11 Marzo 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

L’INDENNITA’ PER FERIE NON GODUTE E’ SOGGETTA A PRELIEVO FISCALE E CONTRIBUTIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5482 DEL 25 FEBBRAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5482 del 25 febbraio scorso, ha statuito, in linea con la giurisprudenza di legittimità maggioritaria, che l’indennità sostitutiva delle ferie non godute ha natura retributiva e, pertanto, agli effetti fiscali è soggetta a tassazione Irpef.

Gli Ermellini, in particolare, hanno avuto modo di precisare che l'indennità de qua è soggetta a tassazione a norma dell’art. 51 TUIR sia perché, essendo in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo e gode della garanzia apprestata dall'articolo 2126 c.c., a favore delle prestazioni effettuate con violazione di norme poste a tutela del lavoratore, sia perché un eventuale suo profilo risarcitorio non ne escluderebbe la riconducibilità all'ampia nozione di retribuzione imponibile delineata dal comma 1 del richiamato articolo del TUIR, proprio perché non è ricompresa nella elencazione tassativa delle erogazioni escluse dalla contribuzione.

Ne deriva che, anche in applicazione del principio dell’armonizzazione delle basi imponibili fiscale e contributiva, di cui al decreto delegato 314/97, la indennità per ferie non godute è soggetta sia al prelievo contributivo che a quello fiscale.

 

SANZIONI PER OMISSIONE CONTRIBUTIVA APPLICABILI SOLTANTO NEI CASI DI REINTEGRA A SEGUITO DI LICENZIAMENTO DICHIARATO INEFFICACE O NULLO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2019 DEL 24 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 2019 del 24 gennaio 2019, ha ribadito, in tema di reintegrazione del lavoratore per illegittimità del licenziamento e delle conseguenti sanzioni civili per omissioni contributive, le differenze degli effetti tra nullità ed annullabilità del licenziamento.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Roma aveva rigettato l'impugnazione proposta da una società datrice avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l'opposizione alla cartella esattoriale contenente l'intimazione al pagamento di somme per interessi e sanzioni dovuti per il ritardato pagamento di contributi previdenziali per lavoro dipendente. La cartella traeva origine dalla sentenza costitutiva di annullamento di un licenziamento giudicato illegittimo.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società invocando la irretroattività degli effetti della sentenza che aveva annullato il licenziamento.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, menzionando, sul tema, la pronunzia delle Sezioni Unite della Corte n° 19665 del 18.09.2014, secondo la quale: "in tema di reintegrazione del lavoratore per illegittimità del licenziamento, ai sensi dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, anche prima delle modifiche introdotte dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (nella specie, inapplicabile "ratione temporis"), occorre distinguere, ai fini delle sanzioni previdenziali, tra la nullità o inefficacia del licenziamento, che è oggetto di una sentenza dichiarativa, e l'annullabilità del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, che è oggetto di una sentenza costitutiva: nel primo caso, il datore di lavoro, oltre che ricostruire la posizione contributiva del lavoratore "ora per allora", deve pagare le sanzioni civili per omissione ex art. 116, comma 8, lett. a, della legge 23 dicembre 2000, n. 388; nel secondo caso, il datore di lavoro non è soggetto a tali sanzioni, trovando applicazione la comune disciplina della "mora debendi" nelle obbligazioni pecuniarie, fermo che, per il periodo successivo all'ordine di reintegra, sussiste l'obbligo di versare i contributi periodici, oltre al montante degli arretrati, sicché riprende vigore la disciplina ordinaria dell'omissione e dell'evasione contributiva".

Nella fattispecie, hanno concluso gli Ermellini, è pacifico che per il datore di lavoro, in presenza di un vizio di annullabilità del licenziamento, siano dovuti esclusivamente, oltre ai contributi non versati, i soli interessi nella misura legale per ritardato pagamento e non anche le correlate sanzioni civili.

 

I SOLI PRELIEVI DI CASSA NON POSSONO COSTITUIRE DI PER SÉ FONTE DI PROVA DELLA COMMISSIONE DEL REATO DI EVASIONE FISCALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 7242 DEL 18 FEBBRAIO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 7242 del 18 febbraio 2019, ha statuito che il contribuente non può subire una condanna per evasione fiscale sulla base dei soli prelievi di cassa ritenuti riferibili a ricavi non dichiarati.

Nel caso in specie, a carico di una società a responsabilità limitata l’Agenzia delle Entrate accertava induttivamente maggiori ricavi per il solo fatto di aver riscontrato in contabilità prelievi di cassa non giustificati. A seguito di questo accertamento il rappresentante legale della s.r.l. veniva accusato dei reati di cui agli artt. 4 e 2 del D.lgs. n. 74 del 2000 (dichiarazione fraudolenta e infedele), limitatamente alla evasione dell'IRES avendo omesso di indicare in dichiarazione dei redditi elementi attivi reali per un complessivo importo superiore al 10% degli elementi attivi indicati.

In entrambi i giudizi di merito penali il rappresentante legale veniva condannato con la pena della reclusione, da qui il ricorso per Cassazione. In particolare, la difesa ricorrendo lamentava la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui venivano ricondotti a reddito, sulla base di presunzione tipica tributaria, i prelievi di cassa operati dall’imputato e nella parte in cui sono stati considerati provati gli impieghi di essi come costi riferibili al ciclo produttivo dell’impresa
Orbene, i Giudici del Palazzaccio, condividendo i rilievi difensivi, hanno accolto il ricorso affermando che la deduzione della Corte territoriale si basava su una presunzione del diritto tributario che non può estendere il suo campo di azione anche nell’accertamento penale dei reati

Più precisamente, gli Ermellini hanno evidenziato come consolidata giurisprudenza di legittimità avesse più volte enunciato che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.lgs. n. 74/2000, potendo solamente essere fondamento di elementi indiziari atti a giustificare l'adozione di misure cautelari reali a carico del soggetto interessato (Cass. Pen. n. 26274/2018), si tratta, infatti, di elementi che non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato (ed il richiamo era proprio alla riconduzione a ricavi o compensi dei prelevamenti operati dal contribuente), assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa (Cass. n. 30890/2015, e n. 7078/2013).

Pertanto, i Giudici delle Leggi ritenendo che la Corte territoriale non avesse preso in considerazione, come indicato dalla giurisprudenza citata sopra, ulteriori elementi di riscontro, essendosi basata esclusivamente, ai fini della affermazione della penale responsabilità del ricorrente, sull’esistenza dei predetti prelievi di cassa, hanno annullato la sentenza di condanna.

 

LA DICHIARAZIONE OMESSA CONFIGURA SEMPRE UNA IPOTESI DI COLPA DEL CONTRIBUENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 1815 DEL 23 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 1815 del 23 gennaio 2019, ha statuito che in tema di sanzioni per le violazioni di disposizioni tributarie, la prova dell'assenza di colpa grava sempre sul contribuente, il quale risponde per l'omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte del professionista incaricato della relativa trasmissione telematica, ove non dimostri di aver vigilato sull'incaricato.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour hanno rigettato in toto le doglianze di un contribuente che riversava sul proprio consulente la responsabilità delle dichiarazioni omesse, come risultava dagli atti dell'Agenzia delle Entrate.

In tema di dichiarazioni fiscali per la S.C., infatti, il contribuente non assolve agli obblighi tributari con il mero affidamento ad un professionista a cui dà mandato a trasmettere in via telematica le dichiarazioni medesime alla competente Agenzia delle Entrate, essendo tenuto a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto, sicché la sua responsabilità è suscettibile d'esclusione solo in caso di comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento. 

Nel caso di specie, come evidenziato dagli Ermellini, la reiterazione per più anni degli inadempimenti evidenzia l'omissione di qualunque riscontro in ordine allo svolgimento delle attività che avrebbe dovuto espletare il consulente e la conseguente colpevolezza del contribuente.

In nuce, come chiarito nella massima dell’ordinanza stessa, in tema di violazioni di disposizioni tributarie, la responsabilità è tutta del contribuente, il quale risponde sempre per le sanzioni derivanti dall’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte del professionista incaricato della relativa trasmissione telematica, tranne nel caso in cui dimostri di aver correttamente vigilato sull’opera del professionista.

 

NEL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO L’ANDAMENTO ECONOMICO DELL’AZIENDA NON DEVE ESSERE NECESSARIAMENTE PROVATO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4946 DEL 20 FEBBRAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4946 del 20 febbraio 2019, ha (ri)statuito che in materia di licenziamenti per giustificato motivi oggettivo non si rende necessario provare l’andamento economico, risultando sufficiente dimostrare le ragioni di carattere organizzativo.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Bologna, a conferma del Tribunale di Bologna, riconosceva legittimo il licenziamento per giustificato motivo di una lavoratrice perché risultava verificata la crisi economica dell’azienda, a cui era seguita la soppressione del posto di lavoro con attribuzione a livello centrale delle relative mansioni.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno duramente bacchettato i Giudici di merito puntualizzando sul fatto che gli stessi sono sembrati impegnati per lo più a confermare argomenti e documenti circa la condizione economica ed organizzativa della società all’atto del licenziamento, piuttosto che accertare gli effettivi requisiti posti a base del licenziamento. E’ormai un orientamento consolidato quello che ritiene l’andamento economico negativo un fatto non necessariamente dimostrabile, risultando sufficienti le ragioni riguardanti l’attività produttiva e organizzativa, ivi comprese le ipotesi di efficientamento gestionale ovvero di incremento della redditività.

Infine, i Giudici di Piazza Cavour hanno ribadito, ancora una volta, che non è onere del lavoratore indicare i posti vacanti nell’impresa ai fini del repechage.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 11 Marzo 2019