18 Aprile 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

SE L’ATTIVITÀ DI RACCOLTA DEI RIFIUTI NON VIENE EFFETTUATA FIN DOVE HA SEDE L’AZIENDA, CHE È COSTRETTA A RICHIEDERE UN SERVIZIO SOSTITUTIVO PRIVATO, LA TASSA NON È DOVUTA INTEGRALMENTE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.5940 DEL 23 FEBBRAIO 2022

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.5940 del 23/02/2022, ha statuito che i contribuenti hanno diritto a pagare la Tari in misura ridotta se il servizio non viene svolto regolarmente ovvero non viene svolto affatto, ed inoltre, se l'attività di raccolta non viene comunque effettuata fin dove ha sede l'azienda e la stessa è costretta a richiedere un servizio sostitutivo privato, la tassa in parola non è dovuta integralmente.

Per i Giudici di piazza Cavour, si tratta di “riduzioni cosiddette tecniche, chiamate a regolare situazioni in cui si realizza una contrazione del servizio, e quindi dei costi per il suo espletamento, per motivi oggettivi e a favore di una pluralità indistinta e generalizzata di utenti, i cui presupposti operativi sono dettagliatamente disciplinati dalla legge”, in quanto, “una misura massima della tariffa applicabile, rispettivamente 20% e 40%, graduabile in ribasso, consente di affermare che tali riduzioni siano obbligatorie e che, al verificarsi delle indicate situazioni oggettive che vanno a incidere sul presupposto impositivo, spettino ope legis.

Gli Ermellini, con l’ordinanza de qua, hanno ribadito che l'agevolazione deve essere garantita a prescindere da una espressa previsione nel regolamento comunale, ed il contribuente è tenuto solo a dimostrare che sussistono i presupposti normativi per avere diritto alla riduzione del tributo dovuto. Inoltre, nel caso di specie, la Tari è sicuramente dovuta in misura ridotta se il servizio di raccolta dei rifiuti non viene svolto in modo regolare, e non si tratta di un risarcimento a favore del contribuente o di una sanzione a carico dell'ente, ma di un temperamento della tassazione a fronte di un servizio di raccolta che non viene svolto in modo completo nel territorio comunale. Ergo, se il Comune non riesce a garantire il corretto e regolare servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, ai fini del pagamento della tassa, è sempre responsabile, al di là delle cause che hanno determinato il disservizio.

In nuce, la S.C., ha ricordato che la ratio del tributo è quella di porre gli enti locali nelle condizioni di soddisfare interessi generali della collettività e non di fornire delle prestazioni riferibili ai singoli contribuenti. Pertanto la sussistenza delle condizioni che fanno venir meno la presunzione di legge della potenziale produzione di rifiuti deve essere indicata dal contribuente e va verificata dall'ente impositore, non essendo soggetti all'imposizione solo i locali e le aree che sono oggettivamente inutilizzabili ovvero insuscettibili di produrre rifiuti, e non quelli lasciati in concreto inutilizzati.

 

IL TITOLARE DI IMPRESA È RESPONSABILE DEL RISPETTO DELLE NORME RELATIVE ALLA SALUTE E SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO ANCHE PER I TIROCINANTI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7093 DEL 3 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 7093 del 3 marzo 2022, ha statuito che il titolare di impresa è responsabile del rispetto della normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro anche con riferimento ai tirocinanti, che svolgano attività formative presso la sua organizzazione.

Nel caso de quo una tirocinante si infortunava durante lo svolgimento delle attività formative presso il soggetto ospitante. Ritenuta responsabile per lesioni colpose ex art. 590 c.p., sia in primo che in secondo grado di giudizio, per violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, la titolare dell’impresa ricorreva in Cassazione.

La Suprema Corte, confermando il decisum della Corte Distrettuale, afferma che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 2 comma 1 lett. a) del D. Lgs. n. 81/2008. Infatti, dalla definizione contenuta nella disposizione in oggetto si evince che, ai fini dell’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, sono equiparati al lavoratore anche coloro che svolgano attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al fine di apprendere un mestiere, nonché i soggetti beneficiari delle iniziative di tirocinio formativo o di orientamento ex art. 18 della Legge n. 196/1997 e di cui alle specifiche disposizioni regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza scuola lavoro o di agevolare le scelte professionali, mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro.

Anche in questi casi, dunque, il datore di lavoro sarà tenuto al rispetto degli obblighi previsti per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori. A tal proposito, infatti, nel caso in oggetto la stessa convenzione tra ente promotore e soggetto ospitante suggeriva che spettasse a quest’ultimo il ruolo di garante delle condizioni di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro, né diventa rilevante, in quanto distinta, la questione che riguarda l’assunzione degli oneri previdenziali.

Per le ragioni esposte, la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso della titolare, conferma la sentenza dei Giudici di merito.

 

LA CONDANNA PER DROGA, ANCHE SE PATTEGGIATA, LEGITTIMA IL LICENZIAMENTO DEL COLLABORATORE SCOLASTICO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8631/2022 DEL 16 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, con sentenza n.8631 del 16 marzo 2022, ha statuito la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro a seguito della decadenza dalle graduatorie permanenti provinciali di un collaboratore scolastico, dovuta ad una precedente condanna per reati in materia di droga.

Nel caso in trattazione, infatti, un collaboratore scolastico con contratto a tempo indeterminato proponeva, nei confronti del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del provvedimento che l'aveva dichiarato decaduto dalle graduatorie permanenti provinciali (tramite le quali era stato assunto a tempo indeterminato), che, conseguentemente, aveva comportato la risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza immediata. Il Tribunale ordinario rigettava la domanda ed il lavoratore ricorreva in appello sostenendo di essere stato licenziato illegittimamente a causa di una condanna penale, frutto di una sentenza di patteggiamento per una pena pari a 4 anni e 6 mesi di reclusione e multa di 10mila euro per un reato in materia di droga, che la pena patteggiata era già stata estinta al momento della pubblicazione del bando per l'inserimento in graduatoria e che per tale motivo non l'aveva indicata nella domanda.

La Corte d’Appello, richiamando l'espressa equiparazione tra la sentenza di patteggiamento e la sentenza di condanna, confermava l’orientamento del Tribunale di primo grado e sanciva la legittimità del decreto decadenziale del dirigente scolastico nei confronti del lavoratore.

Avverso questa decisione il lavoratore adiva la Suprema Corte contestando la piena equiparabilità tra la sentenza di patteggiamento e la sentenza di condanna e sottolineando che “aveva scelto” il patteggiamento, all'udienza preliminare, quando era in carcere già da sette mesi ed aveva visto in questo istituto la via più immediata per abbandonare Io stato detentivo, per lui particolarmente afflittivo. Di conseguenza, non si poteva considerare la sentenza di patteggiamento come prova di ammissione di responsabilità. Il ricorrente, inoltre, rimarcava di aver riportato nella dichiarazione sostitutiva del certificato la riproduzione esatta della dicitura prevista dal certificato del casellario giudiziale.

I Giudici di Cassazione, richiamando il bando che aveva portato all’assunzione del lavoratore, rimarcavano che esso prevedeva che “non possono partecipare alla procedura coloro che hanno riportato condanna, anche non definitiva, per un delitto concernente la produzione o il traffico di dette sostanze e coloro che, per Io stesso fatto, sono stati condannati con sentenza definitiva o con sentenza di primo grado, confermata in appello, ad una pena non inferiore a due anni di reclusione”. Atteso che a carico del lavoratore era emersa una sentenza di patteggiamento con l'applicazione della pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione e multa pari a 10mila euro per un reato in materia di droga, risultava chiaro che il lavoratore non avrebbe potuto partecipare al concorso e, pertanto il provvedimento con il quale era stato dichiarato decaduto dalla graduatoria provinciale e conseguentemente licenziato era da ritenersi legittimo. I giudici, dunque, ribadivano l'equiparazione tra la sentenza di patteggiamento e la sentenza di condanna.

La Corte, inoltre, confermava (Cass. N. 4057 del 16/02/2021) la legittimità ad inserire nel bando di concorso finalizzato al reclutamento del personale ATA i requisiti previsti dalla L. 16/1992 per rispondere alle “esigenze proprie di un settore, quale è quello scolastico, che presiede alla funzione educativa e che è connotato da un ordinamento che poggia sull'elevato grado di affidamento richiesto dalla specificità delle mansioni proprie del personale dipendente (personale docente e personale ATA)”.

 

L’ONERE PROBATORIO CIRCA L’IMPOSSIBILITA’ DI RICOLLOCARE IL DIPENDENTE DIVENUTO INABILE ALL’INTERNO DEL CONTESTO AZIENDALE GRAVA SEMPRE SUL DATORE DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 9158 DEL 21 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 9158 del 21 marzo 2022, ha ribadito il principio secondo cui, in caso di sopravvenuta inabilità del dipendente all’esercizio delle mansioni contrattuali, grava sul datore di lavoro l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per ricollocarlo all'interno del complesso aziendale, contemplando anche la possibilità di adibire lo stesso -previo consenso- a mansioni equivalenti o inferiori.

Il caso esaminato ha riguardato un dipendente che, dichiarato inabile a seguito di accertamento sanitario ex art. 5 St. Lav. -e per questo licenziato- adiva il Giudice per far dichiarare la violazione del suo diritto al lavoro. Difatti, con perizia medico legale disposta nel corso di opposizione, si certificava la sua inidoneità fisica riguardava esclusivamente le mansioni di ausiliario che, invero, costituivano solo uno dei profili dell'ampio livello professionale di inquadramento.

Per l'effetto, la Corte distrettuale rigettava il ricorso della società, tenuto conto anche del difetto di allegazione di una qualsiasi prova (anche solo presuntiva) che dimostrasse l'impossibilità di repêchage dello stesso lavoratore, benché quest’ultimo avesse prestato il proprio consenso, prima del licenziamento, a svolgere mansioni deteriori.

Gli Ermellini, nel richiamare la Corte costituzionale, hanno rilevato preliminarmente che la dichiarazione di inidoneità fisica, in esito alle procedure di cui all’art 5 St. Lav., non ha carattere di definitività, potendo il giudice della controversia pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d’ufficio.

Ex adverso, un errato accertamento da parte dell’organo amministrativo deputato graverebbe fatalmente sul lavoratore, che si troverebbe a subire la risoluzione del rapporto anche in assenza di una causa giustificativa.

Ciò posto, hanno statuito che rientrano nel “rischio d’impresa” le conseguenze della scelta del datore di lavoro di optare per l’immediato licenziamento.

Secondo quanto disposto dall’art. 42 del D. Lgs 81/2008, in caso di inabilità sopraggiunta, è dovere del datore quello di ricercare le soluzioni più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti al lavoro e alla salute del dipendente da un lato e quello al libero esercizio di impresa dall’altro. Quanto appena descritto si riflette sul piano processuale, essendo proprio il datore di lavoro -e non il lavoratore- tenuto a dimostrare di aver vagliato tutte le opzioni ragionevolmente attuabili prima di disporre un licenziamento. 

Pertanto, la Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento disponendo la reintegra del lavoratore in uno con il risarcimento del danno ex art. 18 comma 7 della L. 300/70

 

I CREDITI ERARIALI NON POSSONO ESSERE DISCONOSCIUTI SOLO PERCHE’ IL CONTRIBUENTE HA OMESSO DI PRESENTARE LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI

CORTE DI CASSAZIONE   – ORDINANZA 10290 del 31/03/2022

La Corte di Cassazione ha ribadito che in sede di contenzioso tributario il contribuente può provare l’esistenza di crediti anche se ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi, essendo determinante l’analisi della documentazione che il contribuente può far valere in sede giudiziaria.

La Commissione Tributaria della Lombardia aveva confermato il recupero delle imposte dovute da un contribuente ritenendo legittima l'iscrizione a ruolo effettuata dall’Agenzia delle Entrate per la ripresa Irpef, conseguente al disconoscimento del credito di imposta riportato in un anno d’imposta in mancanza di presentazione della dichiarazione per l'anno precedente – implicitamente escludendo valenza probatoria ai documenti prodotti dal contribuente in ordine alla sussistenza del credito medesimo.

La Corte di Cassazione, fa invece notare come “la giurisprudenza ponga in evidenza che la dichiarazione dei redditi, nei limiti in cui costituisca dichiarazione di scienza, non è un elemento intangibile ma, di fronte alle richieste del Fisco, è suscettibile di emenda e ritrattazione, così da influire sulla pretesa dell'erario.” e che “l'emendabilità degli errori di fatto o di diritto, anche omissivi e pure non meramente materiali o di calcolo, commessi dal contribuente nelle dichiarazioni fiscali laddove da essi possano derivare oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli imposti dalla legge, rappresenta l'espressione di un principio generale del sistema tributario, ispirato all'articolo 53 Cost”.

Tale principio di capacità contributiva fonda quindi il convincimento secondo cui gli errori possano essere corretti e chiariti non solo tramite presentazione delle dichiarazioni integrative, ma “altresì, in sede contenziosa, per opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria”, e questo perché in tal modo il contribuente ha l’opportunità di far emergere la propria posizione nello stesso modo in cui sarebbe stata nel caso avesse presentato validamente la dichiarazione dei redditi.

Fondandosi quindi il disconoscimento del credito di imposta esclusivamente sul rilievo meramente formale della non utilizzabilità in compensazione con i debiti di imposta successivi stante la omessa dichiarazione, e non già sulla contestazione della inesistenza del credito medesimo, gi Ermellini decidono per la cassazione della sentenza impugnata.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
     Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 18 Aprile 2022