4 Marzo 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA MANCATA INDICAZIONE DEI CRITERI DI SCELTA NELL’AMBITO DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO COMPORTA IL SOLO DIRITTO ALLA TUTELA INDENNITARIA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4076 DEL 12 FEBBRAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4076 del 12 febbraio 2019, ha nuovamente affermato che nell’ambito delle procedure di licenziamento collettivoex L. n° 223/91 – la mancata indicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da “espellere” comporta, a seguito delle modifiche apportate dalla Legge Fornero, il diritto alla sola tutela indennitaria e non al reintegro.

Nel caso in disamina, un dipendente, all’esito dell’apposita procedura prevista per i licenziamenti collettivi, veniva privato del proprio impiego. Il prestatore adiva la Magistratura sostenendo che la comunicazione ex art. 4 co. 9 L. n° 223/1991 risultava priva di una puntuale indicazione dei criteri di scelta utilizzati al fine di “selezionare” i nominativi da cessare.

I Giudici di I° grado accoglievano le doglianze del subordinato sancendo il suo diritto ad un’indennità risarcitoria pari a 18 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto. Il dipendente stesso adiva la Corte territoriale rivendicando la tutela più forte ossia la reintegrazione nel posto di lavoro.

Anche i Giudici di appello sancivano il mero diritto del prestatore all’indennità economica in quanto, anche se i criteri di scelta non erano stati indicati in modo puntuale nelle comunicazioni di rito, gli stessi erano risultati correttamente utilizzati dal datore di lavoro.

Il dipendente ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum dei gradi di merito, hanno colto l’occasione per ri-affermare che l’omessa indicazione dei criteri di scelta, o l’omessa indicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta, integrano violazioni procedurali che comportano la sola tutela indennitaria non configurando (anche) violazione dei criteri di scelta.

Pertanto, atteso che nel corso del giudizio di merito l’azienda aveva dimostrato di aver correttamente attuato i criteri di scelta seppur non enunciandoli in modo puntuale nelle comunicazioni inviate ai lavoratori, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando il diritto del prestatore alla sola indennità risarcitoria e non anche al reintegro nel posto di lavoro.

 

LEGITTIMA LA RICHIESTA DI ACCESSO AI DATI PERSONALI DEL LAVORATORE NELL'AMBITO DI UN PROCEDIMENTO DISCIPLINARE AL FINE DI ESERCITARE IL PROPRIO DIRITTO ALLA DIFESA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 32533 DEL 14 DICEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 32533 del 18 dicembre 2018, ha confermato, in tema di diritto di accesso agli atti nel procedimento disciplinare, la legittimità della richiesta del lavoratore dei propri dati personali, con specifico riguardo agli atti endoprocedimentali del datore di lavoro.

Nel caso de quo, un lavoratore, dipendente in servizio di una banca, destinatario di una sanzione disciplinare, aveva proposto ricorso al Garante per la protezione dei dati personali, nei confronti del proprio datore di lavoro, reiterando la richiesta di ottenere la comunicazione, in forma intelligibile, dei dati personali che lo riguardavano contenuti nella "Segnalazione, in forma di relazione scritta, inviata al settore Disciplina", eseguita dal Responsabile Risorse Umane, avente ad oggetto: "fatti illeciti o comportamenti irregolari, sotto il profilo operativo o deontologico, di dipendenti in servizio", nonché di ottenere la "Lettera accompagnatoria in cui il Responsabile Risorse Umane formula le valutazioni ed esprime parere motivato circa il provvedimento da adottare, formulato congiuntamente con il  Responsabile della struttura".  Documenti entrambi previsti, da circolare interna, nell'ambito della banca, che disciplina il procedimento disciplinare.

Il lavoratore, aveva sostenuto che l'accesso ai dati personali contenuti nei predetti documenti trovava giustificazione nell'esigenza di esercitare il proprio diritto di difesa e di impugnazione giudiziale avverso la sanzione irrogata.

La banca, invitata dall'Ufficio del Garante a fornire riscontro alle suddette richieste, replicò di aver fornito al ricorrente tutte le informazioni riguardanti l'apertura del procedimento disciplinare in questione, le quali erano contenute nella lettera di contestazione degli addebiti con cui la banca, valutata l'inidoneità delle giustificazioni del dipendente, gli aveva inflitto la sanzione. Negò, invece, l'accesso agli specifici documenti oggetto di ricorso, assumendo che gli stessi contenevano dati della società "di uso strettamente interno, anch'essi protetti dalla normativa sulla privacy", in quanto "espressione del diritto di organizzare e gestire la propria attività"  che "attengono solo al momento formativo della volontà datoriale".

Il Garante accolse l'istanza ordinando alla banca di integrare il riscontro già fornito, comunicando i dati richiesti dal lavoratore.  Il Garante rimarcò altresì, il carattere di dato personale dei c.d. dati valutativi, ovvero delle informazioni personali relative a giudizi, opinioni o ad altri apprezzamenti di tipo soggettivo per i quali è possibile esercitare il diritto di accesso.

Contro il Provvedimento, la banca propose opposizione innanzi al Tribunale di Roma in contraddittorio con il lavoratore ed il Garante per la privacy. I Giudici di prime cure respinsero l'opposizione e ritennero il predetto Provvedimento del tutto coerente ai principi in tema di difesa nel procedimento disciplinare.

Avverso la sentenza, la banca ha proposto ricorso per cassazione duolendosi della presunta impossibilità di divulgazione degli atti propedeutici alla formazione della volontà aziendale, nonché richiedendo un equo bilanciamento dei vari diritti nel caso concreto, valutando ponderatamente la specifica situazione sostanziale, coniugando il diritto del lavoratore con il diritto alla riservatezza della banca.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso precisando che la documentazione relativa alle vicende del rapporto di lavoro, imposta dalla legge (come per i libri paga e matricola), o prevista dall'organizzazione aziendale (tramite circolari interne), dà luogo alla formazione di documenti che formano oggetto di diritto di accesso, ex art. 7 del Decreto Legislativo 196/2003 (nel testo anteriore alle modifiche apportategli dal Decreto Legislativo 10 agosto 2018, n°101) consistendo in dati personali.

Inoltre, hanno continuato gli Ermellini, quanto al bilanciamento dei diritti in questione, la banca, ben avrebbe potuto limitarsi ad estrapolare eventuali passaggi della predetta documentazione non conferenti rispetto alla richiesta del lavoratore, laddove gli stessi potessero risultare pregiudizievoli al diritto alla riservatezza di terzi.

 

L’AGENZIA DELLE ENTRATE NON HA NESSUN OBBLIGO DI NOTIFICARE UN AVVISO DI ACCERTAMENTO RELATIVO AI DEBITI TRIBUTARI DELLA S.N.C. AI SINGOLI SOCI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2834 DEL 22 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 2834 del 22 gennaio 2019, ha statuito che non c’è alcun obbligo di notifica dell’avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate a tutti i soci di una società in nome collettivo.

Nel caso in specie un socio di una Snc veniva condannato per non avere versato, nei termini previsti per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale del 2008, da qui il ricorso per Cassazione da parte del socio.

In particolare, la difesa del socio lamentava che i  Giudici di merito non avrebbero considerato che, essendo l'imputato socio di una società in nome collettivo, in cui tutti i soci, in assenza di patto contrario, sono solidalmente ed illimitatamente responsabili dei debiti sociali, l'Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto notificare la diffida ad adempiere il debito tributario non solo al ricorrente, ma anche a tutti gli altri soci amministratori che, a loro volta, avrebbero dovuto essere chiamati a rispondere del reato. Non essendosi ciò verificato, tale omissione avrebbe, almeno in linea ipotetica, impedito l'adempimento del debito d'IVA da parte degli altri soci e quindi l'estinzione del reato contestato all'imputato.
Orbene, i Giudici di Piazza Cavour con la sentenza de qua hanno respinto il ricorso presentato dal contribuente sull’assunto che i Giudici di merito avevano correttamente motivato in ordine alla sussistenza della responsabilità dell'imputato rispetto al reato ascrittogli, evidenziando che “l'assunto difensivo è del tutto infondato, atteso che non è previsto alcun avviso da parte della Agenzia delle Entrate a tutti i soci delle società in nome collettivo, tanto più che, da un lato, non risulta che le incombenze fiscali siano state delegate ad uno solo dei soci, e, dall'altro che non è contestato dalla difesa che l'imputato era il legale rappresentante della società”.

Infatti, hanno concluso gli Ermellini, ai sensi dell'art. 2291 cod. civ., all'interno di una società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, il creditore, in base alla disciplina delle obbligazioni solidali di cui agli artt. 1292 e seguenti cod. civ., può chiedere l'adempimento per la totalità, indifferentemente, a ciascuno dei condebitori solidali, così che l'adempimento di uno libera anche gli altri. Ne deriva che del tutto ragionevole è stata la condotta dell'ente creditore che ha rivolto la richiesta di adempimento del debito tributario al socio che risultava avere presentato la dichiarazione. Né la circostanza che eventualmente anche altri soggetti avrebbero potuto essere chiamati a rispondere penalmente per lo stesso fatto fa venire meno la responsabilità penale dell'imputato.


LO SCUDO FISCALE NON SALVA IL SOCIO DELL’AZIENDA CHE HA EVASO IMPOSTA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 6354 DELL’11 FEBBRAIO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Penale-, sentenza n°6354 dell’11 febbraio 2019, ha statuito che lo scudo fiscale non salva il socio dell'azienda che ha evaso e che gli ha restituito su un conto estero i proventi della frode. Il denaro rimpatriato dall'imprenditore come persona fisica, infatti, non rappresenta il profitto del reato, ma solo un vantaggio indiretto.

Nello specifico, il caso de quo riguarda un contribuente condannato per aver concorso al reato di dichiarazione fraudolenta di una società, compiuta portando in deduzione costi fittizi, cioè relativi a operazioni inesistenti. Queste ultime erano state fatturate da una società olandese, che aveva poi restituito la provvista estero su estero ai soci della società italiana, accreditandoli pro-quota su un conto monegasco, in proporzione alle partecipazioni detenute, per oltre un milione di euro.

Le doglianze del contribuente, contenute nel suo ricorso, riguardavano, tra l'altro, il mancato riconoscimento della causa di non punibilità prevista dall'articolo 13-bis, comma 4 del DL n. 78/2009, in quanto l'imprenditore si era avvalso dello scudo fiscale ter, regolarizzando le somme illecitamente detenute all'estero, previo pagamento della relativa imposta sostitutiva di legge, trattandosi del medesimo denaro derivante dall'evasione commessa della società.

Ex adverso, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato in toto la tesi difensiva, sottolineando che le somme versate alla società olandese e poi da questa restituite ai soci italiani presso la Banca del Principato “rappresentano un vantaggio indiretto del reato contestato, ma non sono certamente il profitto dello stesso, costituito dalle somme evase dalla società”.

In nuce la S.C., con la sentenza de qua, ribaltando l'orientamento della Corte d'Appello volto ad accordare il beneficio dello scudo, al fine di ridurre la confisca per equivalente disposta nei confronti dell'imprenditore, ha evidenziato come, una simile interpretazione si pone “in pieno contrasto con il principio della totale indipendenza tra le somme costituenti profitto del reato e mai restituite, con le somme indirettamente percepite dai soci a titolo personale tramite il meccanismo fraudolento posto in essere con la società olandese”. Pur trattandosi nei fatti dei medesimi fondi, la causa di non punibilità prevista dalla sanatoria non può, in alcun modo, essere invocata.


NEL SETTORE EDILE L’OBBLIGAZIONE CONTRIBUTIVA SULLA RETRIBUZIONE VIRTUALE E’ ESCLUSA NELLE SOLE IPOTESI TASSATIVAMENTE PREVISTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4690 DEL 18 FEBBRAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4690 del 18 febbraio 2019, ha (ri)statuito che nel settore edile l’esonero dal versamento dei contributi sulla c.d. “retribuzione virtuale” è consentito nelle sole ipotesi tassativamente indicate da parte del Legislatore.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Brescia, in parziale riforma del Tribunale di Bergamo, riconosceva come dovute le somme richieste attraverso cartelle esattoriali dall’Inps e dall’Inail in seguito a dei verbali ispettivi per contributi dovuti sulla retribuzione virtuale prevista dall’art. 29 D.L. 244/1995 convertito dalla Legge 341/1995. 

In sostanza, gli ispettori avevano provveduto a recuperare i contributi per periodi di sospensione senza retribuzione, basati su accordi individuali con i lavoratori utilizzando l’istituto dell’aspettativa per motivi personali e familiari. La Corte territoriale riteneva non estendibile per analogia l’elencazione prevista in materia circa le possibili esclusioni dall’obbligazione contributiva, trattandosi di una disposizione eccezionale riguardante il solo settore edile. 

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, a conferma del ragionamento logico giuridico della Corte d’Appello hanno rilevato che, oltre a quanto già stabilito dal citato D.L. 244/1995, il Decreto Ministeriale 16 dicembre 1996, in ragione di espressa delega, ha stabilito che sono da escludere: i permessi individuali non superiori a 40 ore annue, eventuali anticipazioni CIG, ferie collettive, assenze per corsi di formazione professionale. A queste ipotesi, va aggiunta la sospensione debitamente comunicata preventivamente all’Inps, affermando il principio della formalizzazione ed il controllo preventivo, come nelle ipotesi di sospensione CIG.

Dunque, la sospensione del rapporto di lavoro non può mai essere una libera scelta fra le parti, permanendo in tal caso l’obbligo contributivo, stante l’eccezionalità della norma che espressamente prevede l’ampliamento dei casi di esonero esclusivamente mediante decreti interministeriali. 

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 4 Marzo 2019