4 Febbraio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL PRINCIPIO DI IMMUTABILITA’ DELLA CONTESTAZIONE NON PRECLUDE UNA RIVALUTAZIONE DEI FATTI OGGETTO DI RILIEVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 829 DEL 15 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 829 del 15 gennaio 2019, ha (ri) affermato che una diversa rivalutazione dei fatti oggetto di contestazione disciplinare non costituisce variazione degli stessi e, conseguentemente, non viola il principio della immodificabilità, sancito dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, in quanto il prestatore può correttamente esercitare il proprio diritto di difesa.

Nel caso in disamina, un dipendente era destinatario di una contestazione disciplinare per degli ammanchi di cassa riscontrati dal datore di lavoro e per l’appropriazione indebita di tali somme di denaro mancanti dal fondo cassaforte moneta spiccia. All’esito del procedimento disciplinare il prestatore veniva licenziato per i “soli” ammanchi di cassa, senza alcun riferimento alla paventata appropriazione indebita.

Il subordinato ricorreva alla Magistratura sostenendo che le motivazioni del licenziamento fossero difformi da quelle oggetto di contestazione e che non aveva potuto pienamente esercitare il proprio diritto di difesa.

I Giudici dei gradi di merito respingevano le doglianze del prestatore che ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che il principio di immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, che trovino fonte in fatti diversi da quelli contestati, ma non vieta di rivalutare diversamente i fatti stessi, su cui il lavoratore ha avuto modo di difendersi.

Pertanto, atteso che nel caso di specie il datore di lavoro non aveva modificato i fatti oggetto di contestazione ma aveva “semplicemente” effettuato una diversa valutazione degli stessi, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando il deliberato di merito.

 

RISPONDE PER IL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE PREVIDENZIALI L'AMMINISTRATORE IN CARICA NEL MOMENTO IN CUI SCADE IL TERMINE ORDINARIO CONCESSO AL DATORE DI LAVORO PER IL PAGAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE. PENALE – SENTENZA N. 1511 DEL 14 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione -III Sez. Penale, sentenza n° 1511 del 14 gennaio 2019, ha (ri)confermato, in tema di reato per omesso versamento di ritenute previdenziali che resta tenuto al pagamento colui che ne era obbligato al momento dell'insorgenza del debito, anche se "medio tempore" ha perso la rappresentanza dell'impresa.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Trieste aveva confermato la pronuncia del Tribunale di Pordenone, con la quale era stato condannato il Presidente del C.d.A. di una Spa alla pena di giustizia, per il reato di cui all'art. 81, comma 2, C.p. e art. 2, comma 1bis, del D.L. 12 settembre 1983, n°463, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 novembre 1983, n°638. In particolare, l'imputato, nella sua qualità di rappresentante legale, aveva omesso di versare le ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori durante l'anno 2011, per un ammontare superiore alla soglia di legge.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'amministratore, sostenendo che la Corte territoriale non aveva correttamente valutato la successione delle cariche sociali e segnatamente che l'imputato aveva cessato la propria carica al momento nel quale era stata notificata la diffida ex art. 2, comma 1bis della Legge n°638/83. Sicché, non era più riferibile al medesimo l'inadempimento, non potendo più regolarizzare la posizione contributiva e non potendo ordinare ad altri l'adempimento.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendolo infondato. In particolare, gli Ermellini hanno ricordato che il reato per omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, in quanto reato omissivo istantaneo, si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento, fissato al giorno 16 del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi, essendo irrilevante, ai fini dell'individuazione del momento consumativo, che la data per adempiere al pagamento sia fissata nei tre mesi successivi alla contestazione della violazione, poiché la pendenza di tale termine determina esclusivamente la sospensione del corso della prescrizione, per il tempo necessario a consentire al datore di lavoro di avvalersi della causa di non punibilità di cui all'art. 2, comma 1bis della Legge n°638/83.

Inoltre, hanno continuato gli Ermellini, il soggetto attivo del rapporto previdenziale è solo ed esclusivamente il datore di lavoro il quale, anche quando delega ad altri il versamento delle ritenute, conserva l'obbligo di vigilare sull'adempimento dell'obbligazione da parte del terzo. In tale ambito, tenuto ad adempiere alla diffida notificata, resta colui che era obbligato al momento dell'insorgenza del debito anche se, "medio tempore", ha perso la rappresentanza o la titolarità dell'impresa. Ciò in quanto il pagamento costituisce una causa personale di esclusione della punibilità, sicché vi è tenuto solo l'autore del reato, tenuto a sollecitare, nel caso in cui altri abbiano assunto la veste di datore di lavoro, perché succedutisi nella carica sociale, questi, perché adempia al pagamento nel termine trimestrale concesso dall'avviso di accertamento della violazione. In conclusione, l'amministratore, autore del reato, che non sia più legale rappresentante, resta tenuto ad adempiere alla diffida e può beneficiare della clausola di non punibilità adempiendo all'obbligazione secondo lo schema del pagamento del terzo di cui all'art. 1180 c.c.    

 

COMPENSI TROPPO ELEVATI CORRISPOSTI A COLLABORATORI ESTERNI FANNO SCATTARE L’OBBLIGO DI PAGAMENTO DELL’IRAP

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 223 DELL’8 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n° 223 dell’8 gennaio 2019, ha statuito che è soggetto al pagamento dell’IRAP il professionista che nell’esercizio della propria attività professionale eroga elevati compensi a terzi che collaborano nella sua attività professionale, in quanto ciò fa sussistere il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione.

Nel caso in specie, a carico di un professionista l’Agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento per recupero di IRPEF, IVA e IRAP, successivamente però l’importo dovuto veniva iscritto a ruolo a seguito mancato pagamento.

Il professionista impugnava prontamente la cartella ricevuta dinanzi agli organi giurisdizionali, risultando vincitore sia in primo grado che in secondo grado. In particolare la C.T.R. riteneva non sussistere in capo al professionista il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione ai fini IRAP richiesto dall'articolo 2 del D.lgs. n. 446 del 1997.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate che denunciava l’esistenza di un’autonoma organizzazione professionale che avrebbe comportato l'applicazione dell'IRAP in capo al contribuente.

Orbene, gli Ermellini con la sentenza de qua, hanno accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate contro la decisione di merito che aveva escluso l'autonoma organizzazione in capo al professionista che, nell’anno d’imposta per cui era stata emessa la cartella di pagamento oggetto del giudizio, aveva corrisposto compensi a terzi per importi elevati.

In particolare i Giudici di Piazza Cavour hanno osservato che è ben vero, secondo l’orientamento espresso dalla stessa Corte suprema, che, in tema di IRAP, l’elevato ammontare dei ricavi, dei compensi e delle spese, anche per beni strumentali, non integra di per sé il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, (Cass 8728/18), tuttavia nel caso di specie, l’elevato importo e la circostanza che la somma in questione sia stata corrisposta a collaboratori esterni avrebbe necessariamente reso necessario che la sentenza impugnata si desse carico di una più adeguata analisi del tipo di rapporto che legava il contribuente ai predetti collaboratori .

Secondo i Giudici delle Leggi, infatti, si deve tenere conto dell’orientamento secondo cui:  “il presupposto dell'"autonoma organizzazione, richiesto dall'art. 2 del D.lgs. n. 446 del 1997, ricorre quando il professionista responsabile dell'organizzazione si avvalga, pur senza un formale rapporto di associazione, della collaborazione di un altro professionista, stante il presumibile intento di giovarsi delle reciproche competenze, ovvero della sostituibilità nell'espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente” (cfr. Cass. 1136/2017, riferita all’aiuto di studio da parte della moglie del contribuente anch’ella avvocato).


LEGITTIMO L’ACCERTAMENTO SULLA BASE DI UNO SCRITTO ANONIMO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 1348 DEL 18 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 1348 del 18 gennaio 2019, ha statuito che una denuncia anonima legittima l'Amministrazione Finanziaria ad emettere l'accertamento nei confronti del contribuente, e l'atto impositivo de quo emesso sulla base di verifiche bancarie innescate da uno scritto senza firma è valido anche in assenza di altri indizi.

Nel caso di specie, gli Ermellini, ribaltando il verdetto dei Giudici Territoriali, hanno accolto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate nei confronti di una contribuente che aveva ricevuto un accertamento di maggior Irpef per versamenti sul suo c/c ingiustificati, dopo le verifiche bancarie del fisco innescate da una denuncia anonima, la cui difesa era incentrata unicamente sulla mancanza di altri indizi di ricavi in nero oltre la denuncia de qua.

Per i Giudici di Piazza Cavour, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere-dovere dell'amministrazione è disciplinato dall’art.41 del D.P.R. n. 600/73, in termini tali per cui, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, l’Amministrazione Finanziaria determina induttivamente il reddito complessivo del contribuente medesimo, e per quanto possibile i singoli redditi delle persone fisiche, con facoltà di ricorso a presunzioni super semplici, che comportano l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall'ufficio.

In nuce, la S.C. ha inoltre chiarito che riguardo alle argomentazioni difensive relative all'utilizzo, da parte dell'Agenzia delle Entrate, di uno scritto anonimo, che invece non avrebbe potuto essere posto alla base di un accertamento in assenza di un riscontro aliunde, se da una parte, in passato, la stessa Corte ha affermato l'inutilizzabilità di uno scritto anonimo ai fini indiziari necessario per atti invasivi, dall'altra ha comunque ribadito che la denuncia anonima può costituire l'innesco di attività per l'assunzione di dati conoscitivi, che ha già valore in sede penale, ed  a maggior ragione deve, quindi, trovare applicazione in sede tributaria.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO COLLETTIVO NON SEGUITO DALLA COMUNICAZIONE DEI CRITERI DI SCELTA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1516 DEL 21 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1516 del 21 gennaio 2019, ha (ri)statuito che il Giudice è tenuto ad un controllo giudiziale sulle procedure adottate in fase di licenziamento collettivo e sul nesso causale con il licenziamento, ma non sulle scelte imprenditoriali.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Napoli, in riforma del Tribunale di primo grado, accoglieva la domanda volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato il 29/10/2014 nel corso di una procedura art. 4 e 24 della legge 223/1991. La società veniva poi dichiarata fallita con sentenza del 22/12/2015. La decisione della Corte si fondava su un quadro istruttorio formato da testimonianze e documenti dal quale emergeva una volontà della società di protrarre l’attività anche dopo la chiusura del licenziamento collettivo. Dai fatti era emerso che la società, dopo la sensibile riduzione dell’attività, aveva continuato assumendo lavoratori a tempo determinato, già precedentemente licenziati, con lo scopo di ultimare delle commesse ed appaltando parte dei lavoratori licenziati da ditte esterne immediatamente dopo la chiusura della mobilità. 

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, a conferma del ragionamento logico giuridico della Corte d’Appello, hanno ricordato che il licenziamento collettivo è un istituto autonomo sorretto da una puntuale e cadenzata procedura che il datore di lavoro deve seguire con controlli ex ante da parte di soggetti pubblici e delle organizzazioni sindacali, queste ultime dotate di concreti ed incisivi poteri di informazione e consultazione. 

Ne consegue, quindi, che il Giudice non può intervenire sui motivi specifici della riduzione, ma può controllare la correttezza della procedura di licenziamento collettivo adottata e ed i criteri di scelta adottati, ovvero la verifica del nesso causale. Dal quadro prospettato viene confermata la simulazione del licenziamento collettivo, in particolare a seguito di mancata procedura di individuazione dei criteri di scelta e di fittizia cessazione dell’attività.

Ad maiora


IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

 

 

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Modificato: 4 Febbraio 2019