22 Febbraio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI GENNAIO 2021

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Gennaio 2021. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Gennaio 2021 è pari a 0,564883 e l’indice Istat è 102,90.

IL VERBALE DI CONCILIAZIONE SOTTOSCRITTO INNANZI ALLA ITL NON ESLCUDE L’ESERCIZIO DELLE NORMALI AZIONI DI NULLITA’/ANNULLABILITA’ DELLO STESSO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE – SENTENZA N. 2145 DEL 29 GENNAIO 2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 440 del 13 gennaio 2021, ha statuito che il verbale di conciliazione, sottoscritto in sede di ITL, non esclude la possibilità di esperire le ordinarie azioni di nullità/annullabilità, atteso che l’intervento del conciliatore è finalizzato a sottrarre il lavoratore dalla condizione di soggezione del datore di lavoro.

La vicenda in esame trae origine dal ricorso, in sede nomofilattica, di una lavoratrice che, dopo aver sottoscritto con la Provincia Regionale di Catania un verbale di conciliazione con il quale le era stato riconosciuto l’inquadramento nella categoria D1, posizione economica D2, più favorevole rispetto a quella posseduta, si era vista negare il predetto accordo sulla base di un atto, emesso in autotutela, di revoca del verbale di conciliazione.

La Corte distrettuale catanese, riformando la statuizione di primo grado, aveva confermato la legittimità dell’atto in autotutela della Provincia atteso che lo stesso si poneva in contrasto con le disposizioni di cui all’art. 13 della legge 80/2006 – in quanto l’assegnazione della lavoratrice si poneva in soprannumero rispetto alla pianta organica per quella posizione – sia per violazione dell’art. 29 comma 4 del CCNL – per violazione della prevista concertazione sindacale al fine di stabilire la dotazione organica.

La Corte di Cassazione, nel richiamare lo specifico precedente (sentenza n° 31380 del 02.12.2019), ha respinto il ricorso della lavoratrice, confermando il decisum della Corte d’Appello, precisando che la P.A. non è tenuta a dare esecuzione ad un verbale di conciliazione che si ponga in contrasto con norme imperative di legge, atteso che la presenza del conciliatore produce l’effetto di sottrarre il lavoratore dalla condizione di metus che, laddove non controbilanciata (dalla presenza del conciliatore), potrebbe indurre il lavoratore a sottoscrivere transazioni e rinunce frutto della prevaricazione datoriale, ma non esclude l’esercizio delle ordinarie azioni di nullità/annullabilità dell’atto transattivo.

 

OVE IL DOCUMENTO DI VALUTAZIONE EX ART. 28 DEL D.LGS. 81/2008 NON PREVEDA SPECIFICAMENTE UN RISCHIO E' OBBLIGO DEL DATORE DI LAVORO ADOTTARE UGUALMENTE TUTTE LE POSSIBILI MISURE DI SICUREZZA ANCORCHE' NON CONTEMPLATE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 4075 DEL 3 FEBBRAIO 2021.

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n°4075 del 3 febbraio 2021, ha confermato, in tema di responsabilità datoriale in caso di infortunio sul lavoro, che a prescindere dal contenuto del documento di valutazione del rischio ex art. 28 del D.Lgs. n°81/2008, è obbligo del datore di lavoro adottare le idonee misure di sicurezza, ancorché non contemplate.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, aveva condannato un imprenditore ai sensi dell'art. 590 c.p. per aver cagionato ad un proprio dipendente, apprendista, lesioni per colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia in violazione della norma ex art. 71, comma 4, lett. a) del D.Lgs. n°81/2008 in relazione al mancato utilizzo di attrezzature di lavoro e dispositivi di protezione. In particolare, il datore di lavoro, dovendo effettuare un intervento di manutenzione ad un ascensore, si era posizionato sulla copertura della cabina che fungeva da piano d'appoggio; in una prima fase, il dipendente si era limitato a passare gli attrezzi rimanendo sul pianerottolo, successivamente, come richiesto dal datore di lavoro,  era salito sulla copertura, con ciò determinando la caduta della cabina per l'inadeguato funzionamento del freno paracadute, considerato altresì, che non era stata predisposta una ulteriore misura contenitiva, consistente nell'utilizzo di un ancoraggio mediante paranco di sicurezza.

Il datore di lavoro ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, eccependo che la corte territoriale non aveva compiuto una perfetta analisi dei fatti in quanto aveva escluso la valenza del documento di valutazione del rischio redatto dall'impresa ai sensi del D.Lgs. n°81/2008 che, sulla base dell'intervento di manutenzione effettuato, non prevedeva l'adozione di ulteriori misure di sicurezza.

Orbene, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso in quanto derivante da una doppia conforme affermazione di responsabilità ed inoltre giacché le censure formulate, come ribadite in secondo grado, non contenevano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati. All'uopo, hanno continuato gli Ermellini, non può essere posto in dubbio che, nella specie, fosse doveroso il porre in essere ulteriori cautele per evitare il rischio di evento infausto a prescindere dal contenuto del documento di valutazione del rischio, infatti, nei casi in cui tale documento non preveda specificamente un rischio è obbligo del datore di lavoro, in concreto, adottare le idonee misure di sicurezza relative ad un rischio non contemplato.

Da ultimo, hanno evidenziato gli Ermellini, per il dettato della normativa prevenzionistica e per costante giurisprudenza, la circostanza che il datore di lavoro operi anche in prima persona e sottoponga anche se stesso al rischio derivante dall'omessa predisposizione di misure prevenzionali, non muta i suoi doveri nei confronti della sicurezza dei lavoratori da lui dipendenti.

 

NIENTE CONFISCA DIRETTA DEL DENARO DEPOSITATO SUL CONTO BANCARIO DOPO LA SCADENZA DEL PAGAMENTO IVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 3733 DEL 1° FEBBRAIO 2021

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 3733 del 1° febbraio 2021, ha statuito che è illegittima la confisca diretta del denaro depositato sul conto bancario dopo la scadenza del pagamento Iva, in quanto sono valide esclusivamente le misure sul reale profitto della frode fiscale.

Nello specifico, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto il ricorso incidentale di una società coinvolta, insieme alle altre aziende del gruppo, nell'ambito di una maxi frode Iva, in quanto nonostante la natura fungibile del denaro, deve ritenersi preclusa a tutti gli effetti la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario della società contribuente, qualora sia stata raggiunta la prova che le stesse non derivino dal reato commesso, non costituendo, in tale caso, profitto dell'illecito.

Per gli Ermellini, è pertanto illegittima, l'apprensione diretta delle somme di denaro entrate nel patrimonio del reo in base ad un titolo lecito ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, che non risultino, anche indirettamente, allo stesso collegate.

Con la sentenza de qua, i Giudici di legittimità hanno ribadito che in tema di reati tributari, integra il profitto del reato il solo saldo attivo esistente sul conto corrente al momento della scadenza del termine previsto per adempiere obbligazione fiscale, e dunque, le somme versate sul conto dopo la scadenza del termine dell'obbligazione tributaria non possono essere ritenute il profitto del reato, perché in generale prive di un collegamento con l'illecito che possa giustificare la confisca diretta, a meno che, ovviamente, per il denaro che fosse pervenuto dopo il perfezionamento del reato non sia stata acquisita la prova della derivazione dall'illecito.

In nuce, per la S.C., ai fini della ricostruzione della disciplina applicabile alla confisca del denaro presente sul conto corrente dell'imputato, in particolare in tema di reati tributari, diviene fondamentale l’accertamento del saldo esistente alla data di commissione del reato, perché permette di qualificare il provvedimento di confisca diretta ovvero per equivalente.

 

LA PRESCRIZIONE DEI CONTRIBUTI DOVUTI ALLA GESTIONE SEPARATA DECORRE DAL MOMENTO IN CUI SCADONO I TERMINI PER IL PAGAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDNANZA N.3367 DELL’11 FEBBRAIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 3367 dell’11 febbraio 2021, ha riaffermato che la prescrizione dei contributi dovuti alla gestione separata decorre dal momento in cui scadono i termini per il loro pagamento e non dalla data di presentazione della dichiarazione dei redditi del lavoratore, in quanto quest’ultima, quale esternazione di scienza, non costituisce presupposto del credito contributivo.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello, confermando la decisione del Tribunale di merito, riteneva illegittima l’iscrizione alla gestione separata dell’INPS operata d’ufficio dall’Istituto previdenziale al fine di ottenere il pagamento della contribuzione dovuta da un avvocato iscritto all’albo professionale.

I Giudici, consapevoli del consolidato orientamento della Cassazione, ritenevano che l’iscrizione d’ufficio alla gestione Separata Inps, trattandosi di uno strumento residuale, non potesse trovare applicazione allorché la tutela previdenziale del libero professionista, iscritto ad albi o elenchi di categoria, è rimessa alla competenza esclusiva delle casse private di appartenenza.

La Corte riteneva, inoltre, che il credito fosse estinto per l’intervenuta prescrizione quinquennale, avendo considerato quale dies a quo di decorrenza la data di scadenza del pagamento dei contributi e non quella della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi, come sostenuto dall’Inps.

Avverso questa sentenza l’INPS ricorreva in Cassazione sostenendo che il controricorrente fosse obbligato ad iscriversi alla gestione separata ed a versare la contribuzione dovuta, sebbene avesse prodotto un reddito inferiore al limite previsto per l’insorge dell’obbligo e che la prescrizione non fosse ancora intervenuta.

La Corte Suprema rigettava il ricorso ricordando che già in passato aveva sostenuto che, "in materia previdenziale, la prescrizione dei contributi dovuti alla gestione separata decorre dal momento in cui scadono i termini per il pagamento dei predetti contributi e non dalla data di presentazione della dichiarazione dei redditi ad opera del titolare della posizione assicurativa, in quanto la dichiarazione in questione, quale esternazione di scienza, non costituisce presupposto del credito contributivo." (cfr. Cass. n. 27950 del 2018, cui ha fatto seguito Cass. n. 19403 del 2019)

 

IL LAVORATORE LICENZIATO PER GIUSTA CAUSA DEVE RISARCIRE L’EVENTUALE DANNO D’IMMAGINE SUBITO DAL DATORE DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2968 DELL’8 FEBBRAIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 2968 dell’8 febbraio 2021, ha statuito che il lavoratore inadempiente verso i suoi obblighi contrattuali può essere licenziato e condannato al risarcimento del danno d’immagine patito dal datore di lavoro.

Nel caso de quo, un lavoratore adiva il Tribunale, chiedendo che venisse dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro a causa del suo comportamento inadempiente rispetto agli obblighi contrattuali, in quanto ritenuto colpevole di aver omesso il versamento di ritenute fiscali e contributi e di aver fraudolentemente presentato false quietanze di pagamento.

Il datore di lavoro, a sua volta, proponeva domanda riconvenzionale, chiedendo il risarcimento del danno d’immagine subito. In primo grado le due domande erano entrambe parzialmente accolte, mentre la Corte d’Appello riformava parzialmente la pronuncia, condannando il lavoratore al ristoro del danno patrimoniale e d’immagine subito dal datore di lavoro.

Il lavoratore ricorreva pertanto in Cassazione, lamentando la mancanza di consequenzialità fra le premesse logico-giuridiche e le conclusioni nella sentenza dei Giudici di merito.

La Suprema Corte, confermando la sentenza della Corte distrettuale, ha affermato che nel giudizio di merito la fattispecie era stata correttamente ricostruita attraverso le acquisizioni probatorie dalle quali era emerso che l’ammanco di cassa rilevato era stato necessariamente provocato dal comportamento infedele del dipendente, che, per di più, non aveva dimostrato di non aver prelevato il denaro mancante.

A parere dei Giudici di Piazza Cavour, inoltre, la liquidazione del danno era stata correttamente effettuata durante il giudizio di merito, in particolare con riferimento al danno non patrimoniale.  A tal proposito è stato affermato che questa tipologia di danno non sussiste "in re ipsa", dovendo essere allegato e provato dal danneggiato. La sua liquidazione deve essere quantificata attraverso una valutazione concreta del pregiudizio dimostrato, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, fondate su elementi diversi dal mero fatto posto in essere. Nel caso in oggetto era stato correttamente valutato dai Giudici di merito, sulla base di profili oggettivi e soggettivi, dati sia dalla violazione commessa, che dalle conseguenze della condotta illecita subite dal datore di lavoro dal punto di vista sociale e professionale, in considerazione dell’importanza del ruolo da lui ricoperto.

Per le ragioni indicate, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 22 Febbraio 2021