11 Febbraio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL RAPPORTO ISPETTIVO DEI FUNZIONARI DELL’ENTE PREVIDENZIALE E’ ATTENDIBILE FINO A PROVA CONTRARIA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2020 DEL 24 GENNAIO 2019.


La Corte di Cassazione, ordinanza n° 2020 del 24 gennaio 2019, ha nuovamente statuito che il verbale ispettivo è attendibile fino a prova contraria quando esprime gli elementi da cui trae origine.

Nel caso di specie, a seguito di un accesso ispettivo da parte di funzionari di vigilanza in forza presso l’INPS, una società veniva iscritta nell’elenco delle aziende agricole assuntrici di manodopera disconoscendo il carattere familiare dell’attività espletata. A seguito di tale iscrizione, atteso il mancato pagamento delle somme richieste con verbale ispettivo, l’Agente per la riscossione notificava apposita cartella esattoriale,

L’azienda ricorreva ai Giudici di merito per ottenere l’annullamento della cartella affermando che le argomentazioni dell’INPS fossero totalmente infondate.

Soccombente in entrambi i gradi di giudizio, la Srl, per il tramite del proprio legale rappresentante, ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che, nel giudizio promosso dal contribuente per l’accertamento negativo del credito previdenziale, incombe sull’INPS l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa contributiva, che l’Istituto fondi su rapporto ispettivo. A tal fine, tale rapporto ispettivo, pur non facendo prova fino a querela di falso, è attendibile fino a prova contraria, quando esprime gli elementi da cui trae origine, restando liberamente valutabile dal giudice in concorso con altri elementi probatori.

Pertanto, atteso che il verbale INPS sul quale si fondava la cartella esattoriale era particolarmente dettagliato e preciso nell’evidenziare gli elementi di prova utilizzati per acclarare la natura dell’azienda quale assuntrice di manodopera agricola, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando il deliberato di merito condannando il ricorrente (anche) al pagamento delle spese.

 

L'ELENCAZIONE DELLE IPOTESI DI GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO CONTENUTE NEI CONTRATTI COLLETTIVI HA VALENZA MERAMENTE ESEMPLIFICATIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 138 DEL 7 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n°138 del 7 gennaio 2019, ha (ri)confermato, in tema di licenziamento per giusta causa, che l'elencazione fatta dai Ccnl di riferimento, non esclude che ulteriori gravi inadempienze non ricomprese possano parimenti legittimare l'adozione della sanzione espulsiva.

Nel caso de quo, un lavoratore dipendente delle aziende industriali di produzione del vetro veniva licenziato per giusta causa all'esito del procedimento disciplinare ex art.7 legge n°300/70 in relazione ad una assenza ingiustificata, nonché a medesimi ulteriori episodi verificatisi nei due anni precedenti, costituenti recidiva, e contemplati quale ipotesi di recesso per giusta causa dal Ccnl Vetro agli artt. 71 e 72.

Soccombente in entrambi i gradi di giudizio, il lavoratore ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza di appello, sostenendo l'errata interpretazione della Corte in relazione al contenuto del contratto collettivo applicato, in ordine al computo delle recidive.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha specificato il contenuto degli artt. 71 e 72 del Ccnl in questione. In particolare, l'art. 72, del CCNL Vetro, prevede che il licenziamento per punizione è consentito, in caso: di recidiva nella "medesima mancanza" di cui all'art. 71 (che contempla anche la mancata presentazione al lavoro senza giustificato motivo), nonché nelle fattispecie di cui ai successivi punti e), f), g) e h) dello stesso art. 71, che abbiano dato luogo a tre sospensioni nei dodici mesi precedenti. In questo modo, la contrattazione collettiva ha voluto individuare in modo preciso la fattispecie della recidiva specifica, diversa da quella plurima o impropria.

Nel caso in esame, hanno continuato gli Ermellini, ricorreva, pertanto, l'ipotesi di una reiterazione specifica, come precisato nella lettera di licenziamento, per assenza ingiustificata, con riferimento a due anteriori episodi, avvenuti nei due anni precedenti, in relazione ai quali erano state comminate due sospensioni dal lavoro. Inoltre, hanno concluso gli Ermellini,  la Corte di merito si è adeguata esattamente al principio secondo cui l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenute nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore alle norme di etica o del comune vivere civile, ovvero per grave violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi di diligenza e di fedeltà, ovvero delle regole di correttezza e di buona fede, di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c., tale da ledere in via definitiva il vincolo fiduciario.


L’AMMONTARE DEI CONTRIBUTI INPS DOVUTI ALLA GESTIONE COMMERCIANTI/ARTIGIANI È RAPPORTATO ALLA TOTALITÀ DEI REDDITI DI IMPRESA DENUNCIATI AI FINI IRPEF PER L’ANNO AL QUALE I CONTRIBUTI STESSI SI RIFERISCONO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1505 DEL 21 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1505 del 21 gennaio 2019, ha (ri)affermato che i contributi INPS dovuti alla gestione autonoma dei commercianti/artigiani sono dovuti sulla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono.

Nel caso in specie, l’INPS provvedeva a richiedere ad un contribuente, socio e amministratore unico di s.r.l e con partecipazioni in un’altra società (sas), tra l'altro attiva nel diverso settore di inquadramento dell'industria, differenze contributive alla gestione commercianti.

In entrambi i gradi di giudizio di merito il contribuente risultava soccombente, da qui il ricorso per Cassazione. In particolare la Corte d’Appello rilevava che per i soggetti iscritti alle attività commerciali l’articolo 3-bis del decreto-legge 384/1992, convertito con modificazioni nella legge 14 novembre 1992 n. 438, prevede che l’ammontare del contributo annuo è “rapportato alla totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”; e che tra i redditi di impresa vanno inclusi, come riconosciuto dalla sentenza 354/2001 della Corte Cost., i redditi delle s.a.s. qualunque ne sia l’oggetto; a nulla rilevavano invece le istruzioni per la compilazione del modello unico dettate con riferimento alle società di capitali.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour con la sentenza de qua hanno confermato in toto il giudizio d’appello, riconoscendo piena legittimità al giudizio, conforme alla lettura della norma (l’art. 3-bis D.L. 384/92) la quale regola la base imponibile previdenziale prevedendo che “a decorrere dall’anno 1993 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui all’articolo 1 della legge 2 agosto 1990 n. 233 è rapportato alla totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”. E tra i medesimi redditi d’impresa denunciati a fini Irpef rientrano i redditi delle società in accomandita semplice, posto che secondo l’art. 6 comma 3 del DPR 917/1986I redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi.”

Pertanto, hanno affermato gli Ermellini, in base al combinato disposto delle norme citate i redditi di società in accomandita semplice sono redditi di impresa, anche se relativi al socio come accomandante e vanno computate ai fini in discorso nella base imponibile contributiva, ed inoltre il dubbio relativo a “quali” redditi di impresa la norma intenda fare riferimento, è fugato non solo dalla latitudine dell’espressione impiegata dal legislatore (“la totalità”); ma anche dal raffronto con la formulazione della legge precedente (art. 1 della legge n. 233/90) la quale restringeva invece la base imponibile del contributo annuo in questione al “12 per cento del reddito annuo derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo all’anno precedente”. Con la nuova disposizione rileva invece “la totalità” dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef e non si parla più della sola attività che dà titolo all’iscrizione alla gestione ex articolo 1 legge 233/90.

Infine, i Giudici delle Leggi, hanno chiarito che il fatto che le istruzioni per la compilazione dei modelli reddituali avessero esposto altre indicazioni, costituisce circostanza del tutto irrilevante, non essendo neanche oggetto di disamina da parte della stessa Corte. Si tratta, infatti, di disposizioni a carattere amministrativo, non in grado, sia pure in situazioni di probabile incertezza interpretativa, di derogare alle indicazioni normative anche come interpretate in via giurisprudenziale.

Per le motivazioni suddette il ricorso è stato rigettato con compensazione delle spese processuali tra le parti.

IL TEMPO TUTA SE NON È ETERO-DIRETTO DAL DATORE DI LAVORO NON È RETRIBUIBILE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 505 DEL 11 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 505 dell’11 gennaio 2019, ha (ri)statuito che il tempo necessario al dipendente ad indossare gli abiti utili ad eseguire la propria prestazione di lavoro deve essere retribuito solo se il datore ne disciplina tempo e luogo dell’esecuzione.

Nel caso in esame, sei dipendenti, con mansione di saldo-carpentieri, avevano presentato esposto contro il proprio datore di lavoro per farsi riconoscere la remunerazione del tempo, di trenta minuti giornalieri, necessario ad indossare ed a dismettere la tuta di lavoro nonché a fare la doccia. La corte d’Appello di Palermo, confermando la sentenza del Tribunale della stessa sede, respingeva tale domanda perché non era stata allegata in alcun modo la circostanza che tali lavoratori fossero tenuti ad anticipare il loro arrivo nell’ambiente di lavoro e ad utilizzare gli spogliatoi aziendali, potendo liberamente assolvere a tali attività preparatorie anche presso le rispettive abitazioni.

I lavoratori ricorrevano in Cassazione.

I Giudici di Piazza Cavour, con l’ordinanza de qua, riprendendo i consolidati orientamenti in tema di retribuibilità del c.d. tempo-tuta, hanno confermato la decisione dei Giudici distrettuali precisando che i dipendenti nulla avevano dimostrato in ordine all’obbligo di presentarsi in anticipo sul luogo di lavoro per rispettare i propri turni e per programmare le operazioni accessorie secondo disposizioni della parte datoriale; inoltre, hanno rilevato che le divise non avevano la funzione di DPI, ma erano state previste come strumento distintivo sul luogo di lavoro. Gli Ermellini, inoltre, hanno osservato che i lavoratori potevano liberamente assolvere a tali attività preparatorie anche presso le rispettive abitazioni, non riscontrando circostanze significative della etero-direzione, aggiungendo che neppure era stata dedotta la circostanza che l'utilizzo di tale abbigliamento da lavoro al di fuori dell'ambiente di lavoro non fosse consono o adeguato secondo un criterio di normalità sociale.


LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO. IL REPECHAGE SI RITIENE ESPERITO CON LA PROPOSTA DI RIDUZIONE PART-TIME

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 1499 DEL 21 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 1499 del 21 gennaio 2019, ha statuito che la proposta di riduzione dell’orario di lavoro alla lavoratrice, in luogo del licenziamento, costituisce prova dell’avvenuto repechage.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Ancona, in riforma del Tribunale di prime cure, respingeva la richiesta della lavoratrice di annullamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole. Nella fattispecie, la lavoratrice veniva licenziata il 25/10/2010 da una società di servizi assicurativi e turistici per dismissione delle attività di banco e biglietteria aerea. Alla stessa veniva proposta una riduzione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. 

La Corte non riteneva rilevante il fatto che a gennaio del 2011 l’azienda aveva assunto altra lavoratrice.

L’ex dipendente ricorreva per Cassazione.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, a conferma del ragionamento logico giuridico della Corte d’Appello, hanno precisato che era emerso chiaramente che il servizio di emissione diretta dei biglietti aerei era stato soppresso. Inoltre, l’assunzione avvenuta dopo alcuni mesi dal licenziamento della ricorrente non era da ritenersi rilevante perché avvenuto per la sostituzione di un rapporto cessato.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.


Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Aldo Cunzio e Francesco Pierro

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Modificato: 11 Febbraio 2019