21 Febbraio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA MANCANZA DI UNA RISPOSTA DELL’INPS IN SEGUITO A IMPUGNAZIONE DI UN ATTO DI ACCERTAMENTO ISPETTIVO IN MATERIA DI VIOLAZIONI CONTRIBUTIVE NON DETERMINA L’IMPOSSIBILITÀ DI DARE CORSO AL PROCEDIMENTO DI RISCOSSIONE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 183 DEL 5 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 183 del 5 gennaio 2022, ripercorrendo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ha confermato che nel procedimento di riscossione dei contributi previdenziali, regolato dagli artt. 24 e ss. del D.Lgs. 46 del 1999, l’iscrizione a ruolo può concretarsi anche in mancanza di un atto di accertamento da parte dell’istituto previdenziale.

La controversia trae origine dalla domanda di annullamento di una cartella esattoriale spiccata nel 2002, nonché degli atti successivi da essa dipendenti (iscrizione ipotecaria comunicata nel 2005 e intimazione di pagamento notificata nel maggio 2008) per una serie di violazioni contributive emergenti da un verbale di accertamento ispettivo già notificato nel 1997 e debitamente impugnato dall’azienda.

Il giudice a quo aveva accolto la richiesta sostenendo che la cartella esattoriale doveva ritenersi nulla o inesistente perché priva del “presupposto impositivo”, vale a dire priva di un provvedimento di archiviazione o, in alternativa, di una ordinanza di ingiunzione che l’INPS avrebbe dovuto emanare per concludere il procedimento introdotto dalla ricorrente ai sensi dell’art. 18, Legge 689/1981.

Di contro, la Corte distrettuale aveva ribaltato la pronuncia del Tribunale, atteso che, a prescindere dalla sussistenza di un rapporto di pregiudizialità tra il procedimento ex art. 18, Legge 689/1981 e la procedura di riscossione mediante iscrizione a ruolo del credito previdenziale, l’azienda aveva proposto opposizione dopo la scadenza del termine perentorio di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, ex. art. 24, comma 5, del D.Lgs. 46/1999.

La Suprema Corte, confermando il decisum della Corte di Appello, ha precisato che proprio l’art. 24 comma 1, nel prevedere che la riscossione dei contributi o premi dovuti agli enti previdenziali non versati dal debitore ovvero di quelli dovuti a seguito di accertamento d’ufficio avviene mediante iscrizione a ruolo da effettuarsi entro i termini di decadenza ex art .25 del citato D.lgs n. 46, esclude l’applicabilità della procedura di cui alla legge 689/1981 e la necessità di atti prodromici per la validità della riscossione. Dunque, la mancata risposta dell’INPS all’opposizione esperita ai sensi dell’art. 18, Legge 689/1981, in materia di contributi previdenziali, non determina l’impossibilità di dare corso al procedimento di riscossione.

Per di più, l’impugnazione del verbale di accertamento ispettivo attraverso la procedura di cui all’art. 18 della Legge 689/1981, riservata in ogni caso alle (sole) sanzioni amministrative, non neutralizza la necessità di proporre un’opposizione successiva avverso la cartella esattoriale conseguente. Ai sensi del sopracitato art. 24, comma 5, del D.Lgs. 46/1999, vi è proprio uno specifico mezzo dell’impugnazione a ruolo, da azionarsi entro il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento. In mancanza della tempestiva impugnazione nel termine previsto dalla norma, il credito contributivo diventa incontrovertibile, con conseguente impossibilità di contestarne successivamente la sussistenza.
 

LA LITE SI INTENDE ROTTAMATA IN CASO DI DINIEGO DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE GIUNTO OLTRE IL TERMINE PERENTORIO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.2372 DEL 27 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.2372 del 27/01/2022, ha statuito che è da considerare perentorio il termine entro il quale l'Ufficio Finanziario deve esprimere il proprio diniego all'istanza di definizione agevolata delle liti pendenti, e l’eventuale inosservanza di tale termine determina inequivocabilmente il valido perfezionamento della rottamazione della controversia tributaria e la definitiva estinzione del procedimento.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour si sono pronunciati favorevolmente alle doglianze avanzate da un contribuente contro la decisione con cui la CTR aveva statuito la legittimità di una cartella di pagamento per IVA, a lui notificata, per la quale, nelle more del procedimento tributario, il ricorrente aveva presentato istanza di definizione agevolata ex art. 6 del DL n. 119/2018, rigettata dall'Agenzia delle Entrate con apposito provvedimento di diniego. Il cittadino contribuente si era opposto a tale ultimo atto con ricorso, confluito nel medesimo giudizio, in cui aveva dedotto l'illegittimità del diniego in quanto tardivo, essendogli stato notificato ben dopo il prescritto termine del 31 luglio 2020, scaduto il quale la definizione avrebbe dovuto ritenersi validamente perfezionata.

Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini hanno ritenuto preferibile l'orientamento a favore della natura tassativa del termine, in quanto funzionale a una sollecita definizione della vicenda. Ragion per cui, nel caso della definizione agevolata ai sensi del richiamato art. 6, in particolare, risulta evidente il favor sotteso alla procedura e al suo perfezionamento, configurando il silenzio dell'Ufficio come un silenzio-assenso.

Per i Giudici di Legittimità, diversamente da quanto precedentemente previsto, infatti, nel sistema del DL n. 119/2018 non si riscontrano previsioni dirette ad escludere l'operatività del silenzio-assenso o a negare conseguenze pregiudizievoli per la definizione resa tardivamente, anzi, l'indicazione del termine del 31 luglio 2020 per l'espressione utile del diniego costituisce proprio una previsione diretta a confermare l'esistenza di tale istituto.

In nuce, per la S.C., l'evoluzione normativa è improntata da un incremento della speditezza nella definizione delle procedure di condono, secondo una tendenza costante nel tempo, tanto che il legislatore ha progressivamente mutato i presupposti dell'estinzione del giudizio, in modo da eliminare, prima, l'attestazione di regolarità da parte dell'Agenzia, poi, anche la necessità di una decisione collegiale circa l'estinzione del giudizio stesso, e pertanto, il giudizio non può che essere una declaratoria di illegittimità del diniego reso dall'Amministrazione Finanziaria con annullamento e dichiarazione di estinzione del processo.


LA VALUTAZIONE DEL REQUISITO DI INERENZA DEI COSTI DI PUBBLICITA' INTEGRA I CONCETTI DI INCONGRUENZA E ANTIECONOMICITA' RISPETTO ALL'ATTIVITA' DELL'IMPRESA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2596 DEL 28 GENNAIO 2022.

La Corte di Cassazione – sentenza n°2596 del 28 gennaio 2022 – ha statuito, in tema di imposte sui redditi, la legittimità del giudizio di valore qualitativo dei costi di pubblicità in ordine alla incongruenza e antieconomicità degli stessi rispetto all'attività di impresa, al fine di stabilire la conseguente inerenza.

Nel caso de quo, la Commissione tributaria regionale delle Marche aveva confermato il contenuto di un Avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate con il quale si era provveduto alla rettifica dell'imponibile ai fini Ires dichiarato da una srl mediante il disconoscimento di spese contabilizzate a titolo di pubblicità. In particolare, la società contribuente, esercente attività di intermediazione nel commercio di prodotti ittici, era contrattualmente impegnata nell'acquisto di spazi pubblicitari, consistenti nell'apposizione del proprio "logo", su apposite locandine, cataloghi e cartoline, in occasione di fiere e mostre di pittura, promosse da un artista pittore. Sul punto, l'Amministrazione Finanziaria aveva ritenuto irragionevole che la contribuente avesse destinato il 39% dei ricavi complessivi, per un importo pari a euro 140 mila, fino ad arrivare a chiudere il proprio bilancio in perdita, attesa altresì, l'incongruenza tra l'attività esercitata e la generalità dei soggetti interessati all'attività dell'artista, definito "pubblico di nicchia".    

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente duolendosi del mancato riconoscimento della inerenza delle spese di pubblicità sostenute.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso specificando che l'inerenza all'attività di impresa delle singole spese, indispensabile per ottenere la deduzione ex art. 109 TUIR, va definita come una relazione tra i concetti di costo e impresa (id: attività potenzialmente idonea a produrre utili), con ciò, valorizzando anche quei costi che si rivelino utili al progetto imprenditoriale, pur rilevando – ma solo in apparenza – un rapporto debole tra costo e impresa. I più recenti orientamenti giurisprudenziali, hanno continuato gli Ermellini, in parte superando il concetto sopra enunciato, hanno sostenuto che il concetto di inerenza deve esprimere la necessità di riferire i costi sostenuti all'attività imprenditoriale, senza necessità di compiere valutazioni in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta. Tuttavia, ciò non vuol dire che siano del tutto estranei al giudizio di valore del costo sostenuto, i concetti di vantaggiosità e congruità, ai fini del riconoscimento dell'inerenza. Qualunque sia il concetto di impresa, infatti, non può certo negarsi l'esigenza di applicazione di buone regole di gestione dell'attività che contrastano assiomaticamente con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate, secondo un giudizio prognostico effettuato a monte. Quello che deve pertanto esigersi ai fini dell'inerenza è la prova dell'utilità del servizio remunerato.

Nel giudizio di legittimità, hanno concluso gli Ermellini, la CTR non si è discostata dai canoni sopra enunciati con il conseguente giudizio negativo circa l'inerenza dei costi sostenuti, considerati incongrui ed antieconomici rispetto all'attività commerciale esercitata dalla società contribuente.


LA TEMPESTIVITÀ DELLA CONTESTAZIONE DISCIPLINARE RAPPRESENTA ELEMENTO COSTITUTIVO DEL DIRITTO DI RECESSO DEL DATORE DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2869 DEL 31 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 2869 del 31 gennaio 2022, statuisce che la tempestività della contestazione disciplinare rappresenta elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, in quanto la mancanza di immediatezza rispetto al fatto contestato potrebbe indurre a ritenere non grave o meritevole di sanzione il comportamento tenuto dal lavoratore.

Nel caso in oggetto due lavoratori impugnavano il licenziamento intimato dal datore di lavoro in seguito all’accertamento di un furto di beni aziendali. Mentre il Tribunale rigettava il ricorso dei lavoratori, la Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità dei licenziamenti intimati ai ricorrenti, ritenendo che la contestazione disciplinare avvenuta ben tre anni dopo l’evento di furto non potesse considerarsi tempestiva e pertanto lesiva del diritto di difesa riconosciuto al lavoratore.

Il datore di lavoro, condannato al pagamento dell’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata in quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ciascun lavoratore, ricorreva in Cassazione.

La Suprema Corte afferma che il principio della tempestività della contestazione non si configura unicamente come il presupposto di un corretto iter procedimentale, ma al contrario rappresenta presupposto necessario per garantire al lavoratore una difesa effettiva dalle accuse mosse dal datore di lavoro, che lo sottragga al rischio di un arbitrario differimento dell'inizio del procedimento disciplinare da parte di quest’ultimo.

La violazione di tale principio quando assume il carattere di notevole ritardo, non giustificato, determina l’affievolimento della garanzia del diritto di difesa del lavoratore. Secondo i Giudici di legittimità, sarà quindi onere del datore di lavoro dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva della contestazione disciplinare.

Per le ragioni esposte, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso del datore di lavoro.


E’ VALIDA LA NOTIFICA ALL’EX LIQUIDATORE ED AI SOCI DI UN ATTO IMPOSITIVO EMESSO NEI CONFRONTI DI UNA SOCIETA’ CESSATA.

CORTE DI CASSAZIONE –ORDINANZA 3311 del 03/02/2022

La Corte di Cassazione sancisce nuovamente che in caso di estinzione di una società, con contestuale cancellazione dal Registro delle Imprese, la notifica degli atti può avvenire presso l’ex liquidatore e presso i soci.

Il caso in esame nasce da due accertamenti, per il 2006 e per il 2007, notificati ad una società di capitale quando questa era stata già cancellata dal Registro delle Imprese: la notifica degli atti accertativi era stata notificata all’allora liquidatore della società ed ai soci. Dallo stesso accertamento erano poi scaturiti accertamenti per i soci, in relazione al maggior reddito accertato.

I giudici di prime cure della CTP di Salerno avevano parzialmente accolto le doglianze dei ricorrenti, e successivamente la Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva rilevato che alla data di notifica degli avvisi di accertamento in oggetto la società era già stata cancellata dal Registro delle Imprese, per cui non poteva essere destinataria di tali avvisi, e che la ritenuta illegittimità di questi ultimi conduceva all'annullamento anche degli avvisi di accertamento notificati ai soci, essendo venuto meno il loro presupposto.

L’Agenzia delle Entrate proponeva quindi ricorso per Cassazione, giacché il giudice di Appello, secondo l’Amministrazione Finanziaria, aveva omesso di considerare che, per effetto dell'estinzione della società, si verifica un fenomeno successorio in base al quale i soci subentrano nella posizione debitoria dell'ente.

La Corte di Cassazione risolve la questione a favore dell’Agenzia delle Entrate.

Fa notare infatti la Corte che “l'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale le obbligazioni passive dell'ente non si estinguono – il che determinerebbe un ingiusto sacrificio del diritto dei creditori sociali – ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali (cfr., per tutte, Cass., Sez. Un., 12 marzo 2013, n. 6070)”, e che “l'atto impositivo emesso nei confronti di una società di capitali è validamente notificato, dopo l'estinzione della stessa, ad uno dei soci, poiché, analogamente a quanto previsto dall'art. 65, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 per l'ipotesi di morte del debitore, ciò si correla al fenomeno successorio che si realizza rispetto alle situazioni debitorie gravanti sull'ente e realizza, peraltro, lo scopo della predetta disciplina di rendere edotto almeno uno dei successori della pretesa azionata nei confronti della società (cfr., sia pure con riferimento ad atto impositivo emesso nei confronti di una società di persone, Cass., ord., 12 ottobre 2018, n. 25487; Cass. 28 dicembre 2017, n. 31037).

In conclusione, la Corte di Cassazione accoglieva le doglianze dell’Amministrazione Finanziaria e rinviava alla Commissione Tributaria Regionale in diversa composizione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 21 Febbraio 2022