31 Gennaio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

OMESSA RISPOSTA DEL DATORE DI LAVORO ALLE RICHIESTE DELL’ISPETTORATO DEL LAVORO. COSTITUISCE IPOTESI DI REATO SOLO NEL CASO IN CUI LE RICHIESTE SONO SPECIFICHE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N.46032 DEL 16 DICEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 46032 del 16 dicembre 2021, ha statuito che il reato di omessa risposta alle richieste di informazioni dell'Ispettorato del lavoro, previsto dall'art. 4 della Legge n. 628/1961, non integra la condotta omissiva del datore di lavoro al quale sia stata genericamente richiesta la trasmissione della "documentazione di lavoro". Secondo la Corte, la condotta penalmente sanzionata, è infatti, unicamente una mancata risposta a richieste di informazioni specifiche e strumentali rispetto ai compiti di vigilanza e di controllo dell'Ispettorato medesimo.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno annullato in toto una decisione di merito in cui la responsabilità penale di un datore di lavoro, per il reato di omessa risposta, era stata ritenuta configurata a fronte di una richiesta che, in realtà, appariva solo generica. Infatti, dal capo di imputazione era emerso che la richiesta aveva ad oggetto la documentazione in materia di personale occupato, tutela dei rapporti di lavoro e legislazione sociale, non emergendo ulteriori indicazioni specifiche sul contenuto della predetta richiesta, se non la generica indicazione che riguardava i documenti in materia di lavoro, venendo così a mancare, la necessaria motivazione sulla sussistenza dell'elemento oggettivo del reato.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno altresì ricordato che il reato di mancata risposta alla richiesta di notizie da parte dell'Ispettorato del Lavoro è integrato anche nel caso di omessa esibizione di documenti richiesti dallo stesso ufficio ispettivo nell'esercizio dei propri compiti di vigilanza e anche quando la richiesta non avvenga nel contesto delle indagini di polizia amministrativa, rimanendo però, ex adverso, tassativamente escluso nei casi in cui l'omissione non attenga a istanze specifiche dell'Organo di Vigilanza ma consegua a una generica richiesta di trasmissione della documentazione di lavoro.

In nuce, per la S.C., non è penalmente responsabile il datore di lavoro che ometta di rispondere a una generica richiesta di trasmissione della documentazione dell'Ispettorato del Lavoro atteso che la condotta penalmente sanzionata è solamente la mancata risposta a richieste di informazioni specifiche e strumentali, mentre è da ritenersi legittima, invece, la configurazione del reato nell'ipotesi di inottemperanza alla richiesta di esibizione della documentazione, comprensiva, specificamente, del libro unico del lavoro, relativa all'avviamento dei lavoratori e alla regolarità contributiva dell'impresa.

 

NESSUN RISARCIMENTO PER USURA PSICOFISICA SPETTA AL LAVORATORE CHE LAVORA NEL GIORNO DI RIPOSO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 41889/21 DEL 29 DICEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 41889, depositata il 29 dicembre, ha sancito che nessun risarcimento per danno psicofisico spetta al lavoratore che abbia prestato la propria opera continuativamente anche durante il giorno di riposo settimanale, atteso che la legge prevede riposi compensativi e maggiorazione della retribuzione nel caso di lavoro prestato nel giorno di riposo.

Nel caso preso in esame, infatti, alcuni lavoratori di un Comune del napoletano proponevano istanza al tribunale per veder riconosciuto il proprio diritto al risarcimento del danno psicofisico patito per aver prestato lavoro di domenica, giorno di riposo settimanale. Sia il Giudice di primo grado che la Corte d’Appello respingevano la richiesta sostenendo che l’orario di lavoro era articolato in turni che prevedevano, una volta ogni quattro settimane, che il servizio fosse prestato anche nella giornata di domenica. Evidenziavano, inoltre, che la possibilità di una prestazione lavorativa anche nel settimo giorno è normativamente riconosciuta ed in tal caso è prevista l'attribuzione di un ulteriore compenso, oltre a quello percepito per il lavoro festivo, anche nell'ipotesi in cui il lavoratore goda, poi, del riposo compensativo.

Avverso tale decisione i lavoratori, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 24 CCNL del 14.09.2000 per il personale del comparto Enti locali e dell’art. 36 Cost. e sottolineando che la Corte territoriale non aveva colto l'obiettivo dell'azione risarcitoria fondata sullo “svolgimento dell'attività lavorativa nel giorno di domenica, destinato al riposo, dopo che la prestazione era già stata resa per sei giorni”, proponevano ricorso in Cassazione. I proponenti sostenevano che, anche se  il riposo settimanale viene differito in un giorno diverso dalla domenica, si genera comunque usura psicofisica e quindi non rileva il godimento o meno del riposo compensativo perché questo interviene quando la fattispecie generatrice del danno è già perfetta e, pertanto, affermavano che in relazione al lavoro prestato nella giornata di domenica, dopo sei giorni di lavoro consecutivi, deve essere riconosciuto il risarcimento del danno in ragione della violazione dell'art. 36 Cost. Non dello stesso avviso la Suprema Corte che confermava quanto stabilito nei gradi precedenti di giudizio. Infatti, ribadendo che la disciplina prevista dall'art. 22 del richiamato CCNL compensa interamente il disagio derivante dall'articolazione dell'orario, purché venga rispettato il limite massimo settimanale, affermava che l'applicazione dell'art. 24 dello stesso contratto, che riguarda l'attività prestata in giorno festivo, è circoscritta ai soli casi in cui si verifichi una prestazione lavorativa eccedente il normale orario di lavoro assegnato al turnista, ossia qualora, in via eccezionale o occasionale, al lavoratore venga richiesto di prestare la propria attività nella giornata di riposo settimanale che gli compete in base al turno assegnato (Cass. n. 39205/2021, n. 19326/2021, n. 28628/2020, n. 8458/2010). La Corte, pertanto, dopo aver accertato che ai lavoratori fosse stata corrisposta la maggiorazione prevista dall'art. 22 CCNL, rigettava il ricorso e condannava i lavoratori al pagamento delle spese processuali.

 

IN CASO DI RISOLUZIONE DEL CONTRATTO DI LOCAZIONE PER MUTUO CONSENSO GLI EFFETTI RETROATTIVI DEL PATTO RISOLUTORIO NON SONO OPPONIBILI ALL'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 41954 DEL 30 DICEMBRE 2021.

La Corte di Cassazione – ordinanza n°41954 del 30 dicembre 2021 – ha (ri)confermato, in tema di imposte sui redditi, che l'unica data certa per considerare cessata la locazione è quella della registrazione della risoluzione.

Nel caso de quo, una società contribuente aveva proposto ricorso contro l'avviso di accertamento in materia di Ires, Irap e Iva relativamente alla omessa fatturazione e contabilizzazione di alcuni canoni di locazione relativi a tre beni immobili. In particolare, i suddetti canoni, sebbene convenuti nei relativi contratti, non erano stati effettivamente percepiti dalla contribuente che aveva stipulato accordi transattivi con i conduttori, convenendo che questi ultimi, per le relative mensilità, godessero gratuitamente degli immobili, che si impegnavano a rilasciare a date concordate; solo in conseguenza dell'effettivo rilascio era stato sottoposto a registrazione il relativo atto. 

La Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva accolto l'appello dell'Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della CTP che aveva accolto le doglianze della contribuente.

La società ha proposto ricorso in Cassazione lamentando l'errore della CTR che aveva preso come riferimento temporale le date di registrazione degli accordi di risoluzione contrattuale e non già quelle, antecedenti, di sottoscrizione degli stessi, con ciò accertando, erroneamente, redditi effettivamente non percepiti.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ritenendo infondato il motivo di doglianza. In particolare, gli Ermellini hanno (ri)confermato che l'unica data certa per considerare cessata la locazione è quella della registrazione della risoluzione che pertanto era stata valorizzata dall'Ufficio al fine di escludere che, prima di essa, potessero considerarsi consensualmente risolti i relativi contratti di locazione, titolo del relativo imponibile.

Tale argomentazione, hanno rimarcato gli Ermellini, riposa sull'applicazione dell'art. 2704 c.c. secondo cui, la data della scrittura privata, della quale la sottoscrizione non è autenticata, non è certa e computabile riguardo ai terzi, se non dal giorno in cui la scrittura è stata registrata. 

L'effetto retroattivo, concludono gli Ermellini, è inopponibile all'Amministrazione Finanziaria, in virtù del fatto che ai sensi dell'art. 1372 c.c., i contratti non hanno efficacia nei riguardi dei soggetti diversi dai contraenti, se non nei casi previsti dalla legge. Per questo motivo, non può essere pregiudicata "la pretesa impositiva medio tempore maturata".

 

IL CONTRATTO COLLETTIVO È APPLICABILE INDIPENDENTEMENTE DA UNA FORMALE ADESIONE ALLE ASSOCIAZIONI STIPULANTI, SE LA SUA APPLICAZIONE AVVIENE PER FACTA CONCLUDENTIA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 74 DEL 4 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 74 del 4 gennaio 2022, (ri)conferma che il contratto collettivo è applicabile anche nei casi in cui le parti non siano iscritte alle associazioni di categoria stipulanti, se durante il rapporto di lavoro si verifichi una costante applicazione delle sue clausole, tale da far desumere la sua applicazione per facta concludentia.

Nel caso in oggetto, un lavoratore adiva il Tribunale per chiedere il pagamento da parte del datore di lavoro di somme relative alla parte variabile del premio di partecipazione, per periodi durante i quali la parte datrice riteneva ormai disdetta la propria adesione all'associazione nazionale di rappresentanza delle imprese.

Se i Giudici di prime cure rigettavano il ricorso, la Corte D’Appello riformava tale pronuncia, ritenendo rilevante il comportamento tenuto dal datore di lavoro, che seppure aveva formalmente disdetto la propria adesione alla rappresentanza datoriale, aveva di fatto continuato ad erogare ai suoi dipendenti diverse voci retributive, incentivanti ed indennitarie previste dal contratto integrativo interaziendale, di conseguenza non appariva fondato il rifiuto di erogare questa ulteriore voce. 

Il datore di lavoro ricorreva quindi in Cassazione. La Suprema Corte afferma che, i contratti collettivi post corporativi di lavoro, non dichiarati efficaci erga omnes ex Legge n. 741/1959, sono atti di natura privatistica, pertanto, applicabili solo alle parti iscritte alle associazioni stipulanti, oppure che attraverso i loro comportamenti espliciti o impliciti abbiano comunque manifestato la volontà di aderirvi. Nel caso in esame, pur essendoci un formale atto di disdetta, con il quale sarebbe venuta meno l’iscrizione del datore di lavoro all’associazione di categoria stipulante, il comportamento di quest’ultimo, che aveva continuato ad erogare tante e significative voci previste dal contratto collettivo integrativo interaziendale, rappresentava una manifestazione implicita della volontà di continuare ad applicare il contratto collettivo.

Per le ragioni esposte i Giudici di legittimità, rigettando il ricorso, confermano la sentenza della Corte d’Appello.

 

L’AMMINISTRATORE DI FATTO E’ RESPONSABILE PER LE CONDOTTE FRAUDOLENTE DELLA SOCIETA’ ED E’ RESPONSABILE IN SOLIDO DELLE SANZIONI TRIBUTARIE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 1546 del 19/01/2022

La Corte di Cassazione ha ribadito che l’amministratore di fatto di una società (ovvero che non risulti dagli atti societari quale legale rappresentante della società) è responsabile di tutte le condotte fraudolente della società e risponde in solido delle sanzioni tributarie comminate alla società.

Il caso in esame nasce da un accertamento fiscale relativo a compravendite di materiale informatico che aveva causato l’irrogazione di avvisi di accertamento, per le annualità 2001-2005, effettuate da una società gestita di fatto da un soggetto diverso dal rappresentante legale.

Sia la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sia la Commissione Tributaria Regionale del Lazio avevano rigettato i ricorsi del rappresentante di fatto, che lamentava non essere sufficientemente provato il rapporto sostanziale tra sé e la società, e dichiarandosi quindi estraneo alle sanzioni amministrative tributarie, che invece gli uffici Finanziari avevano applicato in forza dell’art.11 del D.Lgs 472/1997.

Gli Ermellini ribadiscono il concetto per cui i Giudici sono tenuti, in tema di prove, a formare il proprio giudizio in due momenti distinti, il primo dei quali tende a valutare intrinsecamente i singoli fatti esposti, per scartare quelli ritenuti privi di rilevanza processuale e, in un secondo momento, a considerare la questione nel suo complesso, ammettendo solo gli indizi precedentemente selezionati che siano coerenti con il quadro generale.

Nel caso in esame era emerso, nel corso degli accertamenti, che il legale rappresentante ufficialmente risultante agli atti fosse completamente irreperibile, e che l’attività era portata avanti da un soggetto fornito di password aziendali, che aveva aperto un conto corrente bancario intestato alla società e che deteneva la documentazione aziendale, pur non essendo in alcun modo inquadrato all’interno della società, né come socio, né come dipendente.

Tali circostanze integravano perfettamente il principio di diritto per cui «In tema di società, la persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall'esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza» (Cass., 01/03/2016, n. 4045).

Gli Ermellini ritengono fondate le doglianze dell’Agenzia ricorrente e corrette le interpretazioni delle Commissioni Tributarie Provinciale e Regionale.

Tali considerazioni giustificano altresì l’estensione delle sanzioni comminate anche al rappresentante di fatto, ritenendo integrato anche il principio qualora risulti che il rappresentante o l'amministratore, anche di fatto, della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l'ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio, viene meno la ratio che giustifica l'applicazione dell'art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, diretto a sanzionare la sola società o ente con personalità giuridica, e deve essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa colpisce la persona fisica autrice dell'illecito;

In conclusione, la Corte di Cassazione confermava in toto la decisione già assunta e rigettava il ricorso del rappresentante di fatto.

Ad maiora
IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 31 Gennaio 2022