14 Gennaio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….
 

IL LAVORATORE HA L’ONERE DI DIMOSTRARE L’EVENTUALE DANNO BIOLOGICO PATITO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 33372 DEL 27 DICEMBRE 2018.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 33372 del 27 dicembre 2018, ha (ri)statuito che nel caso in cui il dipendente rivendichi un (presunto) danno biologico patito sia a seguito del demansionamento che del comportamento mobbizzante posto in essere dal datore di lavoro, grava sul prestatore stesso l’onere di fornire prova di quanto rivendicato.
Nel caso di specie un lavoratore subordinato adiva la Magistratura sostenendo di essere stato demansionato e di non aver ricevuto il pagamento della dovuta indennità per alcune trasferte effettuate. Allo stesso tempo il dipendente affermava di essere stato vittima di mobbing e di aver patito, in seguito a tale “vessazione”, un consistente danno biologico.
I Giudici dei gradi di merito accoglievano le richieste del ricorrente per quel che concerneva il danno economico arrecato dal demansionamento e dalle trasferte non adeguatamente remunerate, ma respingevano le pretese inerenti il mobbing ed il correlato danno biologico poiché il prestatore non aveva fornito prova esaustiva ed inconfutabile di quanto affermato.
Il lavoratore ricorreva in Cassazione.
Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che nel caso in cui il dipendente ritenga di essere stato oggetto di un comportamento mobbizzante  e di aver patito, in conseguenza di tale comportamento datoriale, un danno biologico, grava sul prestatore stesso l’onere di dimostrare sia il mobbing subito che il danno biologico patito in sua diretta conseguenza.
Pertanto, atteso che nel caso di specie il lavoratore non aveva fornito prova del mobbing né tantomeno del danno biologico avendo prodotto dimostrazione del “solo” demansionamento, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando la non indennizzabilità del danno biologico.


IL PROFESSIONISTA DEVE SEMPRE VERSARE I CONTRIBUTI PREVIDENZIALI SUI REDDITI PRODOTTI O ALLA CASSA DI CATEGORIA O ALLA GESTIONE SEPARATA INPS

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 32508 DEL 14 DICEMBRE 2018
La Corte di Cassazione, sentenza n° 32508 del 14 dicembre 2018, ha statuito che i professionisti che dichiarano un reddito inferiore alle soglie previste per l’iscrizione alla Cassa Previdenziale di Categoria, sono comunque obbligati ad iscriversi alla gestione separata INPS di cui alla legge 335/95 e versare i relativi contributi.
Nel caso in specie, ad un libero professionista (un Dottore Commercialista) iscritto all’albo professionale di competenza, ma non iscritto alla Cassa dei Dottori Commercialisti per non aver superato il limite minimo di reddito previsto per l’iscrizione, l’INPS notificava un accertamento per richiedere versamento di contributi previdenziali alla gestione separata con relativa iscrizione del professionista alla suddetta gestione.
Il professionista impugnava dinanzi all’autorità giudiziaria il provvedimento dell’Istituto previdenziale, risultando vincitore sia in primo grado che in secondo.
In particolare, la Corte d’Appello riteneva infondato l’accertamento previdenziale operato dall’Inps sull’assunto che a seguito della norma d’interpretazione autentica, di cui all’articolo 18, comma 12, del D.L. n. 98/2011, convertito nella legge 11/2011, l’iscrizione  alla Gestione Separata presso l’INPS, sarebbe stata obbligatoria solo per i lavoratori autonomi che esercitavano una professione per la quale non era obbligatoria l’iscrizione in appositi albi, ovvero per coloro che, pur iscritti in albi, svolgevano un’attività non soggetta a versamento contributivo agli enti di previdenza per i liberi professionisti. Nel caso in specie il professionista risultava iscritto all’Albo dei Commercialisti e la relativa cassa previdenziale prevedeva, comunque, per coloro i quali non dovevano obbligatoriamente iscriversi, il pagamento di un contributo integrativo. E sul punto, hanno precisato i Giudici d’appello, la norma d’interpretazione autentica non distingue in ordine al tipo di contribuzione (contributo integrativo oppure soggettivo).
Orbene, ciò premesso, i Giudici di Piazza Cavour rifacendosi a precedente giurisprudenza di legittimità esistente in materia (sentenze nn. 30344/2017, 30345/2017, 1172/2018/2018, 2282/2018 e 1643/2018), hanno accolto il ricorso dell’Inps ritenendo sussistente l’obbligo d’iscrizione alla gestione separata da parte del professionista osservando che “la contribuzione integrativa, in quanto non correlata all’obbligo di iscrizione alla cassa professionale, ed a prescindere dalla individuazione della funzione assolta all’interno del sistema di finanziamento delle attività demandate alla Cassa professionale, non attribuisce al lavoratore una copertura assicurativa per gli eventi della vecchiaia, dell’invalidità e della morte in favore dei superstiti per cui non può essere rilevante ai fini di escludere l’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata presso l’INPS”.


ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER SCARSO RENDIMENTO DOVUTO AD ASSENZA PER MALATTIA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 31763 DEL 7 DICEMBRE 2018.
La Corte di Cassazione, sentenza n. 31763 del 7 dicembre 2018, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento, quando questo sia connesso ad un elevato numero di assenze per malattia.
Nel caso de quo, il Tribunale accoglieva il ricorso presentato da una lavoratrice, dichiarando l’illegittimità del licenziamento intimatole per giustificato motivo oggettivo, a seguito della rilevazione da parte del datore di lavoro di un elevato numero di giorni di assenza per malattia, rientranti comunque all’interno del periodo di comporto contrattualmente previsto, che avrebbero però pregiudicato l’attività aziendale in termini di efficienza e qualità del servizio erogato.
Tuttavia, i giudici di secondo grado riformavano la sentenza, dichiarando la legittimità del licenziamento sul presupposto che l’obiettivo disservizio, provato dal datore di lavoro e causato dalle reiterate assenze, che avrebbero determinato una prestazione lavorativa non sufficientemente proficua per l’azienda, potesse costituire ipotesi di giustificato motivo oggettivo.
La lavoratrice ricorreva in Cassazione.
Orbene, nel giudizio di legittimità, gli Ermellini hanno ribaltato la sentenza della Corte distrettuale dichiarando illegittimo il licenziamento per scarso rendimento che, a parere dei Giudici della Suprema Corte,  è fattispecie ben diversa dalla non utilità della prestazione lavorativa causata da uno stato morboso, trattandosi nel primo caso di un inadempimento, seppure inconsapevole, degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, nel secondo caso invece le assenze sarebbero meritevoli di un regime di specialità per la particolare tutela del diritto alla salute costituzionalmente garantito, pertanto solo il superamento del periodo di comporto, inteso come periodo di tolleranza utile a contemperare gli interessi delle parti in causa, potrebbe legittimare il recesso dal rapporto di lavoro.
L’opinione contraria, apparirebbe peraltro in contrasto con quanto già affermato dalla stessa Corte di Cassazione S.U. con sentenza n. 2072/1980, con la quale si era già affermata la possibilità di licenziamento per le reiterate assenze dovute a malattia, solo al superamento del periodo di comporto.


LA MALATTIA PROFESSIONALE RETRIBUITA NON E’ UTILE AI FINI DEL SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 26 NOVEMBRE 2018 N. 30547
La Corte di Cassazione, sentenza n° 30547 del 26 novembre 2018, ha statuito che, in caso di assenza del lavoratore per malattia professionale, qualora il contratto collettivo di lavoro applicabile nel caso concreto individui un periodo di assenza retribuito, questo non è utile ai fini del computo del periodo di comporto.
Nel caso de quo, la Corte di Appello di Napoli aveva respinto il ricorso di Poste Spa, confermando la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ritenendo ammissibile la richiesta del dipendente volta a ottenere la restituzione delle retribuzioni relative al periodo di assenza per malattia. Tali somme erano state trattenute dalla società a titolo di recupero del trattamento corrispondente erogato poiché la stessa riteneva che non spettassero.
I Giudici distrettuali, al pari di quelli del primo grado, hanno statuito che andassero retribuiti anche i primi 16 mesi di assenza, determinati da malattia professionale, così come stabilito dal CCNL di categoria.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ricordando che, in caso di malattia professionale o infortunio sul lavoro, i primi 16 mesi di assenza non sono computabili nella base temporale del comporto. Ne consegue che il periodo di comporto, come regolato dalle previsioni di cui dal CCNL, inizi a decorrere solo trascorsi i primi 16 mesi di assenza dal lavoro.
I principi esposti, hanno concluso gli Ermellini, evidenziano la legittima della corresponsione della retribuzione, in quanto i primi 16 mesi di assenza sono esclusi sia dal periodo di comporto sia dal conteggio in termini di erogazione dell’intera retribuzione fissa che viene limitata ad un periodo complessivo di 18 mesi


IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA NON E’ LEGITTIMO SE IL CCNL DI RIFERIMENTO  PREVEDE UNA SANZIONE CONSERVATIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 32500  DEL 14 DICEMBRE 2018.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 32500 del 14 dicembre 2018, ha statuito che è da ritenersi illegittimo il provvedimento espulsivo di un lavoratore nei casi in cui il contratto collettivo applicato preveda, espressamente per quella ipotesi, una misura conservativa.
Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Milano, in riforma del Tribunale di primo grado, dichiarava  illegittimo ma efficace, ex art. 18 comma 5 della l. 300/70, il licenziamento disciplinare che un datore di lavoro aveva irrogato ad un suo subordinato, condannandolo al pagamento di una indennità pari a 14 mensilità.
Il lavoratore, insoddisfatto, proponeva ricorso per Cassazione in base a 4 motivi e l’azienda resisteva con controricorso e ricorso incidentale con altrettanti motivi.
Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno riformato la sentenza della Corte d’Appello precisando che  la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato rientra nell’ipotesi del comma 4 dell’art. 18 solo quando vi è uno scollamento fra la condotta adottata e quella prevista dal contratto di riferimento, nel caso di specie il contratto collettivo prevede una sanzione conservativa. Al di fuori di tale ipotesi, l’eventuale sproporzione, si collocherebbe nelle “altre ipotesi” previste dal successivo comma 5, che prevede la sola indennità risarcitoria.
Per l’effetto, il giudice deve procedere ad una valutazione complessiva, dovendo accertare non solo la sussistenza della giusta causa o giustificato motivo posto a base del licenziamento, ma anche le sanzioni espressamente previste dai contratti colletti.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.
Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Andreozzi Natalia, Francesco Pierro e Michela Sequino

Condividi:

Modificato: 14 Gennaio 2019