14 Febbraio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA REVERSIBILITA’ NON SPETTA IN MANCANZA DELLA PROVA DELLA “VIVENZA A CARICO” DEL GENITORE DEFUNTO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 41548/21 DEL 27 DICEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 41548, depositata il 27 dicembre, ha ribadito che al figlio maggiorenne disabile non spetta la reversibilità del genitore pensionato deceduto qualora non provi di essere a carico di detto genitore e, soprattutto, se è ancora in vita l’altro genitore in grado di fornire un adeguato sostegno economico.

Nel caso preso in esame, una donna agiva nei confronti dell’INPS per ottenere la corresponsione in proprio favore, in qualità di figlia disabile, della pensione della madre defunta. La Corte d’Appello, confermando la decisione del Tribunale, respingeva la richiesta a causa della mancata allegazione e dimostrazione, da parte della ricorrente, del requisito della "vivenza a carico" che, unitamente a requisito medico legale, costituisce presupposto imprescindibile per la concessione del beneficio richiesto.

Avverso tale decisione la donna proponeva ricorso in Cassazione denunciando violazione e falsa applicazione della L. 903/1965 nonché dell’art. 24 della Costituzione. La Suprema Corte, invece, riteneva che la Corte d’Appello avesse correttamente applicato la consolidata giurisprudenza (cfr. Cass. N. 9327/2018, Cass. N. 1861/2019) secondo la quale in caso di morte del pensionato il figlio superstite maggiorenne ha diritto alla pensione di reversibilità se riconosciuto inabile al lavoro e a carico del genitore deceduto. Secondo i Giudici, inoltre, il requisito della “vivenza a carico”, sebbene non debba coincidere necessariamente con lo stato di convivenza né con una condizione di totale dipendenza finanziaria, deve essere valutato con rigore essendo necessario dimostrare che il genitore defunto provvedeva, in via continuativa ed in misura prevalente, al mantenimento del figlio inabile. Nel caso specifico, però, detto requisito non solo non era stato provato ma dal certificato di stato di famiglia risultava la presenza nel nucleo familiare del marito della pensionata defunta il quale può provvedere al mantenimento della figlia.

Secondo la Suprema Corte, inoltre, la mancata contestazione del requisito della “vivenza a carico” da parte dell'INPS nella fase amministrativa era del tutto irrilevante in quanto non liberava la ricorrente dall’onere di provare la condizione di dipendenza dalla madre.

 

AIUTI STATALI. SI CONFIGURA IL REATO DI INDEBITA PERCEZIONE PER CHI AUTOCERTIFICA IL FALSO PER RICEVERE PIÙ AIUTI STATALI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2125 DEL 18 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2125 del 18 gennaio 2022, ha statuito che una professionista, presentando una dichiarazione dei redditi falsa per ottenere un finanziamento garantito dallo Stato, e dichiarando inoltre, di aver subito danni all’attività d’impresa a causa del Covid, ancorché i redditi 2019 e 2020 sono rimasti invariati rispetto a quelli del 2018, commette il reato di indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato.

Il caso di specie è relativo ad una professionista che, subito dopo l’inizio dell’emergenza sanitaria causata dalla pandemia da Covid-19, accedeva ad un prestito erogato dalla banca, avvalendosi della garanzia del Fondo di Garanzia PMI, come previsto dal DL n. 23/2020 (id: Decreto "Liquidità"). Successivamente, da indagini della Guardia di Finanza emergeva, inequivocabilmente, la totale falsità della dichiarazione dei redditi presentata per ottenere il finanziamento de quo,  ed inoltre, visto che in base alla normativa richiamata l’importo finanziabile era pari al 25% del reddito e, comunque non superiore a 25.000,00 euro, il finanziamento garantito dallo Stato ottenuto dalla professionista era di gran lunga superiore a quello che avrebbe potuto esserle concesso, con l’aggravante della totale mancanza del presupposto che l’attività fosse stata danneggiata dall’emergenza Covid-19, non avendo avuto nessuna contrazione del proprio volume d’affari. Inizialmente, il Gip aveva ritenuto che il reato contestabile fosse quello di truffa aggravata, ex art.640-bis C.P., per poi riqualificare l’illecito nell’indebita percezione di erogazioni a danni dello Stato, disponendo il sequestro preventivo della somma.

Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour, confermando quanto statuito dal Tribunale del Riesame, hanno ribadito in toto la misura, rimarcando la rilevanza dell’induzione in errore, nella distinzione tra truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato.

Infatti, per gli Ermellini, la condotta della professionista “non costituisce raggiro integrante una truffa con l’inganno” del solo finanziatore, dal momento che quest’ultimo non era tenuto a svolgere alcun accertamento sulla veridicità del contenuto delle autocertificazioni e di conseguenza non poteva essere indotto in errore.

In nuce, la S.C, ha inoltre confermato come nell’indebita percezione di erogazioni pubbliche, che integra il reato di cui all’art. 316-ter, rientra non solo l’ottenimento di una somma di denaro, ma anche la prestazione di una garanzia pubblica, quale quella rilasciata dallo Stato per l’erogazione al privato del finanziamento previsto dal decreto “Liquidità”.


L'AUTORIZZAZIONE DEL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AI FINI DELL'ACCESSO DEL PERSONALE DELL'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA NEI LOCALI ADIBITI PROMISCUAMENTE AD ABITAZIONE DEL CONTRIBUENTE E' NECESSARIA SOLTANTO SE ESISTE UNA AGEVOLE COMUNICAZIONE INTERNA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 1968 DEL 20 GENNAIO 2022.

La Corte di Cassazione – sentenza n°1968 del 20 gennaio 2022 – ha confermato, in tema di accesso ispettivo e promiscuità dei locali adibiti anche ad abitazione del contribuente che l'autorizzazione del PM dipende solo dall'agevole possibilità di comunicazione interna.

Nel caso de quo, la Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate, ufficio locale, avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli che aveva accolto il ricorso di una srl in liquidazione contro l'avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2008. La CTR osservava, in particolare, che era pienamente corretta la sentenza appellata in punto affermazione della invalidità dell'atto impositivo impugnato a causa delle operazioni di verifica eseguite, posto che l'accesso presso la società contribuente aveva riguardato locali ad uso promiscuo aziendale/famigliare della sua legale rappresentante pro tempore, senza che fosse stata rilasciata la – necessaria – autorizzazione del Procuratore della Repubblica territorialmente competente e senza comunque che la verifica fosse stata autorizzata dal funzionario agenziale dotato del relativo potere.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione l'Agenzia delle Entrate.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ribadendo che "In tema di accertamento, l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica, prescritta dal DPR n°633/72, art. 52, commi 1 e 2, ai fini dell'accesso del personale dell'Amministrazione finanziaria (o della Guardia di finanza, nell'esercizio dei compiti di collaborazione con gli Uffici finanziari ad essa demandati) a locali adibiti anche ad abitazione del contribuente ovvero esclusivamente ad abitazione, è subordinata alla presenza di gravi indizi di violazioni soltanto in quest'ultima ipotesi e non anche quando si tratti di locali ad uso promiscuo; destinazione, quest'ultima, che ricorre non soltanto ove i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l'attività professionale, ma ogni qual volta l'agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento di documenti propri dell'attività commerciale nei locali abitativi"

E' infatti da ritenersi fermo nella giurisprudenza della Corte, hanno continuato gli Ermellini, che la "promiscuità" dei locali destinatari di accesso ispettivo fiscale e quindi la necessità dell'autorizzazione del PM territorialmente competente dipenda, esclusivamente, dalla circostanza di fatto che vi sia una "agevole possibilita' di comunicazione interna".

Nel caso in specie, hanno concluso gli Ermellini, stando allo stesso accertamento di fatto della CTR campana, tale circostanza non era ricorrente, trattandosi di immobili non collegati internamente, ma solo esternamente, il che fa evidentemente venire meno la ratio di maggior tutela connessa alla "promiscuità", come prevista dal DPR n°633/72, art. 52, commi 1 e 2.


I COMPORTAMENTI DEL DATORE DI LAVORO CHE LEDANO LA DIGNITÀ E LA REPUTAZIONE DEL LAVORATORE RAPPRESENTANO REATO DI MALTRATTAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2378 DEL 20 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 2378 del 20 gennaio 2022, ha statuito che i comportamenti ingiuriosi del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, lesivi della loro dignità e reputazione, rappresentano reato di maltrattamento.

Nel caso de quo una lavoratrice adiva il Tribunale avverso la condotta tenuta dal suo datore di lavoro, che aveva avuto comportamenti a suo dire offensivi e persecutori nei suoi riguardi. Sia in primo, che in secondo grado, il datore di lavoro veniva condannato per maltrattamenti con conseguente statuizione risarcitoria ed indennitaria a favore della dipendente.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione, lamentando di non aver mai posto in essere condotte vessatorie, avendo rivolto alla dipendente ingiurie o turpiloqui, che non si sarebbero verificate con abitualità.

La Suprema Corte, confermando le statuizioni dei Giudici di prime cure, afferma che risulta infondata la motivazione proposta dal ricorrente, giacché risulta erroneo considerare insussistente il reato di maltrattamento in presenza delle sole affermazioni ingiuriose o del turpiloquio ai danni del lavoratore. Per la sussistenza di tale reato, infatti, è sufficiente il verificarsi di una condotta di abituale prevaricazione, intesa come quella serie di comportamenti che infliggono al suo destinatario sofferenze, fisiche o morali, imponendogli un regime di vita persecutorio o umiliante, in un clima di abituale sopraffazione.

Tali comportamenti possono esplicitarsi, a parere dei Giudici di legittimità, anche attraverso l’utilizzo reiterato di offese o turpiloquio nelle relazioni interpersonali. Oltretutto, nel caso in oggetto tale comportamento era stato posto in essere, non in un colloquio privato tra datore di lavoro e dipendente, ma al contrario in presenza di altri dipendenti, nonché di clienti del datore di lavoro, che con la sua condotta aveva sottoposto, pertanto, la lavoratrice ad una lesione della sua dignità e della sua reputazione.


NELLE SOCIETA’ A SOCIO UNICO E’ LEGITTIMA L’INDAGINE SUI CONTI CORRENTI DELL’AMMINISTRATORE SE NON FORNISCE PROVA CONTRARIA DELL’ESTRANEITA’ DEI MOVIMENTI. L’ACCERTAMENTO ANALITICO NON CONSENTE IL RICONOSCIMENTO DI COSTI PRESUNTI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA 2200 del 25/01/2022

La Corte di Cassazione ha confermato che in caso di accertamento analitico è giustificata l’azione dell’Amministrazione Finanziaria nel considerare riferibili all’attività della società i movimenti effettuati sul conto corrente dell’amministratore.

Il caso in esame nasce da un accertamento fiscale effettuato nei confronti di una società effettuato mediante metodo analitico sui conti correnti della società stessa, ed esteso ai conti correnti dell’amministratore, che non riusciva a giustificare adeguatamente i versamenti, pure ingenti, sul proprio conto corrente: l’Ufficio contestava i costi portati in detrazione dalla società identificati come prelevamenti dell’amministratore.

I giudici della Commissione Tributaria Provinciale riconobbero come costi inerenti l’attività della società i prelevamenti effettuati dall’amministratore dai conti correnti della società, mentre la Commissione Tributaria Regionale riformava la decisione di primo grado, recuperando a tassazione tutti i movimenti non giustificati.

La ricorrente lamenta: 1. non essere sufficientemente provato il nesso tra i conti correnti societari e quelli personali dell’amministratore; 2. nella ricostruzione del reddito non possono non essere considerati costi percentuali aggiuntivi rispetto al maggior reddito accertato.

La Corte di Cassazione rigetta entrambe le tesi: rispetto al primo motivo infatti, è giurisprudenza consolidata che  «In tema di accertamento del reddito d’impresa, gli artt. 32, n. 7, del D.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del D.P.R. n. 633 del 1972 autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, sicché possono assumere rilievo ai fini delle indagini i conti correnti intestati all’amministratore unico e socio assoluto di maggioranza di una società a responsabilità limitata in ragione di movimentazioni sia in entrata che in uscita che non trovino corrispondenza alcuna nelle registrazioni contabili»; Nel caso in esame gli ingenti movimenti di denaro sui conti correnti dell’amministratore non trovavano riscontro puntuale né in contabilità, né con giustificazioni valide (il contribuente segnalava genericamente “alienazione di proprietà immobiliari, dal riscatto di polizze vita e dal ricorso a prestiti sottoscritti per finanziare la società”, senza tuttavia fornire documentazione probatoria);

rispetto al secondo motivo gli Ermellini ribadiscono che nel caso di accertamento analitico (considerando analiticamente tutti i movimenti bancari) non trovano applicazione le procedure valide per gli accertamenti induttivi, che si basano su valori statistici, e che nel caso di specie “è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario”.

Gli Ermellini ritengono quindi prive di fondamento le doglianze del ricorrente.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 14 Febbraio 2022