7 Febbraio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IN TEMA DI IMPOSTE SUI REDDITI L’IRREGOLARITA’ DELLA FATTURA NON REDATTA IN CONFORMITA’ DELL’ART. 21 DPR 633/72 FA VENIR MENO LA PRESUNZIONE DI VERIDICITA’ DI QUANTO IN ESSA RAPPRESENTATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 37209 DEL 29 NOVEMBRE 2021.

La Corte di Cassazione – sentenza n°37209 del 29 novembre 2021 – ha confermato, in tema di imposte sui redditi che l'irregolarità della fattura, non redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto, prescritti dall’art. 21 del DPR n°633/72, fa venir meno il diritto alla deduzione del costo relativo.

Nel caso de quo,  la CTR del Lazio, accoglieva l'appello proposto da una società contribuente nei confronti dell'Agenzia delle Entrate, avverso la sentenza della CTR di Latina che aveva rigettato il ricorso proposto dalla medesima società avverso l'avviso di accertamento con cui l'Ufficio, previo p.v.c. della G.d.F., aveva recuperato a tassazione, costi indebitamente dedotti, ai fini Ires e Irap, e detratti ai fini Iva, in relazione a fatture emesse ritenute prive degli elementi essenziali previsti dall’art. 21, DPR n°633/72 in quanto  mancanti della specificazione della qualità, quantità e luogo delle prestazioni di servizi rese. In particolare, secondo la CTR, le fatture in questione riportavano i dati relativi al servizio di accantonamento e incestamento di prodotti ortofrutticoli, essendo state emesse in esecuzione di contratti di appalto per i servizi di facchinaggio e movimentazione di prodotti ortofrutticoli stipulati dalla contribuente; atteso che le prestazioni rese dall'appaltatore costituivano adempimento di una "obbligazione di risultato" e non di una "obbligazione di mezzi", le relative fatture dovevano fornire, come nella specie, soltanto riscontro della "natura del servizio reso" e non già dei mezzi impiegati a tale scopo, per cui era esorbitante la pretesa dell'Agenzia di necessaria indicazione in esse anche dei "fogli di presenza, nominativi dei soggetti che avevano effettuato le prestazioni, ore lavorate etc.".

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Amministrazione finanziaria eccependo, tra l’altro, la carenza delle informazioni ex art. 21 citato, anche in relazione ai contratti invocati, privi di data certa e dell’indicazione delle precise modalità di espletamento, nonché della quantità delle prestazioni pattuite.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso confermando che la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell'impresa purché sia redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto previsti dal D.P.R 26 ottobre 1972, n. 633, art.21, sicché l'omessa indicazione dei dati prescritti, integra un comportamento del contribuente soggetto a sanzione. Inoltre, hanno precisato gli Ermellini, l'irregolarità della fattura fa venir meno la presunzione di veridicità di quanto in essa rappresentato e la rende inidonea a costituire titolo per il contribuente ai fini del diritto alla deduzione del costo ed alla detrazione dell’Iva; per conseguenza l'Amministrazione finanziaria può contestare l'effettività delle operazioni ad essa sottese e ritenere indeducibili i costi nella stessa indicati.

Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini, i costi, per essere ammessi in deduzione quali componenti negativi del reddito di impresa, debbono soddisfare i requisiti di effettività, inerenza, certezza, determinatezza (o determinabilità) e competenza. Spetta altresì al contribuente l'onere di provare detti requisiti. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall'imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l'importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa.

 

IL DATORE DI LAVORO PRIVATO È TENUTO A SVOLGERE ATTIVITÀ AUTONOMA DI VERIFICA IN ORDINE ALLE DICHIARAZIONI DI ASSENZA DI INCOMPATIBILITÀ PER L’ESPERIMENTO DI INCARICHI EXTRAISTITUZIONALI RETRIBUITI DA PARTE DI DIPENDENTI DELLA P.A.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 38314 DEL 3 DICEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 38314 del 3 dicembre 2021 ha statuito che è legittimo sanzionare il datore di lavoro privato che conferisce un incarico ad un pubblico dipendente in assenza della preventiva autorizzazione della stessa P.A., facendo piuttosto affidamento alle dichiarazioni di insussistenza di incompatibilità da parte del lavoratore.

La controversia trae origine dall’opposizione all’ordinanza ingiunzione dell’Agenzia delle Entrate, con la quale veniva sanzionata una cooperativa toscana per aver attribuito incarichi lavorativi a tre dipendenti pubblici senza la prescritta autorizzazione, in violazione dell’art. 53 del D.Lgs. 165/2001.

Il Giudice a quo accoglieva la domanda, atteso che gli stessi lavoratori si erano presentati esibendo una serie di elementi idonei a determinare una errata percezione della realtà (qualità di liberi professionisti, certificato di attribuzione della partita IVA, iscrizione all’albo professionale e alla relativa Cassa di Previdenza).

Cinque anni dopo, la Corte distrettuale confermava il primo grado, sottolineando come, in caso di violazione cui è applicabile una sanzione amministrativa, l’agente è esonerato da ogni responsabilità se l’errore sul fatto da cui scaturisce l’illecito non è determinato da sua colpa ex art. 3, L. 689/1981.

I Giudici di merito aggiungevano che l’art. 53 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, pur disponendo il divieto di cumulo di incarichi dei pubblici dipendenti in assenza di una preventiva autorizzazione da parte della stessa amministrazione, non adduce alcun riferimento circa specifici oneri a carico del datore di lavoro privato onde assicurare il controllo sulla qualità dei soggetti cui attribuisce il lavoro.

Ebbene la Corte di Cassazione ha ribaltato il decisum affermando che, in tema di pubblico impiego privatizzato, l’esperimento di incarichi extraistituzionali retribuiti dei dipendenti della P.A. è sì condizionato al previo rilascio di autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza, ma vige anche l’onere in capo al datore di lavoro privato di verificare l’assenza delle condizioni che ne impongano il rilascio, senza che detta verifica possa essere surrogata dalle mere dichiarazioni dei lavoratori attestanti l’insussistenza di incompatibilità, poiché queste ultime non sono sufficienti a liberare il conferente dal suo dovere di controllo.

Infatti, se non sussistesse l’onere datoriale per la verifica del rilascio o meno dell’autorizzazione, la violazione di cui all’art. 53, comma 9, sarebbe priva di effettività.

In aggiunta, gli Ermellini hanno rilevato che la qualità di dipendente pubblico non esclude aprioristicamente il possesso di partita IVA – che invece potrebbe essere stata rilasciata per lo svolgimento di altra attività extraistituzionale a seguito di regolare autorizzazione – e, per l'effetto, non è possibile esimere da responsabilità il privato che, facendo affidamento sulle dichiarazioni dei lavoratori, non esplichi ogni ulteriore attività di controllo.


NESSUN TERMINE DECADENZIALE PUO’ DECORRERE SE IL DIPENDENTE, RICHIEDENTE L’ACCERTAMENTO DI UN RAPPORTO DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DI UN DATORE DIVERSO DA QUELLO FORMALE, NON VIENE RAGGIUNTO DA UN ATTO CHE NEGHI LA TITOLARITÀ DEL RAPPORTO STESSO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 40652 DEL 17 DICEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 40652 del 17 dicembre 2021, ha chiarito che il termine di decadenza per la richiesta di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, non decorre fino a che il lavoratore non riceva un provvedimento in forma scritta, o un atto equivalente, che neghi la titolarità del rapporto.

Il caso esaminato ha riguardato la richiesta di accertamento di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato senza soluzione di continuità, sollevata da due lavoratori che, seppur formalmente inquadrati presso varie cooperative, di fatto avevano reso la propria prestazione per un datore diverso da quelli risultanti da contratto, rispettivamente nei periodi dal 2001 al 2013 e dal 1997 al 2013.

Dapprima il Tribunale aveva rigettato la domanda per intervenuta decadenza del diritto ad agire giudizialmente, come stabilito dall’art. 32, comma 4, lettera d), della Legge 183/2010, essendo trascorsi due anni dalla cessazione dei presunti rapporti di lavoro al deposito dei ricorsi introduttivi del giudizio. Per la stessa motivazione, anche il ricorso in appello era stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Salerno.

La Suprema Corte, pur dichiarando il ricorso per cassazione improcedibile poiché depositato oltre i termini previsti dalla Legge, non ha condiviso la conclusione dei Giudici di merito ed ha ritenuto opportuno pronunciarsi sul principio di diritto sotteso alla questione, al fine di ridurre qualsiasi contrasto giurisprudenziale.

Gli Ermellini hanno rilevato preliminarmente che la ratio dell’art. 32, comma 4, della Legge 183/2010 è stata quella di estendere la previsione dell’impugnativa stragiudiziale ex art. 6 della Legge 604/1966, originariamente limitata al licenziamento, ad una serie di ipotesi ulteriori – inclusa quella di richiesta di costituzione o accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto – per contrastare pratiche di rallentamento dei tempi del contenzioso giudiziario.

Tuttavia, trattandosi di una limitazione temporale per l’esercizio dell’azione giudiziaria, la norma soggiace ad una interpretazione rigorosa tale per cui, ai fini della operatività della decadenza di cui all’art. 32, comma 4, della Legge 183/2010, è necessario comunque un provvedimento o un atto da impugnare o un fatto tipizzato come la scadenza del contratto a tempo determinato; testualmente, infatti, i Giudici nomofilattici hanno statuito che “estendere analogicamente ad un “fatto” (cessazione dell’attività del lavoratore) una norma calibrata in relazione ad atti scritti e recettizi ovvero a fatti tipizzati renderebbe eccessivamente aleatorio l’esercizio del diritto di azione del lavoratore”.

Per l’effetto, in tema di richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto, il regime di decadenza non si applica alle ipotesi nelle quali manchi un provvedimento scritto o equipollente di diniego della titolarità del rapporto stesso.

 

LA CASSAZIONE HA DEFINITIVAMENTE CHIARITO CHE IL PROFESSIONISTA UTILIZZATORE DEI LOCALI E DELLA SEGRETERIA IN OUT SOURCING NON PAGA L’IRAP.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.896 DEL 13 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 896 del 13 gennaio 2022, ha statuto che il professionista utilizzatore dei locali e segreteria in outsourcing è escluso dall’imposizione dell’IRAP, ed ha così accolto definitivamente le ragioni di un contribuente, oppostosi al silenzio-rifiuto serbato dall'Agenzia delle Entrate sull'istanza di rimborso dell'imposta de qua versata per alcuni anni.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno confermato in toto la sentenza della CTR di esclusione del requisito dell'autonoma organizzazione, presupposto principe dell'imposta IRAP, sul rilievo proposto da un contribuente, che utilizzava dei servizi in outsourcing di una società di service esterno per quanto riguarda la disponibilità dei locali dell'ufficio e all'assistenza di una collaboratrice part-time con mansioni di segreteria per l'esercizio della professione medica.

Gli Ermellini, con l’ordinanza de qua, hanno confermato che il presupposto dell'autonoma organizzazione sussiste allorquando il professionista sia, sotto qualsiasi forma, il solo responsabile dell'organizzazione e, dunque, non risulti inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse, ovvero impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione ovvero, comunque, si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui, ricordando inoltre che, l'onere della prova dell'insussistenza del requisito dell'autonoma organizzazione, quale presupposto dell'imposizione, grava sempre e comunque, sul contribuente che agisce per il rimborso di quanto già versato.

In nuce, la S.C., ha evidenziato come i Giudici Territoriali si siano uniformati ai superiori principi di diritto, avendo correttamente riconosciuto, in base alle risultanze istruttorie, che l'esercizio della professione medica mediante l'utilizzo dei servizi resi da una società di outsourcing, ossia all’interno di una struttura da altri organizzata, escludesse a priori la sussistenza del presupposto dell'autonoma organizzazione.

 

LA CLAUSOLA DEL PATTO DI PROVA È NULLA SE AL SUO INTERNO NON VENGONO INDICATE CON SUFFICIENTE SPECIFICITÀ LE MANSIONI AFFIDATE AL LAVORATORE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1099 DEL 14 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 1099 del 14 gennaio 2022 statuisce che il patto di prova deve contenere l’indicazione specifica delle mansioni affidate al lavoratore, non apparendo sufficiente il mero richiamo alla contrattazione collettiva, se la stessa non risulti idonea a determinare specificamente le mansioni affidate al lavoratore, che rappresenteranno oggetto di valutazione da parte del datore di lavoro.

Nel caso in esame, una lavoratrice adiva il Tribunale per chiedere l’accertamento della nullità del patto di prova apposto al contratto a tempo determinato, nonché, la conseguente nullità del recesso intimatole dal datore di lavoro per mancato superamento del periodo di prova. Sia in primo che in secondo grado, il ricorso veniva accolto, in quanto, a parere dei Giudici di merito, il rinvio nel contratto individuale di lavoro al livello di inquadramento contrattuale non conferiva specificità alle mansioni da svolgere.

Il datore di lavoro ricorreva quindi in Cassazione. La Suprema Corte, rigettando il ricorso del datore di lavoro, afferma che il patto di prova rappresenta una clausola necessaria alla tutela dell’interesse comune delle parti,  in quanto volto ad attuare un esperimento con il quale sia il datore di lavoro, che il lavoratore, possono valutare concretamente la reale reciproca convenienza del contratto, verificando le capacità del lavoratore da un lato e l’entità della prestazione richiesta, nonché delle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro dall’altra.

Orbene, stante la sua particolare funzione è necessario che la clausola del patto di prova preveda con sufficiente specificità le mansioni affidate al lavoratore, giacché, la valutazione deve avvenire sulla base delle attività assegnate al lavoratore e svolte durante il periodo di prova.

In base alla ormai consolidata giurisprudenza la specificazione può avvenire all’interno del contratto individuale di lavoro anche attraverso rinvio per relationem alle declaratorie del CCNL, ma deve trattarsi comunque di un richiamo sufficientemente specifico e dettagliato rispetto alle attività affidate, non risultando sufficiente il mero richiamo ad una categoria di un determinato livello di inquadramento, il quale può prevedere una pluralità di mansioni.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 7 Febbraio 2022