28 Gennaio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IL DATORE DI LAVORO E’ RESPONSABILE DEL DANNO BIOLOGICO PROVOCATO DAL FUMO PASSIVO E DALL’AMBIENTE DI LAVORO INSALUBRE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 276 DEL 9 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 276 del 9 gennaio 2019, ha nuovamente statuito che il datore di lavoro è responsabile del danno biologico patito dal lavoratore se lo stesso è ascrivibile all’insalubrità del luogo di lavoro dovuta (anche) al fumo passivo.

Nel caso de quo, un dipendente contraeva un tumore faringeo che gli comportava l’intervento chirurgico ed una invalidità permanente quantificata nella misura del 40%. Anche se tale patologia si manifestava dopo la cessazione del rapporto di lavoro, il subordinato sosteneva che la stessa fosse stata provocata dall’esposizione al fumo passivo durata circa 14 anni per almeno 6 ore al giorno. Il dipendente, inoltre, evidenziava l’insalubrità del luogo di lavoro e la sua ridotta dimensione inadeguata allo svolgimento della normale attività lavorativa.

I Giudici dei gradi di merito accoglievano le doglianze del prestatore.

L’azienda datrice di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel dichiarare il ricorso inammissibile in quanto il deliberato dei gradi di merito era logicamente ed ampiamente motivato e, conseguentemente, insindacabile in sede di legittimità, hanno colto l’occasione per evidenziare che il datore di lavoro ex art. 2087 c.c.è responsabile della qualità dell’ambiente di lavoro e del “benessere” del prestatore.

Pertanto, atteso che nel caso di specie il dipendente prestava la propria attività in un locale particolarmente angusto essendo esposto al fumo passivo per almeno 6 ore al giorno e per circa 14 anni, i Giudici di Piazza Cavour, pur dichiarando irricevibile il ricorso per Cassazione, hanno evidenziato la correttezza del deliberato dei gradi di merito.
 

IN IPOTESI DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO PER CESSAZIONE DI ATTIVITA' LA MANCATA COMUNICAZIONE EX ART. 4 COMMA 9 LEGGE 223/91 DETERMINA L'ILLEGITTIMITA' DEI LICENZIAMENTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 89 DEL 4 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 89 del 4 gennaio 2019, ha confermato, nell'ambito della procedura ex artt. 4 e 5 della legge n°223/91, che la comunicazione finale con il nominativo dei dipendenti è obbligatoria anche nel caso di cessazione dell'attività imprenditoriale.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Palermo confermava la pronuncia del Tribunale della stessa città con la quale era stata respinta la declaratoria di illegittimità dell'atto di recesso datoriale al termine di una procedura di licenziamento collettivo in difetto della comunicazione, ex art. 4, comma 9, della legge            n° 223/91, da inoltrare, entro sette giorni dalla conclusione, alle organizzazioni sindacali e agli enti territoriali, contenente l’elenco dei dipendenti licenziati e le modalità attraverso cui erano stati applicati i criteri di scelta nella selezione degli esuberi.

Nella fattispecie la Corte territoriale aveva ritenuto irrilevante il rispetto della previsione normativa per la comunicazione finale atteso che il recesso interessava la totalità dei lavoratori occupati dall’impresa.

I lavoratori, insoddisfatti, hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, riformando la decisione della Corte territoriale. In ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività, hanno affermato gli Ermellini, la violazione del termine di sette giorni per le comunicazioni di cui all'art. 4 comma 9 della legge n°223/1991, introdotto dall'art. 1 comma 44 della legge n°92/2012, determina l'illegittimità del licenziamento e la sanzione del pagamento dell'indennità risarcitoria, per effetto dell'espresso richiamo dell'art. 24 della predetta legge all'art. 4 citato, operato al fine di consentire il controllo sindacale sull'effettività della scelta datoriale.

Da ultimo, hanno sottolineato gli Ermellini, la cessazione dell'attività si inserisce in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilità tende a ridurre le conseguenze della crisi dell'impresa sull'occupazione e pertanto permane, anche in tale ipotesi, l'utilità del controllo finale sull'applicazione dei criteri di scelta e sul nominativo dei lavoratori licenziati.

 

IL CONTRIBUTO INTEGRATIVO PER LA CASSA PROFESSIONALE ADDEBITATO IN FATTURA AL CLIENTE NON È UN ONERE DEDUCIBILE NELLA DICHAIRAZIONE DEI REDDITI

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 32258 DEL 13 DICEMBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 32258 del 13 dicembre 2018, ha statuito che il contributo per la Cassa professionale addebitato in fattura al cliente non è un onere deducibile dal reddito. 

Nel caso in specie, ad un avvocato veniva notificata una cartella di pagamento con la quale si chiedeva il pagamento di € 20.570,26 a titolo di Irpef, a seguito di rettifica della propria dichiarazione dei redditi ex art. 36 ter del D.P.R. n. 600/73, relativa all’anno d’imposta 2002.

La rettifica aveva ad oggetto la ripresa a tassazione dell’importo corrispondente ai contributi cassa previdenziale (4%) addebitati ai clienti in fattura, versati dal contribuente alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza forense.

L’avvocato ricorreva prontamente contro la cartella alla giustizia tributaria eccependo l’inesistenza della notifica della cartella, la nullità dell’atto impugnato per carenza di motivazione, l’infondatezza della pretesa creditoria. La C.T.P. accoglieva il ricorso, mentre la C.T.R. accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte del professionista.

Orbene, nel confermare quanto deciso dal Giudice di appello, gli Ermellini hanno spiegato che «le ragioni esposte dal ricorrente si infrangono sul dato letterale dell'art. 50 del TUIR, secondo il quale dal compenso del professionista sono esclusi i contributi previdenziali e assistenziali stabiliti dalla legge a carico del soggetto che li corrisponde (mentre concorrono a formare la sola base imponibile ai fini IVA). È pacifico che l'importo del 2% (ora del 4%) del fatturato riportato nella parcella sia a carico del cliente, sicché il relativo importo non fa parte delle componenti del compenso e nulla pertanto va dedotto, esulando dalla fattispecie prevista dall'art. 10 del TUIR. Né il caso rientra nelle ipotesi di versamenti eseguiti dal contribuente (professionista) senza che il costo sia ribaltato sul cliente, come ad esempio nel caso in cui il contributo integrativo minimo sia stato versato alla Cassa forense a prescindere dalla fatturazione di prestazioni, perché necessario al raggiungimento dell'importo minimo richiesto per la permanenza della iscrizione alla medesima Cassa (in questa ipotesi deducibile)».

Per la motivazione suddetta il ricorso è stato rigettato con condanna del professionista al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.


INDAGINI BANCARIE LEGITTIME ANCHE PER I PRIVATI CITTADINI IN PRESENZA DI MOVIMENTAZIONI SOSPETTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 104 DEL 4 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 104 del 4 gennaio 2019, ha statuito che tutti i cittadini indistintamente possono finire nel mirino dell’Agenzia delle Entrate in caso di movimentazioni bancarie sospette, in quanto l’Amministrazione Finanziaria può contestare i ricavi in nero sulla base delle indagini sui conti anche ai dipendenti.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, confermando il decisum dei Giudici Territoriali, hanno respinto le doglianze di un dipendente nei confronti di un accertamento sulla base di verifiche fatte sui suoi conti bancari, basate esclusivamente sul fatto di non essere un lavoratore autonomo o impresa e, come tale, non soggetto alla presunzione per cui tutti i versamenti ingiustificati sarebbero dei ricavi non dichiarati.

Per gli Ermellini, con l’ordinanza de qua, il contribuente ha sempre l'onere di superare la presunzione posta dagli artt. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del D.P.R. n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l'estraneità di ciascuna delle operazioni bancarie a fatti imponibili, cosa non avvenuta con l’accertamento in parola.

In nuce, per la S.C. “non assume alcuna rilevanza la sua qualifica soggettiva di lavoratore dipendente, autonomo o imprenditore, dato che la presunzione legale relativa alla prima parte del D.P.R. n. 600/1973, art. 32, comma 1, n. 2, consistente nel fatto che i dati e gli elementi acquisiti attraverso le indagini bancarie possono essere posti a base degli accertamenti e rettifiche, di cui agli artt. 38-41 del D.P.R. n. 600/1973, e agli artt. 54 e 55 del D.P.R. 633 del 1972 per l'IVA, se il contribuente non dimostra di averne tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta, o che essi non hanno rilevanza allo stesso fine, trova applicazione anche a soggetti diversi dagli imprenditori e dai lavoratori autonomi in virtù della portata generale del disposto normativo”.

La questione degli accertamenti basati sulle indagini bancarie è sempre attuale e molto dibattuta. Dopo l'intervento della Corte Costituzionale del 2015, si ricorda che soltanto i versamenti sospetti possono essere contestati dall’Agenzia delle Entrate al contribuente quale libero professionista o lavoratore autonomo, e, ora, alla luce dell’ordinanza in commento, anche i cittadini che lavorano come dipendenti di un ente pubblico e di una società privata potranno essere soggetti ad un’analitica verifica bancaria.


NEL RAPPORTO DI LAVORO PRIVATISTICO E’ SEMPRE OBBLIGATORIO IL PREAVVISO NONOSTANTE IL LAVORATORE ABBIA RAGGIUNTO I LIMITI DI ETA’. 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 521 DELL’11 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 521 dell’11 gennaio 2019, ha statuito che, in riferimento ad un lavoratore con la qualifica di dirigente in ambito privato, sebbene il rapporto rientri nell’alea della libera recidibilità, il recesso, ancorché determinato dal raggiungimento dei limiti di età, non è mai automatico come avviene nel pubblico impiego.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello dell’Aquila non riteneva che le delibere del Consiglio di Amministrazione, contenenti la manifestazione di volontà del dirigente di recedere in una determinata data, esonerassero l’azienda dall’obbligo di comunicazione per iscritto al lavoratore, come previsto dal CCNL dirigenti aziende industriali.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico della corte territoriale, hanno ribadito che il CCNL di riferimento, pur se consente una risoluzione per sopraggiunti limiti di età, senza alcuna motivazione, non libera il datore di lavoro dall’obbligo di comunicazione per iscritto il recesso nei termini di preavviso. Tale automaticità è sempre da escludersi nel settore privato, a differenza di quanto accade nel pubblico impiego.

Quindi, l’assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro fa proseguire il rapporto di lavoro con diritto alla retribuzione anche dopo l’età pensionabile.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 28 Gennaio 2019