12 Marzo 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

NON VIOLA LA DISCIPLINA COMUNITARIA LA NORMA ITALIANA CHE CONSENTE LA RISOLUZIONE DEL RAPPORTO INTERMITTENTE AL COMPIMENTO DEL 25 ANNO D’ETA’

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4223 DEL 21 FEBBRAIO 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4223 del 21 febbraio 2018, ha statuito che è legittima la scelta del datore di licenziare il lavoratore assunto con contratto intermittente che compie 25 anni.

Nel caso in esame, la Suprema Corte era stata investita dal ricorso di parte datoriale a cui la Corte meneghina aveva dichiarato, in riforma del decisum primo grado, la illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore assunto con contratto intermittente e licenziato allo spirare del compimento del 25° anno di età.

In particolare, secondo la Corte di Appello, il contratto di lavoro intermittente concluso per esclusiva ragione dell'età, era illegittimo ed il rapporto di lavoro doveva considerarsi a tempo indeterminato con orario part – time e, non essendosi detto rapporto risolto validamente, la società andava condannata a riammettere il lavoratore nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno.

Nella fattispecie, i Giudici di Piazza Cavour, dopo il rinvio alla Corte di Giustizia europea, hanno concluso che non si configura una discriminazione in ragione dell’età, in violazione della Direttiva comunitaria n° 78/2000, atteso che si tratta(va) di una legge (art. 34 del d.lgs. 276/2003, oggi art. 13 del D.lgs. 81/2015, n.d.r.) che mira(va) a favorire i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa perché la disparità di trattamento era (ed è) giustificata da legittimi obiettivi di carattere sociale (favorire l’occupazione giovanile) perseguiti con mezzi appropriati e necessari.

Ciò posto, hanno concluso, non c’è violazione della disciplina comunitaria e dell’art. 21 della Carta dei diritti, rinviando alla Corte distrettuale, in differente composizione, per l’esame degli altri motivi di gravame.

 

RESTA A CARICO DEL LAVORATORE L'ONERE DI PROVARE LA SUSSISTENZA DEL TITOLO CHE AUTORIZZA IL MANTENIMENTO DEL SUPERMINIMO ESCLUDENDONE L'ASSORBIMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4533 DEL 27 FEBBRAIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n°4533 del 27 febbraio 2018, ha statuito, in relazione ad una operazione straordinaria di fusione per incorporazione, che per il mantenimento dell'assegno ad personam attribuito al lavoratore, occorre verificare che l'erogazione sia avvenuta intuitu personae.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale capitolino, aveva rigettato il ricorso  di un Istituto bancario che, a seguito di una operazione straordinaria di fusione per incorporazione, non aveva più corrisposto ad un dipendente della società incorporata l'assegno ad personam, in quanto assorbito dal trattamento economico, complessivamente più favorevole, al medesimo garantito dalla banca incorporante. La Corte d'Appello aveva pertanto condannato la banca al ripristino dell'assegno e al pagamento delle differenze retributive maturate.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la banca incorporante lamentando che la sentenza impugnata, non aveva minimamente esaminato che l'assegno ad personam rientrava nel trattamento di cui al ccnl di categoria e non era stato oggetto di pattuizione individuale con il lavoratore.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, sostenendo che la sentenza impugnata aveva semplicemente ritenuto che il riconoscimento dell'assegno ad personam, derivava da un accordo individuale, esplicitato nella lettera di assunzione, senza chiarirne il contenuto ed in particolare gli elementi da cui poteva ritenersi che si trattasse di assegno non riassorbibile, in quanto erogato intuitu personae. Considerato, infatti, che l'incorporazione non dà luogo ad alcuna novazione del rapporto di lavoro, ma alla sua prosecuzione con conseguente assunzione da parte del subentrante degli obblighi assunti nei confronti dei lavoratori, hanno continuato gli Ermellini, restava indimostrato che l'assegno de quo, fosse stato corrisposto intuitu personae e dunque non fosse riassorbibile.

Restando a carico del lavoratore l’onere di provare la sussistenza del titolo che autorizzava il mantenimento del superminimo, escludendone l’assorbimento, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata rinviandola alla Corte d'Appello di Roma, in diversa composizione.

 

LA SOSPENSIONE DELLA PENA CAUTELARE COERCITIVA PER IL PROFESSIONISTA CONDANNATO IN PRIMO GRADO IN QUANTO RITENUTO REGISTA DELLA FRODE FISCALE DEI CLIENTI NON E’ IMPUGNABILE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 55136 DELL’11 DICEMBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 55136 dell’11 dicembre 2017, ha statuito che è definitiva e non più impugnabile la sospensione del professionista che è di fatto il regista delle frodi fiscali commesse dai clienti se è già intervenuta, in primo grado, sentenza di condanna.

Nello specifico, secondo i Giudici di Piazza Cavour, che hanno respinto le doglianze di un consulente fiscale, dopo la sentenza di condanna, anche se solo in primo grado, non è più possibile sindacare, in sede di impugnazione de libertate, il quadro degli indizi di colpevolezza già acquisiti.

Infatti, come sostenuto dagli Ermellini nella de qua, i gravi indizi di colpevolezza, requisito della misura, non possono più essere messi in discussione dopo una condanna di primo grado, in quanto se si rendesse possibile la rivalutazione del presupposto di tali indizi anche dopo l’intervento di una sentenza sfavorevole, ne deriverebbe un pregiudizio per la coerenza del sistema, e quest’ultimo non può tollerare il concorso di due pronunce giurisdizionali sul tema della colpevolezza: l’una, incidentale e di tipo prognostico, e l’altra, fondata sul pieno merito e come tale suscettibile di passare in giudicato.

In nuce, la S.C. ha evidenziato che l’intervenuta sentenza affermativa di responsabilità penale del ricorrente, ribadendo la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza in relazione a tutti i capi di imputazione fra cui la frode fiscale, preclude: sia, in sede cautelare, la rivalutazione del quadro indiziario, a suo tempo posto a fondamento della misura interdittiva, sia nel giudizio di legittimità, la disamina delle censure relative a detto quadro.

 

ILLEGITTIMO L’ACCERTAMENTO PER IRREGOLARITÀ DELLA NOTIFICA ANCHE QUANDO IL CONTRIBUENTE SI DIFENDE IN GIUDIZIO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 30563 DEL 20 DICEMBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n°3386 del 12 febbraio 2018, ha statuito che la costituzione in giudizio del contribuente non ha l’effetto di sanare il vizio di notifica dell’avviso di accertamento, se nel frattempo è scaduto il termine concesso all’Amministrazione Finanziaria per l’esercizio del potere impositivo.

Il caso di specie è relativo ad un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate aveva rettificato il reddito d’impresa addebitando una maggiore imposta IRPEG, ed il conseguente giudizio promosso dalla società contribuente che lamentava l’intervenuta decadenza dell’Amministrazione dal potere impositivo per decorrenza del termine per difetto di notifica dell’avviso di accertamento in parola. Per il Giudice di Appello, che aveva riformato la decisione di prime cure, l’atto di accertamento era da considerarsi valido in quanto aveva raggiunto il suo scopo, posto che la società aveva esercitato il suo diritto di difesa, esponendo le proprie ragioni in maniera completa e articolata in sede giurisdizionale, e ciò aveva determinato la sanatoria di eventuali vizi della notifica e aveva escluso la decadenza dell’Amministrazione dalla potestà accertativa.

I Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno invece accettato in toto le doglianze evidenziate nel ricorso societario ritenendolo fondato, in quanto la costituzione in giudizio del contribuente non ha l’effetto di sanare il vizio di notifica dell’avviso di accertamento, se, nel frattempo, è scaduto il termine concesso all’Amministrazione Finanziaria per l’esercizio del potere impositivo.

In nuce, per gli Ermellini, l’inesistenza della notificazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità.

 

IL MANCATO PAGAMENTO DELLA RETRIBUZIONE AL FINE DI PROVOCARE LE DIMISSIONI DEL LAVORATORE CONFIGURA UNA IPOTESI DI LICENZIAMENTO RITORSIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4883 DEL 1 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4883 del 1° marzo 2018, ha ribadito la nullità del licenziamento intimato  per motivi ritorsivi.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Cagliari, a conferma della sentenza del Tribunale di prime cure, dichiarava l’illegittimità del licenziamento per giusta causa ed ordinava la reintegra nel posto di lavoro del dipendente estromesso.

Nel caso di specie, l’azienda aveva licenziato il lavoratore per una presunta simulazione dello stato di malattia, mentre è risultato dimostrato che la malattia era determinata esclusivamente dall’azione ritorsiva del datore di lavoro, a seguito del rifiuto del lavoratore di dimettersi.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno disatteso tutti i motivi posti a base del ricorso dell’azienda, in ragione dell’incapacità del ricorrente di prospettare una realtà difforme da quella ricostruita dai Giudici di merito. Difatti, dagli atti risultava anche la visita di controllo del medico fiscale e le certificazioni rese da un istituto di cura psichiatrico, dal quale emergeva il carattere ritorsivo consistente nel fatto che l’azienda aveva interrotto i pagamenti delle retribuzioni con il preciso intento di provocare le dimissioni. 

In conclusione, i Supremi Giudici, nel condannare l’azienda, hanno confermato che lo stato di malattia non era simulato ma indotto dal comportamento del datore di lavoro e dall’altro il chiaro l’intento ritorsivo del datore di lavoro volto ad obbligare il lavoratore ad una transazione su pregresse questioni economiche.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

    Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 12 Marzo 2018