12 Febbraio 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

NELLE PROCEDURE DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO LA SCELTA DEI LAVORATORI DA LICENZIARE DEVE ESSERE AMPLIATA AD ALTRI SETTORI PRODUTTIVI IN CASO DI FUNGIBILITA' DELLE FUNZIONI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2284 DEL 30 GENNAIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 2284 del 30 gennaio 2018, ha (ri)statuito che nell'ambito della procedura mirata al licenziamento collettivo dei lavoratori, l'analisi mirata all'individuazione delle maestranze da licenziare non può limitarsi ad un singolo reparto produttivo se i prestatori da espellere possono ben ricoprire, per averle già espletate in azienda, altre mansioni.

Nel caso de quo, una dipendente, all'esito della procedura ex lege n° 223/91, veniva licenziata per la soppressione della propria posizione lavorativa. La prestatrice adiva la Magistratura evidenziando di poter essere collocata in altro settore produttivo dell'azienda in quanto aveva svolto, alcuni anni prima del recesso datoriale, altre funzioni. In subordine la dipendente chiedeva che la procedura di licenziamento collettivo fosse estesa ad altri settori dell'azienda coinvolgendo professionalità uguali a quelle da lei ricoperte anni addietro.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, l'azienda datrice di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, i Giudici dell'organo di nomofilachia, nel confermare integralmente il deliberato di prime cure, hanno evidenziato nuovamente che, nell'ambito della procedura mirata ad effettuare dei licenziamenti collettivi, la scelta non si può limitare ai soli addetti ad uno specifico reparto se i prestatori sono idonei, per acquisita esperienza e per pregresso e frequente svolgimento della propria attività in altri reparti, a svolgere altre attività lavorative. Ex adverso la valutazione del personale da licenziare deve essere ampliata coinvolgendo (anche) lavoratori di altri reparti.  

Pertanto, atteso che nel caso di specie il datore di lavoro non aveva coinvolto altri reparti produttivi nella valutazione dei lavoratori da licenziare, anche se la subordinata aveva le necessarie professionalità e l'adeguata esperienza aziendale per ben ricoprire altre mansioni, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso confermando l'illegittimità del recesso datoriale per omessa valutazione della fungibilità della posizione lavorativa della dipendente licenziata.


LA SOLA PRODUZONE DEI CEDOLINI PAGA IN ASSENZA DEI CERTIFICATI MEDICI NON INTEGRA LA PROVA DEL SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO. 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1634 DEL 23 GENNAIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1634 del 23 gennaio 2018, ha statuito la illegittimità di un licenziamento comminato per superamento del periodo di comporto, ritenendo non sufficiente a provare l'assenza del lavoratore, la mera produzione, da parte del datore di lavoro, dei cedolini paga del periodo.

Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Venezia aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento comminato ad un lavoratore per superamento del periodo di comporto, con conseguente condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 legge n°300/70 (nel testo antecedente la novella legislativa n°92/2012). Il Giudice d'Appello aveva ritenuto non sufficienti gli elementi probatori tesi a provare le assenze del lavoratore a causa di malattia, a fronte della produzione dei soli cedolini e non dei certificati medici.

La società datrice ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, ritenendo errati i motivi esposti dalla Corte territoriale che aveva addossato alla parte datrice non solo la prova del superamento, da parte del lavoratore, del periodo di conservazione del posto di lavoro, ma di produrre anche le ragioni delle assenze.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ribadendo, in primis, che il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non già ad un licenziamento disciplinare, ma ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo; così che solo impropriamente può parlarsi di contestazione delle assenze, non essendo necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale e trattandosi di eventi, l'assenza per malattia, di cui il lavoratore ha conoscenza diretta. Ne consegue che il datore di lavoro non deve indicare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni complessive, idonee ad evidenziare il superamento del periodo, fermo restando l'onere, in sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato.

Nel caso de quo, hanno continuato gli Ermellini, la Corte distrettuale ha correttamente gravato il datore di lavoro della prova della riconducibilità a malattie di tutte le assenze indicate nella lettera di licenziamento. Dal che, hanno concluso gli Ermellini: "la sola busta paga, documento di provenienza datoriale, non è sufficiente, non potendosi fare derivare dalla mera ricezione del prospetto, alcun significato concludente circa l'accettazione dei titoli – quindi, anche l'indennità di malattia – che determinano la sua liquidazione".


LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DI UN DIPENDENTE CHE RIFIUTA DI SVOLGERE MANSIONI INFERIORI ASSENTANDOSI ARBITRARIAMENTE PER PIU GIORNI DAL LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 836 DEL 16 GENNAIO 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 836 del 16 gennaio 2018, ha statuito la piena legittimità del licenziamento nei confronti di un dipendente che dopo essere stato adibito a mansioni inferiori si era assentato arbitrariamente dal lavoro per più giorni.

IL FATTO

Un lavoratore, veniva assegnato dal proprio datore di lavoro per 2 mesi a mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica contrattuale. Con propria lettera di diffida successivamente aveva richiesto la riassegnazione alle mansioni precedenti e dal giorno successivo si assentava dal lavoro, per più di quattro giorni. Il datore di lavoro a seguito delle assenze ingiustificate lo licenziava per giusta causa.

Sia il Giudice di prime cure che la Corte d’Appello accoglievano il ricorso del lavoratore reintegrandolo nel posto di lavoro. In particolare la Corte d’Appello disponeva la reintegrazione in servizio ai sensi dell’art. 18, L. n. 300/70, ritenendo l’assenza dal lavoro quale legittima forma di autotutela ai sensi dell’art. 1460 cod. civ..

Orbene, i Giudici delle Leggi, pur confermando il dimensionamento e la parziale sussistenza dei presupposti per l’applicazione della citata norma civilistica, con la sentenza de qua, hanno accolto il ricorso del datore di lavoro soccombente nel giudizio di merito.

In particolare, i Giudici del Palazzaccio, uniformandosi a precedenti giurisprudenziali, hanno affermato che il lavoratore vittima di demansionamento può far presente l’illecito e rivolgersi al Giudice del lavoro, ma non può di sua iniziativa sospendere del tutto la prestazione lavorativa, cui è obbligato per contratto, fintantoché il datore di lavoro assolve i propri obblighi quali pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro (cfr. Cass. 29.1.2013, n. 2033; Cass. 20.7.2012 n. 12696; Cass. 19.12.2008 n. 29832, Cass. 5.12.2007 n. 25313).

Infatti, hanno precisato gli Ermellini, in un contratto una parte contrattuale può rendersi totalmente inadempiente e invocare l'art. 1460 c.c. soltanto se è totalmente inadempiente l'altra parte e su questo punto la Corte territoriale non si era  soffermata sulla tempistica degli avvenimenti e, in particolare, sull'assenza dal posto di lavoro già nel giorno immediatamente successivo alla lettera di diffida inoltrata al datore di lavoro,  elemento non trascurabile,  che evidenzia la mancanza di buona fede  richiesta dall'art. 1460 c.c., nell'ambito della valutazione complessiva del comportamento del lavoratore .

Per le motivazioni suddette la sentenza impugnata è stata cassata ed il licenziamento ritenuto legittimo. 


IL CONCESSIONARIO ALLA RISCOSSIONE DEVE CONSERVARE LA PROVA DELLA NOTIFICA ANCHE OLTRE I CINQUE ANNI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1302 DEL 19 GENNAIO 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1302 del 19 gennaio 2018, ha statuito che i documenti probatori che attestano la notifica della cartella di pagamento devono essere conservati, da parte dell’esattore, ben oltre i cinque anni.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, respingendo in toto le doglianze di Equitalia Polis Spa, hanno confermato che la conservazione da parte dell’Agente della Riscossione delle prove dell’avvenuta notifica dell’atto deve essere solo di cinque anni esclusivamente nei confronti del contribuente che faccia istanza di accesso agli atti amministrativi.

Ex adverso, in un eventuale giudizio, se il debitore presenta opposizione al pignoramento, all’ipoteca o al fermo, eccependo di non aver mai ricevuto la relativa cartella de qua, l’unico modo che ha l’esattore per dimostrare il contrario è produrre proprio i documenti che attestano la notifica, anche oltre cinque anni dalla stessa.

Per gli Ermellini, infatti, l’esattore è tenuto a conservare ben oltre i cinque anni i documenti che attestano la notifica della cartella di pagamento, in quanto, grava sul concessionario della riscossione l’onere di provare la regolare notificazione della cartella di pagamento posta a base dell’iscrizione contestata. Tale onere deve essere assolto mediante produzione in giudizio della relata di notificazione, ovvero dell’avviso di ricevimento della raccomandata postale, essendo esclusa la possibilità di ricorrere a documenti equipollenti, quali, ad esempio, registri o archivi informatici dell’Amministrazione Finanziaria o attestazioni dell’ufficio postale. In assenza di tali produzioni, l’onere probatorio posto a carico del concessionario non risulta assolto.

In nuce, per la S.C., una cosa è il diritto di accesso agli atti che può essere esercitato al massimo entro cinque anni, un’altra l’onere della prova nel processo della corretta notifica della cartella che deve essere assolto senza alcun limite di tempo. Pertanto, anche se la Legge consente all’Agente della Riscossione di cestinare le prove della notifica dopo cinque anni, è bene conservarle più a lungo in prospettiva di eventuali giudizi.


IL CONTRATTO A TERMINE DEVE ESSERE NECESSARIAMENTE SOTTOSCRITTO DAL LAVORATORE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2774 DEL 5 FEBBRAIO 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 2774 del 5 febbraio 2018, ha statuito che il contratto a temine ai fini della validità deve essere sottoscritto dal lavoratore.

Nel caso in commento, sia in primo che in secondo grado, i Giudici di merito avevano ritenuto comunque valido il contratto a tempo determinato non sottoscritto dal lavoratore, bensì dal solo datore di lavoro. Tali conclusioni si basavano sul presupposto che il lavoratore, il giorno antecedente la prestazione lavorativa durante un’apposita riunione, aveva accettato dopo l’esposizione delle condizioni da parte del datore di lavoro.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno completamente ribaltato i precedenti giudizi di merito ricordando che nel contratto a tempo determinato il rispetto della forma è ad substantiam, ovvero non provabile diversamente.

Dunque, è del tutto irrilevante la volontà manifestata dal lavoratore per fatti concludenti, perché non suscettibile di esprimere in modo indubbio l’accettazione della durata limitata del rapporto, esprimendo – ex adverso – solo la mera volontà dello stesso di far parte di un contratto di lavoro.

Ad maiora

L PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 12 Febbraio 2018