11 Aprile 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

E’ VALIDO L’AVVISO DI ACCERTAMENTO ANCHE SENZA L’ALLEGAZIONE DEL VERBALE. PER LA CASSAZIONE TALE AVVISO SODDISFA L’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.7278 DEL 7 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.7278 del 07/03/2022, ha statuito che l’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione, quindi è da ritenersi valido, ogni volta che l’Ufficio Finanziario mette il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, in quanto riproduce il contenuto fondamentale degli atti in esso richiamati ancorché non allegati.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour hanno accolto in toto il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate nei confronti della sentenza della CTR Lombardia, che di fatto respingeva l’appello dell’Amministrazione Finanziaria e accoglieva i ricorsi riuniti presentati da una SRL per l’annullamento dell’avviso di accertamento per l’omesso versamento di ritenute d’acconto ed Iva in relazione a prestazioni artistiche, con cui era stata rettificata la dichiarazione dell’anno 2005 e consequenzialmente erano state recuperate le maggiori imposte non versate con le relative sanzioni. La società contribuente, nello specifico, lamentava che l’Ufficio Finanziario aveva allegato solo l’ultimo processo verbale di constatazione senza accludere all’avviso di accertamento i processi verbali relativi alla pregressa attività ispettiva che spiegassero il motivo dell’indagine.

Con la pronuncia de qua, gli Ermellini, hanno sancito che l'avviso di accertamento soddisfa l'obbligo di motivazione ogni qualvolta l'Amministrazione Finanziaria abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'an ed il quantum debeatur, sicché lo stesso è correttamente motivato quando fa riferimento ad un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza regolarmente notificato o consegnato all'intimato, senza che l'Amministrazione sia tenuta ad includervi notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti o a riportarne, sia pur sinteticamente, il contenuto.

In nuce, per la S.C., ai fini della legittimità della motivazione dell'avviso di accertamento ex art. 7 della Legge n. 212 del 2000, devono essere allegati i documenti cui lo stesso fa riferimento, non anche quelli cui fa riferimento il processo verbale di constatazione, i quali devono eventualmente essere prodotti in giudizio al fine di provare la legittimità della pretesa. Inoltre, è bene ricordare che l'obbligo dell'Amministrazione Finanziaria di allegare all'avviso di accertamento gli atti indicati nello stesso deve essere inteso in relazione alla finalità integrativa delle ragioni che giustificano l'emanazione dell'atto impositivo, sicché detto obbligo riguarda i soli atti che assolvano ad una funzione di esplicitazione della pretesa erariale e non siano stati già trascritti nella loro parte essenziale nell'avviso stesso.

 

LEGITTIMA LA RICHIESTA DI RISARCIMENTO SE IL DATORE NON PROVVEDE ALLA MANUTENZIONE ED AL LAVAGGIO DEL D.P.I. 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 8042/2022 DEL 11 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 8042 dell’11 marzo 2022, ha sancito il diritto al risarcimento del danno in favore del dipendente per il quale il datore non aveva provveduto alla manutenzione ed al lavaggio del vestiario fornitogli per le operazioni di raccolta dei rifiuti in strada, ossia una tuta con barre catarifrangenti, atteso che essa deve essere considerata alla stregua di un dispositivo di protezione individuale.

Nel caso in trattazione, un lavoratore, addetto alla raccolta dei rifiuti differenziati e ufficialmente dipendente di un consorzio di bacino in realtà mai costituito, citava in giudizio il Comune di Napoli per ottenere l'accertamento della violazione dell'obbligo di provvedere alla manutenzione ed al lavaggio del vestiario fornitogli – tuta con barre catarifrangenti – costituente dispositivo di protezione individuale.

Il Giudice di primo grado accoglieva l’istanza del lavoratore che, invece, in appello si vedeva respinta l'ipotesi di un risarcimento. Secondo la Corte, infatti, il Comune di Napoli non era il datore di lavoro e, quand'anche si fosse voluto ritenerlo tale, avrebbe dovuto essere qualificato come datore di mero fatto, responsabile, pertanto, solo per il pagamento delle retribuzioni e contributi, ma non anche per le pretese risarcitorie. Per i Giudici, inoltre, il vestiario in questione non poteva essere qualificato come dispositivo di protezione individuale.

Il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione affermando che il Comune di Napoli, avendo utilizzato e diretto il rapporto di lavoro, era di fatto il datore di lavoro e, pertanto, responsabile anche in termini risarcitori. La Suprema Corte, affermava che dalla sentenza d’Appello era emerso che il Consorzio di Bacino, di cui ufficialmente era dipendente il ricorrente,  non era mai stato costituito (ciò per altro risultava incontestato tra le parti), che i rapporti di lavoro degli operatori impegnati nel servizio di raccolta differenziata venivano gestiti in via diretta proprio dal Comune di Napoli che ne organizzava la prestazione lavorativa pagando poi le retribuzioni, e che la prestazione lavorativa veniva resa in favore del Comune stesso che provvedeva anche a fornire gli indumenti di lavoro e i dispositivi di protezione individuali. Sulla base di tali presupposti, quindi, risultavano chiari l'assoggettamento alla eterodirezione datoriale del Comune e l’esistenza di un “rapporto di mero fatto” implicante l'obbligo di apprestare le tutele antinfortunistiche per il lavoratore nonché gli obblighi risarcitori nei confronti dello stesso.

Gli Ermellini, inoltre, ritenevano fondata anche la richiesta di risarcimento, atteso che “la nozione legale di dispositivi di protezione individuale non si riduce alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, come nel caso delle tute con barre catarifrangenti”. A carico del Comune, quindi, si configurava l’obbligo di fornitura e di mantenimento in stato di efficienza di tali indumenti di lavoro, da considerarsi a tutti gli effetti dispositivi di protezione individuali in quanto le loro caratteristiche intrinseche – indumenti ad alta visibilità, giacca e pantalone di colore arancione fluorescente – sono sufficienti a qualificarli tali, in quanto atti a proteggere i lavoratori dai pericoli connessi alla raccolta dei rifiuti in strada in concomitanza con la normale circolazione dei veicoli.


RESPONSABILE IL CEO PER L’OMESSA VALUTAZIONE DEI RISCHI DA COVID-19

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9028 DEL 17 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 9028 del 17 marzo 2022, ha statuito che, laddove il dirigente preposto non abbia i poteri decisionali e di spesa in materia di salute e sicurezza, il formale datore di lavoro rimane l’unico responsabile per la valutazione dei rischi.

La pronuncia trae origine dall'accusa mossa nei confronti del Consigliere delegato e CEO di omessa valutazione, all’interno del DVR, del rischio connesso alle malattie trasmissibili da Covid-19 e di mancata designazione del responsabile per la sicurezza.

Il medesimo, presentando opposizione a decreto penale di condanna, deduceva di aver attribuito la qualifica di datore di lavoro ad un altro dirigente aziendale tramite delega per atto notarile.

La Cassazione ha rilevato, preliminarmente, che, ai fini della sicurezza, per datore di lavoro si intende la figura che è titolare del rapporto di lavoro o che comunque ha la responsabilità dell'organizzazione o dell'unità produttiva in quanto esercita i relativi poteri decisionali e di spesa.

Tale figura non può essere sotto-articolata a seconda delle funzioni svolte o dei settori produttivi, a meno che, nell'ambito di una medesima impresa, non siano previsti una pluralità di datori che siano, però, a loro volta dotati di tutti i poteri decisionali e di spesa necessari per la rispettiva unità organizzativa.

Secondo i Giudici di legittimità, solo se ricorrono dette circostanze, è possibile ammettere la contestuale presenza di un datore di lavoro “apicale” al vertice dell'intera organizzazione con uno o più datori di lavoro “sotto-ordinati”. Laddove, invece, difetti l’elemento essenziale dell’autonomia si profila la figura del dirigente che non solleva il datore dai propri doveri ed obblighi in materia di sicurezza.

Su tali presupposti, la Suprema Corte, ritenendo integrata quest’ultima fattispecie poiché la delega non aveva ad oggetto l’attribuzione di poteri decisionali e di spesa riferiti all’intera struttura organizzativa e risultando dunque parziale, ha condannato il CEO quale unico titolare degli adempimenti previsti dal d.lgs. 81/2008.

 

PER IL COLLABORATORE ISCRITTO ALLA GESTIONE SEPARATA EX ART. 2, COMMA 26, LEGGE N.335/1995 – ANCORCHE' IN REGIME DI MONOCOMMITTENZA – NON VIGE IL PRINCIPIO DELLA AUTOMATICITA' DELLE PRESTAZIONI PREVIDENZIALI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 8789 DEL 17 MARZO 2022.

La Corte di Cassazione – ordinanza n°8789 del 17 marzo 2022 – ha ribadito, in tema di automaticità delle prestazioni ex art. 2116 c.c., che il principio non è applicabile ai collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla Gestione separata Inps.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Milano aveva confermato la pronuncia di primo grado che aveva accolto la domanda di un prestatore d'opera volta ad accertare il proprio diritto al riconoscimento della contribuzione il cui pagamento era stato omesso dalla società committente  presso la quale aveva svolto attività di collaboratore coordinato e continuativo in regime di monocommittenza. Per l'effetto, il collaboratore aveva ottenuto la condanna dell'INPS ad effettuare il relativo accreditamento e la corresponsione della pensione supplementare maturata. La Corte territoriale, in particolare, aveva ritenuto che il collaboratore, iscritto alla Gestione separata ex art. 2, comma 26, Legge n°335/1995 avesse diritto all'accredito ed al trattamento pensionistico oggetto della domanda ancorché in suo favore non risultassero versati i contributi di legge, facendo all'uopo applicazione del c.d. automatismo delle prestazioni previsto ex art. 2116 c.c., comma 1.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'Inps eccependo che gli iscritti alla Gestione separata restano personalmente obbligati al pagamento del contributo.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ribadendo che il principio di automaticità delle prestazioni previdenziali di cui all'art. 2116 c.c., comma 1, non si applica ai collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla gestione separata, atteso che, ai sensi della Legge n°335/1995, art. 2,  essi sono personalmente obbligati alla contribuzione, restando altresì irrilevante che il   D.M. n°281/1996, art. 1, abbia posto, anche a carico dei committenti, nella misura dei due terzi, l'obbligo di versamento dei contributi, trattandosi soltanto di una forma di delegazione legale di pagamento, diretta a semplificare la riscossione, che tuttavia non muta i soggetti passivi dell'obbligazione contributiva.

Gli Ermellini hanno altresì (ri)confermato che il principio generale dell'automatismo delle prestazioni previdenziali – in forza del quale queste ultime spettano al lavoratore anche quando i contributi dovuti non siano stati effettivamente versati – mentre costituisce regola generale di tutte le forme di previdenza ed assistenza obbligatorie per i lavoratori dipendenti, non trova invece applicazione, in difetto di specifiche disposizioni di legge o di una legittima fonte secondaria in senso contrario, nel rapporto tra lavoratore autonomo ed ente previdenziale.

La tesi seguita dalla Corte di merito, hanno concluso gli Ermellini, secondo la quale l'anzidetto principio di automaticità potesse trovare applicazione nel caso di monocommittenza, non può essere condivisa giacché, i lavoratori autonomi titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, con obbligo personale di iscrizione alla Gestione separata Inps, restano personalmente obbligati al pagamento del contributo, mentre, la previsione legale circa le modalità del versamento (da parte del committente anche per la quota a carico del collaboratore) configura piuttosto come un accollo privativo ex lege.

 

IL COMPORTAMENTO ANTIECONOMICO DELL’IMPRENDITORE GIUSTIFICA IL RICORSO ALL’ACCERTAMENTO ANALITICO INDUTTIVO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.8522 del 24/03/2022

La Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di comportamento antieconomico, l’Agenzia delle Entrate è legittimata a compiere un atto di accertamento di tipo analitico-induttivo anche quando questo abbia la sua genesi nelle risultanze degli Studi di Settore.

Nel caso in esame un contribuente aveva ricevuto un atto di accertamento che aveva preso le mosse da un’anomalia riscontrata nell’”indice di rotazione del magazzino” contenuto negli Studi di Settore allegati alla dichiarazione dei redditi. Tale anomali aveva evidenziato che, avuto riguardo al volume d’affari realizzato, il contribuente aveva realizzato un comportamento antieconomico. Confrontando le risultanze dell’applicazione di tale indice (una redditività estremamente bassa) con le dichiarazioni degli anni successivi, l’Agenzia delle Entrate aveva ritenuto integrata la possibilità di emettere un provvedimento accertativo per conclamata antieconomicità dell’attività, ed aveva quindi rimodulato la pretesa erariale nei confronti del contribuente.

La Commissione Provinciale adita aveva confermato la legittimità dell’operato dell’Amministrazione Finanziaria, mentre di diverso avviso era stata la Commissione Tributaria Regionale, che aveva ritenuto eccedente le competenze dell’Ufficio la ricostruzione del reddito, che assumeva basato solo sugli Studi di Settore.

Osserva al contrario la Corte di Cassazione che Occorre quindi precisare che l'accertamento tributario può dirsi fondato su studi di settore solo quando trovi in essi la sua ragione d'essere, il che non si è verificato nel caso in esame, in cui lo studio di settore è stato preso in considerazione solo ai fini di individuare il reddito. Nella specie, … emerge – contrariamente a quanto sostenuto nella decisione impugnata – che la ricostruzione dei ricavi dell'impresa ex art. 39, comma i, D.P.R. n. 600/1973 non è stata giustificata, dall'Ufficio, sulla base degli studi di settore ma da un indice di rotazione del magazzino non coerente, il che lascia presumere che le giacenze di magazzino appaiono fortemente gonfiate nel corso degli anni.“

Concludeva quindi la Corte di Cassazione per il rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia in diversa composizione per un nuovo esame della questione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!


A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 11 Aprile 2022