20 Gennaio 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI DICEMBRE 2019

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Dicembre 2019. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Dicembre 2019 è pari a 1,793830 e l’indice Istat è 102,50.

 

LA MANCANZA DI RAGIONI OGGETTIVE PER IL RICORSO A DUE TIPOLOGIE CONTRATTUALI, IN RELAZIONE AD UN INDISTINTO E PROLUNGATO RAPPORTO DI LAVORO, LEGITTIMA LA SUSSISTENZA DI UN UNICO CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO.

CORTE DI CASSAZIONE –  SENTENZA N. 32702 DEL 12 DICEMBRE 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n°32702 del 12 dicembre 2019, ha statuito che l'utilizzazione di uno o più schemi contrattuali non corrispondenti alla reale essenza del rapporto, legittima la sussistenza di un unico contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Milano respingeva il reclamo avverso la decisione del Tribunale della stessa città, che aveva rigettato il ricorso in opposizione di una società datrice, confermando l'ordinanza che aveva accertato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, dichiarando illegittimo il licenziamento intimato e condannando la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

In particolare, la Corte milanese osservava che dai dati documentali acquisiti risultavano due distinti rapporti di lavoro tra le parti, il primo dei quali era ricondotto dalle parti ad un contratto di lavoro accessorio (con utilizzo di voucher) ed il secondo, intervenuto alla scadenza del primo, con contratto di apprendistato professionalizzante della durata di 36 mesi, con allegato piano formativo individuale. Nella specie il lavoratore era stato sempre inserito nei turni di lavoro predisposti dalla società ed assegnato ai diversi reparti del negozio, al pari di colleghi stabilmente assunti, per cui non era rinvenibile una ragione effettiva per distinguere tra due diverse tipologie contrattuali, non essendo scontato che il lavoratore avesse avuto nemmeno per il successivo rapporto di apprendistato una reale formazione.

La Corte meneghina evidenziava, altresì, che il lavoratore aveva prestato incontrovertibilmente 231 ore di lavoro accessorio per un reddito imponibile di euro 2.310,00 e pertanto aveva superato il limite imposto dal Decreto Legislativo n°276 del 2003, art.70, (id: euro 2000,00), con la conseguente trasformazione del rapporto di lavoro accessorio in rapporto di lavoro subordinato.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice, sostenendo l'effettività dei due rapporti instaurati, nonché, duolendosi della quantificazione del valore economico assunto per le prestazioni accessorie intrattenute che, se considerate al netto delle imposte e contributi, sarebbero rientrate nel limite imposto dalla normativa.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso avallando, al di là dei rilievi della ricorrente sulla natura e finalità della normativa contenente la disciplina dei rapporti di lavoro accessorio, la complessità della motivazione della Corte che era fondata sulla rilevata mancanza di ogni ragione effettiva per fare ricorso alle due diverse tipologie contrattuali, utilizzate in relazione ad un unico, indistinto e prolungato rapporto lavorativo, solo formalmente precario ed in tal guisa del tutto favorevole alla società, senza alcuna giustificazione del mutamento di titolo, in mancanza anche di una reale formazione per il successivo rapporto qualificato come apprendistato, e sulla avvenuta utilizzazione, da parte della società, di due forme contrattuali al fine di coprire mansioni relativamente semplici, rimaste invariate nel corso dell'intero periodo lavorativo. Peraltro, ulteriore indice di utilizzazione di uno schema contrattuale non corrispondente alla reale essenza del rapporto, era rinvenuto nell'esiguità del periodo di durata del rapporto di lavoro accessorio, con utilizzo di un numero di voucher consistente in un arco temporale ridotto.


LA MANCATA COMPARIZIONE DEL CONTRIBUENTE ALL’APPUNTAMENTO CON IL FISCO NON DETERMINA LA RINUNCIA ALL’ACCERTAMENTO CON ADESIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 27274 DEL 24 OTTOBRE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 27274 del 24 ottobre 2019, ha ribadito un importante principio in materia di computo dei termini per l’impugnazione in caso di presentazione di istanza di accertamento con adesione da parte del contribuente, e cioè che la mancata comparizione del contribuente alla data fissata dall’Ufficio per la definizione in via amministrativa della controversia, sia essa giustificata o meno, non ha alcuna rilevanza in ambito dell’interruzione del periodo di sospensione ai fini del decorso dei termini d’impugnazione dell’atto (di 90 gg). Esso cioè non può in alcun caso far venire meno ab origine gli effetti dell’istanza.

All’uopo si ricorda che l’art. 6 del D.lgs. n. 218 del 1997, al comma 2, prevede che “il contribuente nei cui confronti sia stato notificato un avviso di accertamento o di rettifica, non preceduto dall’invito può formulare, anteriormente all’impugnazione dell’atto, innanzi la commissione tributaria provinciale, istanza in carta libera di accertamento con adesione, indicando il proprio recapito anche telefonico”. Uno dei principali benefici derivanti dall’accertamento con adesione consiste proprio nella sospensione dei termini per la presentazione del ricorso innanzi al Giudice tributario infatti, la norma prevede (comma 3) che, a seguito della presentazione dell’istanza, i termini per l’impugnazione dell’accertamento siano sospesi per un periodo di 90 giorni decorrenti dalla presentazione dell’istanza medesima.

Nel caso in esame, un contribuente aveva proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della C.t.r. che aveva dichiarato inammissibile i ricorsi riuniti avverso due avvisi di accertamento IRPEF, IRAP e IVA perché proposti tardivamente, in quanto era stata presentata istanza con accertamento con adesione, al quale il contribuente però non aveva partecipato seppure invitato nei termini dagli uffici fiscali, per cui, sia la C.t.p. che la C.t.r. avevano ritenuto non operante la sospensione dei termini di 90 giorni.

In particolare, il contribuente presentava ricorso per Cassazione deducendo la violazione e falsa applicazione dell’articolo 6, comma 3, del D.lgs. 218/97 evidenziando come l’omessa presentazione in sede di contraddittorio a seguito di una istanza di accertamento con adesione non può causare la decadenza dal diritto di poter usufruire dei maggiori termini per la presentazione del ricorso.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, ritenendo valide le motivazioni del ricorrente hanno annullato la sentenza impugnata sottolineando e ribadendo un principio consolidato in giurisprudenza di legittimità secondo cui “la sospensione per 90 giorni del termine per la formale impugnazione dell’accertamento, volta a consentire al contribuente e all’Amministrazione Finanziaria uno spatium deliberandi (Cfr. Cass. n. 22878/2017), consegue automaticamente alla presentazione dell’istanza di adesione (Cfr. Cass. 21096/2018) e cessa solo con lo spirare di detto termine, al quale è equiparata dalla legge unicamente la formale e irrevocabile rinuncia all’istanza, ma non anche il verbale di constatazione del mancato accordo (Cfr. Cass. n. 20362/2017), e decorso il termine di novanta giorni dalla proposizione dell’istanza, l’accertamento diventa definitivo se non impugnato nei successivi sessanta giorni (Cass. n. 15401 del 21/06/2017);”.
In nuce, la sospensione del termine di impugnazione di 90 giorni potrà essere interrotta solo dall'univoca manifestazione di volontà del contribuente di non addivenire alla definizione agevolata, che può esplicitarsi attraverso la proposizione del ricorso avverso l'atto di accertamento oppure con formale e irrevocabile rinuncia all'istanza di definizione con adesione. In definitiva, la rinuncia all’adesione è una mera facoltà del contribuente. 

 

IL GIUDICE NON E’ VINCOLATO DALLE PREVISIONI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA AI FINI DELLA SUSSISTENZA DELLA GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO, DATO CHE QUESTA E’ NOZIONE LEGALE.

CORTE DI CASSAZIONE –  SENTENZA N. 31396 DEL 2 DICEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 31396 del 2 dicembre 2019, ha (ri)statuito che il Giudice non è vincolato dalle previsioni della contrattazione collettiva quando deve valutare la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, atteso che deve tener conto solo della nozione legale.

E’ il caso di un dipendente impiegato in un pastificio, già recidivo per effetto di due sospensioni disciplinari nei dodici mesi precedenti, accusato nuovamente di negligenza nel controllo del confezionamento dei cartoni di pasta e di rifiuto di prestazione di lavoro straordinario notturno.

Il datore di lavoro, nel rispetto di quanto previsto in caso di recidiva dal CCNL Alimentari Industria applicato in azienda, procedeva con il licenziamento del dipendente.

Quest'ultimo impugnava la decisione del proprio datore di lavoro, sostenendo innanzi al Giudice, che la legittimità del licenziamento non deve essere vincolata alle tipizzazioni della contrattazione collettiva.

La Corte di Cassazione ha ricordato che il Giudice, pur non essendo vincolato dalle tipizzazioni della contrattazione collettiva, deve tenerne conto delle stesse atteso che, in ossequio a quanto previsto dal comma 4 dell’art. 18 dello Statuto, se la contrattazione prevede una sanzione conservativa al posto del licenziamento, il Giudice non può che applicare la norma e, quindi, dichiarare l’illegittimità del licenziamento.

Nel caso di specie la condotta del lavoratore integrava la nozione di giusta causa, in quanto in grado di scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole ai fini aziendali.

Se il CCNL avesse previsto per una simile condotta una sanzione conservativa il Giudice non avrebbe potuto confermare il licenziamento.

Tuttavia, nel caso in esame, era lo stesso CCNL a prevedere il licenziamento.

 

LEGITTIMO L’ACCERTAMENTO FISCALE PER LA CONDOTTA ANTIECONOMICA ANCHE QUANDO LA SOCIETÀ CHIUDE CON UN BILANCIO IN ATTIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 31814 DEL 5 DICEMBRE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 31814 del 5 dicembre 2019, ha statuito che è legittimo l'accertamento fiscale per la condotta antieconomica anche quando la società chiude con un bilancio in attivo. L’Agenzia delle Entrate deve tener conto anche di un utile molto modesto.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour hanno respinto il ricorso di una piccola impresa start-up, destinataria di un atto impositivo con il quale veniva chiesto il versamento di maggiore IRES, la quale a sua difesa sosteneva che era normale lo scostamento riscontrato dagli studi in quanto l'attività era appena iniziata. Inoltre aveva chiarito che la condotta non potesse considerarsi antieconomica dal momento che il bilancio era sempre stato chiuso in attivo, anche se di poco.

Gli Ermellini, confermando in toto la sentenza dei Giudici Territoriali, hanno spiegato che l'antieconomicità della gestione di un'impresa non può verificarsi solo quando essa concluda il proprio esercizio annuale con una perdita, ma anche quando chiuda il bilancio con un utile talmente esiguo, a fronte di ingenti investimenti sostenuti, da far ritenere senz'altro sconveniente il rischio d'impresa sopportato in rapporto al risultato conseguito. Inoltre, altri indici come le rimanenze finali stimate dalla contribuente con un valore doppio rispetto a quelle iniziali e il fatto che, nonostante i precari risultati di gestione conseguiti, la società ha continuato ad assumere ulteriori dipendenti, hanno avvalorato l’accertamento emesso dall’Amministrazione Finanziaria.

In nuce, la S.C. ha ribadito che non si può escludere che un accertamento basato sullo studio di settore non possa trovare anche altre giustificazioni come, per esempio, riscontrate irregolarità contabili o la ritenuta antieconomicità della gestione aziendale.

 

GLI INDUMENTI DEGLI OPERATORI ECOLOGICI SONO DA RITENERSI DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 31133 DEL 16 DICEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 31133 16 dicembre 2019, ha statuito che gli indumenti degli operatori ecologici sono creati e commercializzati per la prevenzione di specifici rischi e come tali sono da ritenersi dispositivi di protezione individuale, ciò a prescindere dall’intensità della protezione.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Cagliari, a riforma della sentenza del Tribunale di primo grado, accoglieva il ricorso della società ritenendo non risarcibile il mancato lavaggio degli abiti da lavoro in quanto non inclusi nell’elenco dei dispositivi di protezione individuale (ex art. 40 Legge 626/1994).

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno bacchettato i Giudici di merito, ritenendo che l’articolo 40 non può che essere interpretato in modo estensivo, difatti rientra nella nozione legale di dispositivi di protezione individuale qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa concretamente rappresentare una barriera protettiva, benché ridotta o limitata e non solo attrezzature appositamente create e commercializzate per la specifica finalità.

In conclusione, gli abiti da lavoro degli operatori ecologici sono assimilabili ai DPI ed in quanto tale la manutenzione e lavaggio sono a carico del datore di lavoro.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro.

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Modificato: 20 Gennaio 2020