9 Marzo 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

I PERMESSI EX LEGGE 104/92 SONO RICONOSCIUTI AL LAVORATORE IN RAGIONE DELL'ASSISTENZA AL DISABILE E IN RELAZIONE CAUSALE DIRETTA CON ESSA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1394 DEL 22 GENNAIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1394 del 22 gennaio 2020, ha statuito, in tema di fruizione di permessi ex legge n°104/92 e di utilizzo per finalità estranee allo scopo, la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di L'Aquila aveva confermato la sentenza del Tribunale di Pescara ritenendo legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore dipendente per abuso dei permessi ex L. n°104 del 1992, art. 33, comma 3. La Corte di Appello, in sintesi, aveva osservato, che poteva ritenersi raggiunta la prova dell'abuso di quattro permessi, risultando dalla relazione dell'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro che il lavoratore, nelle  giornate richieste per l'assistenza, si era recato presso l'abitazione del padre, disabile, solo per 15 minuti – in una sola delle giornate previste -, utilizzando peraltro la pausa pranzo (e non l'orario concesso per il permesso).

Per la cassazione di tale sentenza il dipendente ha proposto ricorso eccependo la non necessaria coincidenza temporale tra tempo del permesso e tempo dell'assistenza diretta.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso precisando che il permesso di cui alla L. n°104 del 1992, art.33, è riconosciuto al lavoratore in ragione dell'assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa, senza che il dato testuale e la ratio della norma ne consentano l'utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza. Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari.

Invero, hanno continuato gli Ermellini, in base alla ratio della legge, che attribuisce al "lavoratore dipendente… che assiste persona con handicap in situazione di gravità…" il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa, è necessario che l'assenza dal lavoro si ponga in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile; questa può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative e pratiche  di qualsiasi genere, purché nell'interesse del familiare assistito.

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che non si avvalga del permesso previsto dal citato art. 33, in coerenza con la funzione dello stesso,  integra un abuso del diritto in quanto priva il datore di lavoro della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale.

 

IN MATERIA DISCIPLINARE NON E' VINCOLANTE LA TIPIZZAZIONE CONTENUTA NELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA AI FINI DELL'APPREZZAMENTO DELLA GIUSTA CAUSA DI RECESSO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 3277 DEL 11 FEBBRAIO 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 3277 del 11 febbraio 2020, ha statuito, in tema di licenziamento disciplinare, che è ininfluente la tipizzazione della condotta contenuta nel Ccnl che va analizzata per la sua gravità e proporzionalità rispetto alla giusta causa.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di L'Aquila aveva respinto il gravame proposto da un lavoratore avverso la decisione del Tribunale di Lanciano, che aveva rigettato l'opposizione avanzata di accertamento della illegittimità del licenziamento intimato per giusta causa. La condotta ascritta al lavoratore si sostanziava nell'abbandono del posto di lavoro, nell'avere lo stesso, con fare intimidatorio e violento, appoggiato la propria testa contro quella del Responsabile Shift Manager con chiaro intento di minaccia fisica e nell'avere, in presenza di colleghi, gettato via, con fare rabbioso, una pistola per la spruzzatura del sigillante, rischiando di colpire con tale strumento di lavoro gli altri lavoratori presenti nell'area.

Per la cassazione di tale sentenza il dipendente ha proposto ricorso adducendo che i fatti ascritti non avrebbero integrato la grave insubordinazione, ma una lieve insubordinazione, punibile con sanzione conservativa. All'uopo, il lavoratore sosteneva che il Ccnl applicato, con riguardo alle caratteristiche del fatto addebitatogli, prevedeva il provvedimento dell'ammonizione scritta, multa e/o sospensione.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso precisando che,  in tema di licenziamento disciplinare o per giusta causa, la valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti non va operata in astratto, bensì con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo; l'onere della prova del fatto contestato al lavoratore, che spetta al datore di lavoro, deve riguardare quindi la sussistenza di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed, in particolare, di quello fiduciario.

Inoltre, hanno continuato gli Ermellini, alla ricorrenza di una delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva non può conseguire automaticamente il giudizio di legittimità del licenziamento, ma occorre che la fattispecie tipizzata sia riconducibile alla giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento e dell'intensità dell'elemento volitivo.

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, in materia disciplinare, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell'apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.

 

SPROPORZIONATO IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE INFLITTO PER ASSENZA INGIUSTIFICATA, ANCHE SE PREVISTO DAL CCNL

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3283 DEL 11 FEBBRAIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3283 del 11 febbraio 2020, ha statuito che è illegittimo il licenziamento disciplinare comminato alla lavoratrice che, dopo numerosi anni in azienda senza alcun precedente disciplinare a suo carico, sia stata assente ingiustificata dal lavoro per cinque giorni a causa di un incidente subito dal proprio partner, al quale ha prestato assistenza nei giorni di assenza.

IL FATTO

Una lavoratrice provvedeva ad impugnare giudizialmente il licenziamento irrogatole per assenza ingiustificata dal servizio per cinque giorni consecutivi, nei quali aveva dovuto prestare assistenza al coniuge reduce da un incidente stradale.

La Corte d’Appello accoglieva la predetta domanda, sostenendo che, pur a fronte di una norma del CCNL che prevede l’assenza ingiustificata per tre giornate quale giusta causa di recesso, nel caso di specie la sanzione espulsiva doveva ritenersi sproporzionata.

Il datore di lavoro ricorreva allora in Cassazione ponendo quale motivo principale di gravame la previsione contrattuale del contratto collettivo applicato al rapporto che prevedeva il licenziamento in tronco nei casi di assenza ingiustificata per un periodo di durata superiore a cinque giorni.

Orbene, ciò premesso, i Giudici di Piazza Cavour con la sentenza de qua hanno respinto in toto il ricorso del datore di lavoro affermando che, in base a consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 26/03/2018 n. 7426, 13/12/2010 n. 25144 e recentemente Cass. 20/05/2019 n. 13533), è stato statuito il seguente principio di diritto secondo il quale “i concetti di giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione disciplinare costituiscono clausole generali, vale a dire disposizioni di limitato contenuto che richiedono di essere concretizzate dall'interprete tramite valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, a condizione però che la contestazione in tale sede contenga una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli "standards" esistenti nella realtà sociale e non si traduca in una richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo, accertamento che è riservato ai giudici di merito” (cfr. Cass. n. 13533 del 2019 cit.).

In sintesi, hanno proseguito gli Ermellini “Il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto ed a tutte le circostanze del caso, sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro”.

Per quanto sopra, hanno concluso i Giudici delle Leggi, il Giudice di merito ha l’onere di indagare circa la proporzionalità della sanzione rispetto all'illecito commesso, mediante una valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto ed a tutte le circostanze del caso e, pertanto, nel caso de quo deve andare esente da censure la pronuncia di merito, che – pur riconoscendo l'oggettivo disvalore della condotta tenuta dalla dipendente – ha ritenuto sproporzionato il recesso, a fronte di un comportamento unico nell’arco del lungo rapporto intercorso tra le parti, dettato da un’esigenza familiare inderogabile e non produttivo di alcun danno per l’azienda.

In nuce, nell'ambito di un procedimento disciplinare la contrattazione collettiva è senz'altro un punto di riferimento da cui il datore non può prescindere, per l’applicazione di una sanzione disciplinare, ma allo stesso tempo è sempre opportuno valutare con attenzione le giustificazioni presentate dal dipendente, oltre che tutte le circostanze del caso, inclusa la storia del lavoratore in azienda: il licenziamento in tronco, infatti, è fondato solo quando connesso alla dimostrata lesione definitiva del vincolo fiduciario da parte del dipendente.

 

NEL CALCOLO DI TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO SI DEVE INCLUDERE ANCHE IL PREMIO FEDELTÀ  PREVISTO PER IL DIPENDENTE DALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA AZIENDALE.

CORTE DI CASSAZIONE  –  SENTENZA N. 3625 DEL 13 FEBBRAIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3625 del 13 febbraio 2020, ha statuito che ai fini della determinazione della retribuzione utile al trattamento di fine rapporto deve essere valutato il titolo dell’erogazione e non la frequenza, donde il premio fedeltà rientra nel TFR.

La vicenda giudiziaria in esame nasce all’esito del ricorso depositato da un dipendente di una banca che lamentava la mancata sussunzione del premio fedeltà nella retribuzione utile al trattamento di fine rapporto.

La Corte d'Appello aveva sentenziato che il premio di fedeltà deve rientrare nella base del calcolo del TFR, in quanto fondato sulla protrazione dell'attività lavorativa per un certo lasso di tempo e rigorosamente collegato allo svolgimento del rapporto di lavoro.

La Cassazione ha rigettato il ricorso confermando quanto asserito dalla Corte territoriale e rafforzando maggiormente il concetto che ormai il trattamento di fine rapporto viene calcolato in base alla somma di quote di retribuzione annue accantonate per cui conta il titolo in base alla quale le retribuzioni sono effettuate e non la loro frequenza.

 

RISCHIA ANCHE L’AUTORICICLAGGIO L’IMPRENDITORE CHE REINVESTE IN AZIENDA I PROFITTI DEL REATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 37606 DELL’11 SETTEMBRE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Penale-, sentenza n° 37606 dell’11 settembre 2019, ha statuito che rischia anche la condanna per autoriciclaggio l'imprenditore che reinveste in azienda i profitti del reato che ha compiuto. Infatti, il delitto ex art. 648 ter.1 c.p. è integrato dalla condotta che si limita a ostacolare l'accertamento della provenienza del denaro, anche con operazioni tracciabili. Inoltre, nel profitto sequestrabile dell'autoriciclaggio rientrano pure i costi di gestione per reimpiegare i proventi illeciti del reato presupposto perché servano a generare altro profitto.

Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour hanno confermato appieno la misura cautelare reale a carico dell'imprenditore indagato per truffa aggravata, autoriciclaggio e corruzione fra privati. Il contribuente aveva venduto ai clienti delle banche a prezzi molto superiori al valore, grazie alle informazioni false sul taglio delle pietre e le modalità di investimento, organizzando così una vera e propria truffa con la complicità di funzionari degli istituti di credito, e reinvestendo i proventi delle vendite, nell’acquisto di altri diamanti da rifilare ai risparmiatori con le stesse modalità truffaldine.

In nuce, per la S.C., non sussiste  nel caso di specie la circostanza scriminante ex c. 4 dell'art. 648 ter.1 c.p., che si configura soltanto quando il denaro di provenienza illecita è oggetto di mera utilizzazione o godimento personali, in quanto solo i proventi spesi per beni strettamente personali sono esclusi dal sequestro.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

  Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 9 Marzo 2020