24 Gennaio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE DI RIVALUTAZIONE T.F.R. DICEMBRE

Il 17 gennaio scorso l’ISTAT ha comunicato coefficiente ed indice per rivalutazione TFR Dicembre 2021 (id: dal 15 dicembre al 14 gennaio 2022) determinandoli in 4,359238 e 106,2. Nella medesima data l’informativa è stata trasmessa agli iscritti con newsletter.

IL DIES A QUO PER IL RISARCIMENTO DA DEMANSIONAMENTO DECORRE DALL’ASSEGNAZIONE DEL DIPENDENTE A MANSIONI INFERIORI E NON A FAR DATA DALLA CONTESTAZIONE DELLA NUOVA COLLOCAZIONE IN AZIENDA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 31558 DEL 4 NOVEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 31558 del 4 novembre 2021, ha statuito che il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da dequalificazione deve essere pieno e integrale dovendo ricomprendere tutta la durata in cui la condotta antigiuridica è stata protratta.

La pronuncia della Suprema Corte trae origine dalla richiesta risarcitoria avanzata dal dipendente che, a partire dall’ottobre 2005, era stato adibito a mansioni inferiori in violazione dell’art. 2103 c.c., essendo stato trasferito dal ruolo a lungo rivestito di responsabile del reparto pronto intervento ad una posizione di semplice tecnico di zona presso il reparto Acque Reflue.

Nei primi due gradi di giudizio la pretesa del lavoratore era stata accolta, ottenendo però la condanna dell'azienda per il solo periodo intercorrente tra il luglio 2010 ed il settembre 2013, avendo la Corte distrettuale ritenuto risarcibili i danni alla professionalità ed esistenziale solo a partire dal momento in cui il lavoratore aveva formalmente contestato al datore di lavoro la nuova collocazione in azienda (8 luglio 2010).

Gli Ermellini, rievocando la gravità intrinseca all'uso illegittimo dello jus variandi datoriale in peius poiché idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose sia di natura patrimoniale (id: danno da perdita di professionalità, danno da perdita di chance) che immateriale (lesione alla dignità personale del lavoratore in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 Cost.), rilevano che la reintegrazione della situazione giuridica lesa debba essere piena e integrale, dovendosi estendere a tutto il periodo nel corso del quale si è protratta la condotta datoriale antigiuridica, chiaramente entro i limiti della prescrizione decennale. Pur tuttavia si rammenta che il demansionamento rientra nella categoria degli illeciti permanenti, in ordine ai quali la prescrizione decorre dalla cessazione della condotta contra jus; ciò significa che, se la condotta illecita si protrae nel tempo, si prolunga unitamente alla stessa, e per tutto il relativo periodo, anche la verificazione dell'evento e del danno.

Per l'effetto, secondo i Giudici di legittimità, non solo la pretesa risarcitoria avverso la condotta demansionante si rinnova continuativamente in relazione al perpetrarsi dell'evento dannoso, spostando in avanti nel tempo la prescrizione – che comincia a decorrere da ciascun giorno successivo alla causazione del danno già verificatosi -, ma si aggiunge che il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da dequalificazione spetta al ricorrente sin dal momento in cui ha avuto inizio la condotta illecita.

 

RISARCIMENTO RIDOTTO SE L’INFORTUNIO SUL LAVORO È CAGIONATO DAL “COMPORTAMENTO IMPRUDENTE” DEL LAVORATORE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 36865 DEL 26 NOVEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 36865 depositata il 26 novembre, ha sancito che l’inadempimento datoriale all'obbligo di protezione e prevenzione non è incompatibile con un comportamento incauto del lavoratore vittima di infortunio sul lavoro che determini un concorso di colpa. Nel caso preso in esame, infatti, una collaboratrice scolastica agiva nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Ufficio scolastico regionale e del Liceo presso il quale svolgeva la propria opera, per l’ottenimento di un risarcimento economico per il danno subito a seguito di un infortunio sul lavoro. La lavoratrice, infatti, era scivolata nel piazzale ghiacciato antistante la scuola adibito a parcheggio dell’istituto. Il Tribunale, ravvisando gli estremi dell’infortunio sul lavoro, condannava i convenuti al risarcimento del danno ma la parte attrice, ritenendo l’importo esiguo, proponeva ricorso in Appello. La Corte respingeva l’appello, confermava la pronuncia del Tribunale ed accoglieva la domanda di risarcimento imponendo il pagamento di circa 7.900 euro al Ministero dell’Istruzione, all’Ufficio scolastico regionale ed al Liceo presso il quale la donna era impiegata. Secondo i Giudici d’Appello, infatti, la lavoratrice era caduta nel piazzale ghiacciato perchè uscita da una porta secondaria sulla quale era affisso un cartello con la dicitura “divieto di accesso-uscita, da utilizzare solo in caso di emergenza”, donde il concorso di colpa – pari al 30% – in quanto pur essendo a conoscenza dello stato dei luoghi, sia perchè tra i suoi compiti rientrava quello di mantenere pulito il piazzale stesso, sia perché lo aveva percorso quella stessa mattina, “aveva adottato un comportamento imprudente, non avendo cioè ben ponderato il tragitto da percorrere per recarsi alla fermata dell’autobus e indossando calzature non adatte al periodo di intemperie invernali”.

Avverso tale decisione la lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che l’infortunio era avvenuto a causa della mancata manutenzione del cortile e della mancata imposizione del divieto di transito al personale.

Gli Ermellini ribadivano, innanzitutto, che l’inadempimento datoriale agli obblighi di prevenzione non è in sé incompatibile con l’esistenza di un comportamento “colposo” del lavoratore tant’è che le norme sanciscono l’obbligo, da parte del lavoratore, di osservare i doveri di diligenza anche a tutela della propria incolumità. Pertanto, non poteva escludersi che il comportamento colposo del lavoratore potesse determinare un suo concorso di colpa.

I Giudici, infatti, ritenevano determinanti le circostanze con cui era avvenuto l’infortunio; in particolare, rimarcavano come l’entrata-uscita utilizzata dalla dipendente dovesse essere utilizzata solamente in caso di emergenza, così come debitamente segnalato con cartello, mentre l’entrata principale era stata posta in sicurezza mediante pulizia dalla neve e spargimento di sale. La pericolosità del luogo, inoltre, era nota alla dipendente che avrebbe dovuto utilizzare maggiore cautela nella scelta del tragitto da compiere ed utilizzare calzature adeguate alle condizioni climatiche.

In conclusione la Corte rigettava il ricorso condannando la ricorrente alle spese.

 

LA DOMANDA DI REVOCAZIONE DEVE FAR LEVA SU UNA DOCUMENTAZIONE DECISIVA E PREESISTENTE AL MOMENTO DEL GIUDIZIO ORIGINARIO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 40895 DEL 20 DICEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 40895 del 20 dicembre 2021, ha ribadito che il dipendente può chiedere la revocazione della sentenza in ordine al licenziamento, solo in presenza di un documento decisivo, preesistente alla pronuncia impugnata, che non si sia potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per circostanze imputabili alla parte datoriale ex art. 395 c.p.c..

Il fatto esaminato ha riguardato il ricorso per revocazione proposto dal dipendente licenziato per abuso nella fruizione di due permessi sindacali che, solo dopo la sentenza della Corte distrettuale, era venuto in possesso di un documento di analisi del traffico telefonico che avrebbe attestato la sua effettiva presenza alla riunione sindacale. La revocazione mirava ad ottenere una nuova valutazione della controversia da parte dello stesso giudice che ha adottato la sentenza impugnata, in presenza di circostanze non valutate o non correttamente valutate al momento della decisione.

Tuttavia, anche la domanda di revocazione è stata dichiarata inammissibile poiché il documento prodotto – traffico dati telefonici – risaliva ad epoca successiva alla sentenza revocanda e per di più, il lavoratore non si era trovato nella impossibilità di produrlo nel giudizio originario per causa di forza maggiore oppure imputabile alla parte datoriale.

La Suprema Corte, nel confermare la statuizione della Corte d’Appello, ha rilevato che l’ipotesi di revocazione di cui all’art. 395 n. 3 c.p.c. è ammissibile se il documento decisivo preesista alla decisione impugnata, mentre non può considerarsi sufficiente che anteriore alla decisione sia il fatto rappresentato dal documento medesimo. L'impossibilità di produrre in giudizio il documento, perché possa essere giustificata, deve dipendere da cause di forza maggiore o da fatto dell'avversario e non deve essere imputabile al soccombente.

 

LA LIQUIDAZIONE AL FAMILIARE DEL DIRITTO DI PARTECIPAZIONE ALL'IMPRESA FAMILIARE NON RILEVA COME COMPONENTE NEGATIVO DEL REDDITO DEL TITOLARE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 40937 DEL 21 DICEMBRE 2021.

La Corte di Cassazione – ordinanza n°40937 del 21 dicembre 2021 – ha statuito che la liquidazione al familiare-collaboratore del diritto di partecipazione all'impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti e non rileva come componente negativo del reddito.

Nel caso de quo, un contribuente aveva impugnato la cartella di pagamento emessa dal Concessionario ai fini del recupero di Irpef, eccependo l'illegittimità della ripresa a tassazione da parte dell'Agenzia delle Entrate della somma di Euro 100.000,00, indicata nel modello unico al rigo riguardante "perdite di impresa portate in diminuzione dal reddito", corrisposta al padre – collaboratore familiare nella farmacia di cui il contribuente era titolare – a titolo di diritti da quest'ultimo maturati in conseguenza della cessazione dell'impresa familiare a suo tempo costituita.

La Commissione tributaria provinciale di Lecce accolse il ricorso e la sentenza venne impugnata dall'Agenzia delle Entrate. Parimenti, la CTR rigettò l'appello dell'Ufficio.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'AdE ponendo in evidenza che la liquidazione al familiare del diritto di partecipazione all'impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti e non rileva come componente negativo del reddito, né è deducibile dal reddito d'impresa, non ricorrendo il requisito dell'inerenza che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.

 Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ritenendo fondato il motivo di doglianza. In particolare, gli Ermellini hanno (ri)confermato che l'impresa familiare ha natura individuale e che la partecipazione del familiare ha rilevanza meramente interna nei rapporti tra l'imprenditore ed i suoi familiari, in quanto il fondamento di tale istituto va ravvisato nella solidarietà che deve risiedere nei rapporti familiari e nell'esigenza di tutela e valorizzazione del lavoro prestato dai componenti della famiglia che hanno dato il loro contributo all'impresa, così come stabilito dall'art. 230-bis c.c.; l'imprenditore, pertanto, deve devolvere parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano nell'impresa e deve liquidare al familiare il diritto di partecipazione nell'ipotesi in cui cessi di lavorare nell'impresa.

La liquidazione del diritto di partecipazione all'impresa familiare, afferendo alla sfera personale dei soggetti del rapporto in questione, posto che non esiste alcun contratto sociale e non sussiste un vincolo societario tra titolare dell'impresa e suoi collaboratori, non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal TUIR con la conseguenza che l'importo attribuito non va, pertanto, assoggettato ad Irpef in capo al soggetto percipiente, non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito di impresa, per mancanza del requisito di inerenza previsto dall'art. 109 TUIR, comma 5.

Pertanto, il diritto di credito (per la liquidazione del diritto di partecipazione) spettante ai collaboratori dell'impresa familiare ha valenza meramente interna, senza conseguenze fiscali.

 

LO SVOLGIMENTO DEL CONTRADDITTORIO CON IL CONTRIBUENTE GIUSTIFICA L’EMISSIONE DI ATTO DI ACCERTAMENTO DA STUDI DI SETTORE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 41943 del 30/12/2021

La Corte di Cassazione ha ribadito che, anche se non valutati dai Giudici di primo e secondo grado, le attività di controllo effettuate dagli Uffici Territoriali dell’Agenzia delle Entrate consistenti nell’invito al contraddittorio del contribuente, giustificano l’emissione di un accertamento da Studi di Settore.

Il caso in esame nasce da un accertamento da Studi di Settore notificato ad una Srl, che ricalcava le risultanze che derivavano dall’applicazione del sistema di calcolo automatico degli Studi di Settore.

La società aveva proposto ricorso contro tale avviso di accertamento, contestando il fatto che tale provvedimento riproponeva esclusivamente la rimodulazione dei ricavi con riferimento allo scostamento risultante dal confronto tra quanto dichiarato e quanto risultante dagli studi di settore, senza ulteriore motivazione.

Sia la Commissione Tributaria Provinciale, sia i Giudici di Appello avevano ritenuto fondate le doglianze del contribuente, nella parte in cui verificavano che lo scostamento oggetto di accertamento era quello risultante dall’applicazione degli Studi di Settore, seppur non motivato.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva quindi in Cassazione per vedere riconosciute le proprie ragioni, ribadendo che l’attività dei verificatori era stata impulsata da un comportamento anomalo della società, che aveva dichiarato perdite o utili trascurabili negli anni precedenti, e che la stessa società era stata invitata a presentare fatti e circostanze che avallassero la regolarità della gestione economica.

La società aveva ottemperato a tale invito, ma le argomentazioni presentate non avevano, secondo l’ufficio, fornito indicazioni tali da modificare il convincimento degli accertatori, che avevano quindi proceduto ad emettere l’atto secondo le indicazioni fornite dallo strumento prescelto, ovvero dalle rilevazioni statistiche a base degli Studi di Settore.

Gli Ermellini ritengono quindi fondate le doglianze dell’Agenzia ricorrente. Invero, come da consolidata giurisprudenza, " non essendo stati applicati gli studi di settore in automatico, come erroneamente afferma la sentenza impugnata, ma dopo una fase amministrativa, in cui il contribuente ha potuto esporre le proprie ragioni, deve ritenersi che il Giudice di appello sia incorso in errore non avendo considerato che sugli studi di settore costituiscono un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento rispetto agli standards in sé considerati, ma nasce solo in esito al contraddittorio nel caso avvenuto non solo formalmente ma sostanzialmente come si è detto", ovvero, in definitiva, dalla presentazione di fatti e circostanze che i verificatori non hanno ritenuto idonei a giustificare gli scostamenti

In conclusione, la Corte di Cassazione rinviava alla Commissione Tributaria Regionale in diversa composizione la trattazione del ricorso.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

Condividi:

Modificato: 24 Gennaio 2022