, solo la astratta configurabilità della fattispecie delittuosa, ma è richiesto anche che la stessa sia stata oggetto di esercizio dell'azione penale da parte dal Pubblico Ministero. Nel caso di specie tale azione non era stata intentata, e conseguentemente i costi sostenuti dovevano essere correttamente portati in deduzione.

Con il secondo motivo di censura l’AdE proponeva di non riconoscere l’esenzione IVA alle prestazioni effettuate dal contribuente, giacché non abilitato alla professione sanitaria: il motivo per gli Ermellini è meritevole di accoglimento, giacché, secondo precedenti conformi, (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4987 del 01/04/2003; Sez. 5, Sentenza n. 19007 del 28/09/2005; Sez. 5, Sentenza n. 21703 del 22/10/2010) in tema di IVA, le prestazioni per cure mediche e paramediche rese alla persona nell'esercizio delle professioni ed arti sanitarie in virtù dell'art. 10, n. 18, del d.P.R. n. 633 del 1972 sono esenti dall'imposta solo se effettuate da soggetti abilitati al rispettivo esercizio, trattandosi di requisito espressamente contemplato dalla norma, in mancanza del quale la prestazione non assume, sul piano normativo, carattere sanitario”.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Luigi Carbonelli, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 14 Giugno 2021