13 Marzo 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE SI IMPOSSESSA DI DOCUMENTI AZIENDALI RISERVATI ANCHE SE NON PROVVEDE ALLA LORO DIVULGAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3739 DEL 13 FEBBRAIO 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3739 del 13 febbraio 2017, ha statuito la piena legittimità del licenziamento intimato al dipendente che, pur non divulgandoli, sottrae documenti aziendali riservati.

Nel caso de quo, un dipendente, all'esito del procedimento disciplinare, veniva licenziato, per giusta causa, per aver sottratto dei documenti aziendali riservati, inerenti le materie prime, il loro costo, l'identità dei fornitori e dei clienti e, finanche, le modalità di produzione e di trasporto di uno specifico prodotto denominato “copolymer”.

Il subordinato adiva la Magistratura sostenendo l'illegittimità dell'atto di recesso datoriale in quanto, a suo dire, i documenti erano conservati in luogo a lui accessibile e nessuno gli aveva mai impedito di visionare gli atti relativi al ciclo produttivo. Inoltre, i documenti sottratti, non erano stati divulgati ad altri soggetti.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il dipendente ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che, il prestatore deve astenersi dal compiere non solo gli atti espressamente vietati, ma anche quelli che, per la loro natura e per le possibili conseguenze, risultano in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella compagine aziendale, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro, potenzialmente produttiva di danno.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il dipendente aveva sottratto documenti riservati inerenti il ciclo produttivo, violando il dovere di fedeltà, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno rigettato il ricorso, confermando la piena legittimità del licenziamento per il venir meno dell'imprescindibile vincolo fiduciario datore/lavoratore.

 

LA ILLEGITTIMITA' DEL LICENZIAMENTO PER CONDOTTA ANTISINDACALE OBBLIGA IL DATORE SOCCOMBENTE AL VERSAMENTO DEI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI PER IL PERIODO DI ESTROMISSIONE DEL LAVORATORE.                                    

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4899 DEL 27 FEBBRAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4899 del 27 febbraio 2017, ha (ri)confermato che il licenziamento determinato da motivi sindacali essendo viziato da nullità reca con sé la declaratoria di validità del rapporto di lavoro con conseguente obbligo del versamento dei contributi previdenziali fin dall'estromissione illegittima dei lavoratori.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Milano, in riforma della statuizione di primo grado, dichiarava dovuti i contributi richiesti dall'Inps per tre lavoratori in relazione al periodo intercorso tra il loro licenziamento e la loro riammissione in servizio a seguito di decreto ex art. 28 legge n° 300/70 (id: repressione della condotta antisindacale).

Non dello stesso avviso la società datrice che ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e ribadito il principio secondo cui, essendo il licenziamento determinato da motivi sindacali viziato da nullità ai sensi dell'art. 4, legge n° 604/1966, la declaratoria di antisindacalità del comportamento aziendale che vi abbia dato causa, reca con sé la declaratoria di regolarità ed efficacia del rapporto di lavoro. Pertanto, vale il principio generale secondo il quale gli atti nulli sono insuscettibili di produrre effetti giuridici.

Dovendo pertanto negarsi, hanno continuato gli Ermellini, che un licenziamento nullo per motivi sindacali sia idoneo a determinare l'estinzione del rapporto di lavoro, deve risolversi che l'obbligo contributivo a carico del datore di lavoro segue come conseguenza necessaria dell'acclarata persistenza del rapporto stesso.     

In nuce, ha concluso la Suprema Corte, il rapporto assicurativo e l'obbligo contributivo ad esso connesso, pur sorgendo con l'istaurarsi del rapporto di lavoro, sono del tutto autonomi e distinti, nel senso che l'obbligo contributivo del datore di lavoro verso l'Istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d'opera siano stati in tutto o in parte soddisfatti.


IN ASSENZA DI ATTO PUBBLICO O DI SCRITTURA PRIVATA AUTENTICATA NON E’ RAVVISABILE UN’IMPRESA FAMILIARE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 2472 DEL 10 FEBBRAIO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 2472 del 10 febbraio 2017, ha statuito che c'è impresa familiare solo in presenza di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che devono contenere l’indicazione nominativa dei partecipanti all’attività, avere data anteriore all’inizio del periodo d’imposta, essere sottoscritto dal titolare e dai congiunti. In assenza non è ravvisabile un’impresa familiare.

Come noto, l'impresa familiare è un istituto giuridico introdotto all'interno dell'ordinamento giuridico in seguito alla riforma del 1975 ed è disciplinato dall'articolo 230 bis del Codice Civile secondo cui "Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato".

IL FATTO

A seguito di una verifica fiscale a carico di un’impresa familiare, l’Agenzia delle Entrate emetteva per alcuni anni d’imposta avvisi di accertamento con ricalcolo delle imposte dovute ai fini delle imposte dirette e dell’IVA.

Il contribuente provvedeva prontamente a ricorrere alla giustizia tributaria, ma il ricorso proposto veniva respinto sia dalla C.T.P che dalla CT.R.

In particolare, i Giudici d’Appello ritenevano corretto la maggior imputazione di reddito a carico del titolare dell’impresa familiare, difettando la presenza di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata da cui risultasse l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività d’impresa.

Il titolare ricorreva allora in Cassazione lamentando che la C.T.R. aveva omesso di esaminare i quadri della dichiarazione dei redditi della titolare dell’impresa, attestanti l’avvenuta ripartizione del reddito con il coniuge partecipante all’impresa familiare, ai sensi dell'articolo 5 T.U.I.R.

Orbene, i Giudici nomofilattici, con la sentenza de qua, hanno respinto in toto i motivi di gravame proposti dal ricorrente, in particolare hanno ricordato come l’articolo 5, comma 4, del T.U.I.R., che disciplina il trattamento fiscale dei redditi prodotti dall’impresa in questione, prevede che “questi siano imputati, limitatamente al 49% dell’ammontare complessivo risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”.

In particolare, gli Ermellini hanno evidenziato come la suddetta norma stabilisca che, per accedere a tale regime fiscale, sia necessario il ricorso delle seguenti condizioni:

  • la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore deve indicare le quote attribuite ai singoli familiari e l’attestazione che le stesse sono proporzionate alla qualità e alla quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente;
  • ciascun partecipante deve attestare, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver lavorato nell’impresa familiare in modo continuativo e prevalente;
  • da atto pubblico o da scrittura privata autenticata deve risultare l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività d’impresa; l’atto, inoltre, deve avere data anteriore all’inizio del periodo d’imposta e deve essere regolarmente sottoscritto dall’imprenditore e dai familiari.

Nel caso di specie, seppur le dichiarazioni dei redditi dei partecipanti all’impresa familiare fossero state compilate in modo corretto, era stata omessa la stipula dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata da cui risultasse l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività di impresa. (Cfr. anche Cass. n. 23170/2010).

Per le motivazioni suddette la Corte suprema ha respinto il ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

 

PER SUSSISTERE IL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE NON È SUFFICIENTE IL MERO INVIO DEL MODELLO 770.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 10509 DEL 3 MARZO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 10509 del 3 marzo 2017, ha statuito che per configurarsi il reato di omesso versamento delle ritenute non è sufficiente l’invio della dichiarazione dei sostituti d’imposta (modello 770) ma è necessaria anche la consegna ai lavoratori delle certificazioni attestanti le ritenute a loro effettuate. 

Nel caso in specie, un imprenditore veniva imputato per il reato di omesso versamento delle ritenute certificate (art. 10-bis, D.Lgs. n. 74/2000). In qualità di sostituto d’imposta, infatti, lo stesso aveva omesso di versare le ritenute relative ad emolumenti corrisposti ai dipendenti.

Sia in primo grado che in appello, l’imputato veniva condannato. In particolare, i Giudici della Corte di Appello avevano ritenuto che, ai fini dell'integrazione del reato, era sufficiente che le ritenute fossero attestate nel modello 770.

L’imputato proponeva ricorso in Cassazione, sostenendo che in realtà, in base alla versione della norma vigente all'epoca dei fatti, non era sufficiente il mero 770 per ritenere integrato il reato, ma occorreva anche la prova del rilascio ai dipendenti delle certificazioni.

Si ricorda che l’art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000, nella versione ante D.Lgs. n. 158 del 2015, puniva chiunque non versava, entro il termine previsto per la presentazione di dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per importi superiori a 50.000 euro per ciascun periodo di imposta.

La fattispecie di reato ha subito poi delle rilevanti modifiche a seguito del D.Lgs. n. 158 del 2015 (in vigore dal 22 ottobre 2015) il quale non solo ha innalzato la soglia da 50.000 a 150.000 euro, ma ha previsto che l’omesso versamento delle ritenute possa risultare anche dalla dichiarazione del sostituto d’imposta (modello 770) oltreché dalle certificazioni.

Orbene, ciò premesso, Giudici del Palazzaccio hanno ritenuto fondata la doglianza del ricorrente, rilevando che prima delle recenti modifiche, l’elemento costitutivo del reato previsto dall’articolo 10 bis del citato decreto, era rappresentato dall’avvenuto rilascio della certificazione delle ritenute operate e, solo successivamente, con il novellato art. 10 bis, si è esteso la portata del reato anche alle ipotesi di omesso versamento derivante dalle somme risultanti dal 770.

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, la nuova formulazione della norma, ha confermato che per il passato, ai fini consumazione reato, aveva rilievo solo ed esclusivamente il rilascio delle certificazioni, atteso che non era espressamente richiamato il modello dichiarativo. Nella specie, la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto valide le sole risultanze del modello 770, in quanto l'accusa avrebbe dovuto dare atto, oltreché della presentazione del modello 770 da cui risultavano le ritenute effettuate, anche del fatto che le stesse fossero state certificate e che le stesse certificazioni fossero state rilasciate ai dipendenti sostituiti.

Da qui l’accoglimento del ricorso dell’imputato.
 

IL RIFIUTO DI OPERARE LE TRATTENUTE DELLE QUOTE SINDACALI E' DA RITENERSI CONDOTTA ANTISINDACALE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5321 DEL 2 MARZO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5321 del 2 marzo 2017, ha chiarito che il datore di lavoro quando si rifiuta di operare le trattenute delle quote sindacali, di un'associazione sindacale nazionale, pone in essere una condotta antisindacale di cui all'art. 28 della Legge 300/70.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Napoli, in linea con il Tribunale di Nola, confermava la   condotta antisindacale tenuta dalla Fiat Group Automobiles S.p.A. per aver rifiutato di operare le trattenute le quote sindacali sullo stipendio dei lavoratori iscritti allo S.IN Cobas, convogliato poi nel sindacato USB – Unione Sindacale Base Lavoro Privato (già Sdi e già S.IN Cobas). 

Nel caso de quo, gli Ermellini, in ordine ai motivi posti a base del ricorso, hanno chiarito che, affinché possa configurarsi una condotta antisindacale, di cui all'art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, è necessario che il comportamento in violazione riguardi associazioni sindacali nazionali. Requisito indubbiamente diverso dall'art. 19 della medesima Legge che, nel merito, ex adverso, richiede che le sigle sindacali siano sottoscrittrici di contratti collettivi applicati in azienda ovvero che abbiano partecipato alla negoziazione degli stessi (sentenza Corte Costituzionale 231/2013), mentre l'articolo 28 in commento, affinché l'azione sia condannabile, richiede solo che l'associazione sia nazionale.

Rispetto poi alla diffusione nazionale, è sufficiente che sia presente su gran parte del territorio, senza necessità di adesione ad una confederazione maggiormente rappresentativa.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 13 Marzo 2017