28 Marzo 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

 

Oggi parliamo di………….

 

COMMETTE REATO L’INTERMEDIARIO CHE INVIA MODELLI F24 CON COMPENSAZIONE DI CREDITI INESISTENTI

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE – SENTENZA 7296 DEL 21 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione Penale è intervenuta nuovamente sulla fattispecie delittuosa in cui incorre l’intermediario che inoltri al sistema telematico dell’Agenzia delle Entrate un modello F24 con compensazioni di crediti inesistenti che eccedano gli € 50.000,00 senza aver effettuato i dovuti controlli.

Il caso in esame riguarda la compensazione di crediti inesistenti operata da un’impresa che aveva acquistato tali crediti da un’altra impresa rivelatasi poi essere una società cartiera: il contribuente aveva sostenuto in giudizio di aver scoperto solo successivamente all’acquisto dei crediti la loro infondatezza ed insistenza e quindi si richiamava ad un principio generico di buona fede. Altrettanto faceva poi, ai fini del discorso che qui più ci interessa, il legale rappresentate della cooperativa che, agendo da intermediaria, inoltrava i modelli F24 in cui erano esposti i crediti inesistenti.

La Corte di Cassazione, come il Tribunale del Riesame, decidendo sul ricorso intentato per la revoca del sequestro preventivo per equivalente come misura cautelare per i reati ascritti, ha rigettato le richieste degli imputati.

In particolare ha ritenuto integrato il delitto di indebita compensazione previsto dall’art.10-quater del D.Lgs. 78/2000 (Nuova Disciplina dei Reati in materia di Imposte) sia nei confronti del contribuente che ha fruito di tali compensazioni, sia nei confronti del legale rappresentante della Cooperativa che ha agito quale intermediaria nella trasmissione.

Aveva infatti osservato il Tribunale del Riesame di Napoli, e la Corte di Cassazione ne ha confermato la valenza, che “la spedizione dei modelli F24 ben può integrare modalità di consumazione del reato, in quanto i relativi professionisti sono portatori delle necessarie conoscenze tecniche, dovendo dunque esercitare un potere di controllo sulla documentazione loro offerta, senza alcuna aprioristica fiducia in quanto prodotto dal cliente”. A ciò si aggiunga il fatto che la Cooperativa aveva negli anni trasmesso “plurime e seriali compensazioni illecite operate attraverso i modelli F24 … in favore di numerose società …, insieme all'assenza di verifiche – anche minimali – da parte dei professionisti deputati alla compilazione e trasmissione telematica dei relativi modelli, che – in una struttura di notevoli dimensioni e con migliaia di clienti – ben avrebbero potuto esser compiute attraverso la documentazione allegata alle richieste provenienti dai clienti stessi”.

In conclusione quini la Corte di Cassazione chiarisce che il reato di indebita compensazione previsto dall’art.10-quater “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro” si consuma con la presentazione del modello F24 che, come noto, se presenta importi a credito può essere inviato tramite modello telematico da intermediario abilitato, che quindi ha una funzione attiva di controllo sull’effettiva disponibilità del credito, e che in mancanza di tali controlli, si rende complice della stessa ipotesi delittuosa.

 

L’INFARTO DURANTE UN VIAGGIO DI LAVORO È A TUTTI GLI EFFETTI INFORTUNIO IN ITINERE

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5814 DEL 22 FEBBRAIO 2022

 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5814 del 22 febbraio 2022, ha affermato che l''infarto occorso al lavoratore durante un viaggio di lavoro è configurabile come infortunio sul lavoro essendo eziologicamente collegato ad un fattore lavorativo e, pertanto, va risarcito.

Nel caso di specie, il lavoratore era stato colpito da un arresto cardiocircolatorio durante un viaggio di lavoro a seguito di una lunga trasferta in una situazione di forte stress dovuta alla cancellazione di un volo aereo per maltempo che lo aveva costretto ad un pernottamento di fortuna in un albergo e ad un successivo viaggio in treno di oltre 700 Km per raggiungere la sede di partecipazione ad una riunione, con un periodo di veglia di quasi 24 ore consecutive. Secondo gli eredi dell’uomo, la condizione appena descritta era stata la causa del malore che aveva portato quest’ultimo al decesso.

La Suprema Corte, ritenuta erronea la decisione dei Giudici di secondo grado, secondo i quali, il rischio del lavoratore sarebbe stato estraneo all'attività lavorativa e configurabile come rischio generico cui possono essere esposti, in modo indifferenziato, tutti coloro che viaggiano in aereo, ha precisato, invece, che la sussistenza di un rapporto tra il "percorso normale" e l'attività di lavoro sarebbe già di per sé sufficiente a garantire la tutela antinfortunistica; pertanto la situazione oggetto di causa va collegata, a pieno titolo, alla nozione di infortunio in itinere. L’infarto occorso all’uomo è configurabile come infortunio sul lavoro dal momento che “è eziologicamente collegato ad un fattore lavorativo”.

Inoltre, condividendo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, i Giudici di Piazza Cavour hanno aggiunto che il ruolo causale dell'attività lavorativa non va escluso da una preesistente condizione patologica del lavoratore la quale, anzi, può rilevare in senso contrario, in quanto può rendere più gravose e rischiose attività solitamente non pericolose e giustificare il nesso tra l'attività lavorativa e l'infortunio; tra l’altro un ruolo di concausa va attribuito anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia.

Pertanto, secondo la normativa sull'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, nel caso di infarto del miocardio occorso in occasione della prestazione lavorativa, anche lo stress psicologico e ambientale può integrare la causa violenta che può avere determinato la lesione mortale.

 

UN AVVISO DI ACCERTAMENTO È CONSIDERATO MOTIVATO QUANDO FA RIFERIMENTO AD UN PROCESSO VERBALE DI CONSTATAZIONE DELLA GUARDIA DI FINANZA REGOLARMENTE NOTIFICATO

 

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE QUINTA – ORDINANZA N.6064 DEL 23 FEBBRAIO 2022

 

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.6064 del 23/02/2022, ha statuito che un avviso di accertamento è considerato motivato correttamente quando fa riferimento ad un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza regolarmente notificato ovvero consegnato all'intimato senza che l'Amministrazione Finanziaria sia tenuta ad includervi notizia delle prove poste a fondamento o riportarne, sia pure sinteticamente, il contenuto.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno rigettato i ricorsi proposti dai contribuenti contro gli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società e dei soci, per gli anni 2005 e 2006, ai fini Iva, Irap e Irpef, i quali deducevano la “violazione o falsa applicazione dell'art. 7 della Legge n. 212 del 2000 e dell'art. 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241”. Infatti, a parere dei ricorrenti, gli avvisi di accertamento notificati alla società ed ai soci erano insufficientemente motivati, in quanto richiamano solamente il processo verbale di constatazione, senza spiegare in alcun modo le ragioni per le quali l'Agenzia delle Entrate ha inteso tali risultanze come plausibili.

Ex adverso, gli Ermellini, con l’ordinanza de qua, hanno evidenziato che un avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione, ai sensi dell’art. 56 del DPR n. 633 del 1972, ogni qualvolta l’Amministrazione Finanziaria abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'an ed il quantum debeatur, sicché lo stesso è correttamente motivato quando fa riferimento ad un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza regolarmente notificato o consegnato all’intimato, senza alcun obbligo per l’Amministrazione Finanziaria, anche solo di riportarne, anche sinteticamente, il contenuto.

In nuce, per la S.C., deve essere comunque fornita una guida alla lettura dell'atto richiamato e tracciare una sorta di fil rouge che consenta al contribuente e al Giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale, di reperire i luoghi specifici dell'atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione della decisione.

 

L’ATTIVITA’ PROFESSIONALE RESA IN REGIME INTRAMOENIA E’ AMMISSIBILE PURCHE’ AUTORIZZATA

 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 6153/2022 DEL 24 FEBBRAIO 2022

 

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 6153 del 24 febbraio 2022, ha sancito che il pagamento di compensi per attività professionale intramuraria, in quanto di carattere eccezionale, è ammissibile solo a condizione che l'attività sia autorizzata e siano adottate tutte le misure necessarie a garantire la separazione con quella istituzionale.

Nel caso preso in esame, l’Istituto Per lo Studio e la prevenzione Oncologica, presentava opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto da un dirigente medico che aveva agito in via monitoria per l’ottenimento di una somma richiesta a titolo di compensi per prestazioni di attività professionale rese in regime di intramoenia nel periodo luglio 2008/novembre 2009. Il Giudice ordinario accoglieva l’opposizione sostenendo la mancanza di una espressa e formale autorizzazione allo svolgimento dell’attività professionale intramuraria. Il dirigente adiva la Corte d’Appello che, non condividendo le conclusioni a cui era giunto il Giudice di prime cure, riteneva che non fosse stata contestata l'attività consistita nella lettura diagnostica di esami radiografici in regime di convenzione con soggetti terzi, pubblici e privati, nè contestato che le prestazioni fossero state rese al di fuori dell'orario di servizio ed accoglieva l’appello.

L’Istituto IPSO ricorreva in Cassazione richiamando il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, dal quale si desume che il pagamento di compensi ulteriori, in quanto di carattere eccezionale, è ammissibile solo a condizione che l'attività sia autorizzata e siano adottate tutte le misure necessarie a garantire la separazione con quella istituzionale.

Per la Suprema Corte il ricorso era fondato in quanto, anche nella dirigenza medica, il principio di onnicomprensività implica che le prestazioni, seppure eccedenti l'impegno ordinario, rientrino nella nozione di retribuzione per obiettivi, salvo che si tratti di prestazioni aggiuntive specificamente previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, come tali remunerabili solo in presenza delle condizioni richieste dalla fonte attributiva del diritto (Cass. civ., n. 32264/2019).

Gli Ermellini, inoltre, osservavano che il legislatore, al fine di incentivare l’esclusività del rapporto di lavoro e contemporaneamente potenziare le capacità del medico, ha previsto lo svolgimento di detta attività sia ponendo specifici oneri a carico delle strutture sanitarie, sia imponendo una serie di prescrizioni tese ad impedire che l'intramoenia possa pregiudicare l'attività istituzionale. L'attività libero-professionale intramuraria può essere svolta e retribuita purchè resa nel rispetto delle seguenti condizioni:

  • le modalità di svolgimento devono essere disciplinate dalle aziende sanitarie nel rispetto dei criteri generali previsti dalle parti collettive;
  • l'esercizio dell'attività professionale intramuraria non deve essere in contrasto con le finalità e le attività istituzionali dell'azienda e lo svolgimento deve essere organizzato in modo tale da garantire l'integrale assolvimento dei compiti di istituto e da assicurare la piena funzionalità del servizio;
  • l'attività libero-professionale intramuraria non può globalmente comportare, per ciascun dirigente un volume di prestazioni o un volume orario superiore a quello assicurato per i compiti istituzionali;
  • l'azienda in sede di definizione annuale di budget, negozia con i dirigenti responsabili delle équipes interessate i volumi di attività istituzionale che devono essere comunque assicurati in relazione alle risorse assegnate e concorda con i singoli dirigenti e con le equipes interessate i volumi di attività libero-professionale intramuraria che, comunque, non possono superare i volumi di attività istituzionale assicurati, prevedendo appositi organismi paritetici di verifica ed indicando le sanzioni da adottare in caso di violazione di quanto concordemente pattuito.

In conclusione, i giudici di Cassazione affermavano che l'attività libero professionale intramuraria può essere svolta e retribuita qualora sia resa nel rispetto delle condizioni sopra indicate, sicché in accoglimento del ricorso cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte territoriale per un nuovo esame.

 

INAMMISSIBILE IL RICORSO CONTRO IL DINIEGO IN AUTOTUTELA IN CASO DI PREGIUDIZI INDIVIDUALI IN ASSENZA DELLA RICORRENZA DI RAGIONI DI RILEVANTE INTERESSE GENERALE ALLA RIMOZIONE DELL'ATTO.

 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.7318 DEL 7 MARZO 2022.

La Corte di Cassazione – ordinanza n° 7318 del 7 marzo 2022 – ha ribadito, in tema di contenzioso tributario, che la richiesta del contribuente di "ritirare", in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo, non può limitarsi ad eccepire eventuali vizi dell'atto medesimo, la cui deduzione è definitivamente preclusa, ma deve prospettare l'esistenza di un interesse di rilevanza generale dell'Amministrazione alla rimozione dell'atto.

Nel caso de quo, una società contribuente aveva impugnato, innanzi alla CTR di Ravenna, il provvedimento di diniego di annullamento in autotutela emesso in relazione ad un avviso di accertamento per imposte dirette ed indirette, mediante il quale veniva contestata la mancata annotazione separata dei costi dichiarati con riferimento a transazioni commerciali stipulate con operatori appartenenti a Paesi inclusi nella c.d. black-list. In particolare, la contribuente aveva invocato l'intervenuta adozione di modifiche legislative, aventi effetti retroattivi, che importavano la riduzione della sanzione comminata.  L'Agenzia delle Entrate, per contro, aveva replicato adducendo che l'atto impositivo era divenuto definitivo per effetto della sua mancata impugnazione e la contribuente aveva già proposto ricorso avverso la consequenziale cartella esattoriale. La CTP, pertanto, dichiarava inammissibile il ricorso in quanto proposto avverso un atto impositivo ormai divenuto definitivo. Parimenti, la CTR rigettava il ricorso proposto dalla società.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società contribuente lamentando un’errata applicazione della norma sull’autotutela.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso affermando preliminarmente che l'elencazione degli atti impugnabili contenuta nel D.Lgs. n° 546 del 1992, art.19, è suscettibile di una interpretazione estensiva e, pertanto, deve essere riconosciuta al contribuente la possibilità di ricorrere, nei termini di legge, alla tutela assicurata dal giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall'Ente impositore, e dunque anche in caso di provvedimenti di diniego, o comunque emessi in sede di autotutela – ancorché l'originario provvedimento sia divenuto già definitivo.

Gli Ermellini hanno tuttavia precisato il carattere discrezionale dell'auto-annullamento da parte dell'Ufficio. In particolare, nel processo tributario, il sindacato sull'atto di diniego dell'Amministrazione di procedere ad annullamento del provvedimento impositivo in sede di autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto, in relazione a ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l'esercizio di tale potere. Occorre quindi la sussistenza dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto che potrebbe anche essere convergente con quello del contribuente.

La ricorrente, hanno continuato gli Ermellini, ha affermato che l'Ente impositore aveva il dovere di riesaminare l'atto, anche alla luce di normativa sopravvenuta, ma non ha esplicitato per quale ragione l'accoglimento delle sue contestazioni, e pertanto l'annullamento del provvedimento di diniego, avrebbe dovuto rappresentare per l'Amministrazione finanziaria una necessità, originata dall'esigenza di evitare una lesione ad un interesse di natura generale, superabile soltanto mediante la rimozione dell'atto. In conclusione, gli Ermellini hanno perciò ritenuto di dettare il seguente principio di diritto: "il sindacato del giudice tributario sul provvedimento di diniego dell'annullamento dell'atto tributario divenuto definitivo è consentito, ma nei limiti dell'accertamento della ricorrenza di ragioni di rilevante interesse generale dell'Amministrazione finanziaria alla rimozione dell'atto, originarie o sopravvenute, dovendo invece escludersi che possa essere accolta l'impugnazione del provvedimento di diniego proposta dal contribuente il quale contesti vizi dell'atto impositivo per tutelare un interesse proprio ed esclusivo".

 

Ad maiora

IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi

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Modificato: 28 Marzo 2022