14 Marzo 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….

 

NON BASTA LA SOPPRESSIONE DELLA FIGURA PROFESSIONALE PER LEGITTIMARE IL LICENZIAMENTO DELLA COORDINATRICE
CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2010/2022 DEL 24 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 2010, depositata il 24 gennaio, ha sancito che la soppressione di una categoria professionale non è sufficiente a legittimare il licenziamento del loro coordinatore se questi svolgeva anche ulteriori compiti non limitati a quelli relativi alla figura soppressa.
In un centro medico si decideva di licenziare tutti gli operatori socio-sanitari e, di conseguenza anche la lavoratrice che, per anni, aveva svolto il ruolo di loro coordinatore. La lavoratrice impugnava il licenziamento, che veniva dichiarato illegittimo, ed otteneva il pagamento di un'indennità risarcitoria, commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal recesso al pensionamento, la regolarizzazione contributiva ed il pagamento dell'indennità sostitutiva della reintegra, pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Veniva escluso, invece, il risarcimento del danno alla salute richiesto dalla lavoratrice.
La Corte d’Appello confermava l’illegittimità del licenziamento, avvenuto nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo. La società datrice proponeva ricorso in Cassazione denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 24 L. n.223/1991 e dell’art.18 l. n. 300/1970.
La Corte Suprema, dopo aver sottolineato che nella comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo la società aveva rappresentato quale motivo dell'esubero la decisione di sopprimere dall'organigramma aziendale il comparto degli operatori socio-sanitari e, conseguentemente, la figura professionale di coordinatore di detti operatori rivestita dalla lavoratrice, evidenziava che la lavoratrice aveva sempre svolto compiti ben più ampi di quelli di coordinatrice degli operatori socio-sanitari. Né poteva ritenersi rilevante che il programma di riorganizzazione esposto dalla società ponesse la necessità di sopprimere il profilo professionale di coordinatrice in chiara ed inequivocabile connessione causale con l'esigenza di soppressione del comparto degli operatori socio-sanitari. Lo svolgimento, da parte della lavoratrice all'interno della casa di cura, di compiti ulteriori oltre quello di coordinatrice degli operatori socio-sanitari escludeva, quindi, il nesso causale tra il programma di riduzione del personale e la scelta di sopprimere il posto ricoperto dalla lavoratrice.
Gli Ermellini, inoltre, affermavano che non erano stati travalicati i limiti propri del controllo giurisdizionale in tema di licenziamento collettivo, posto che i giudici d’Appello non erano entrati nel merito della opportunità della iniziativa imprenditoriale di sopprimere il reparto degli operatori socio-sanitari, la cui valutazione è effettivamente riservata al controllo ex ante delle organizzazioni sindacali, ma si erano limitati a rilevare “l'assenza di nesso casuale tra la (legittima) scelta di ridimensionamento dell'organico in relazione agli operatori socio-sanitari e la soppressione del posto occupato dalla lavoratrice.
La Corte confermava anche il ristoro economico riconosciuto alla lavoratrice avvalorando il consolidato orientamento secondo il quale la circostanza che all'epoca dell'esercizio dell'opzione la dipendente fosse già titolare del trattamento pensionistico non si configura quale causa ostativa alla reintegrazione e, quindi, all'esercizio dell'opzione per la indennità sostitutiva in quanto il conseguimento della pensione di anzianità non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato.

LA SOTTRAZIONE DI KNOW HOW AZIENDALE RAPPRESENTA CONDOTTA SANZIONABILE CON IL LICENZIAMENTO, ANCHE SE NON C’È EFFETTIVO UTILIZZO DELLE INFORMAZIONI IN DANNO AL DATORE DI LAVORO
CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2402 DEL 27 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 2402 del 27 gennaio 2022, statuisce che la mera sottrazione di materiale aziendale, dal quale possono essere ricavate informazioni sui processi produttivi aziendali, integra una condotta sanzionabile con il licenziamento disciplinare, indipendentemente da un effettivo utilizzo dei documenti in danno al datore di lavoro.
Nel caso in esame, un dirigente impugna il licenziamento conseguente a due contestazioni disciplinari: la prima avente ad oggetto la denuncia di un inadeguato monitoraggio della produzione dei capi della stagione, nonché un'omessa comunicazione del ritardo al datore di lavoro; la successiva relativa all'appropriazione di documentazione aziendale.
Sia in primo, che in secondo grado la domanda veniva rigettata, in quanto la condotta posta in essere era da considerarsi come un tentativo di sottrarre il “know how” aziendale, per eventualmente avvalersene in epoca successiva. Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione, sostenendo che il materiale rinvenuto nella sua auto avesse per lo più valore storico e costituiva materiale di normale consultazione di cui era consentita l'asportazione fuori dei locali aziendali, pertanto la sua asportazione fuori dai locali aziendali non rappresentava una fattispecie punibile con il licenziamento disciplinare.
La Suprema Corte afferma che, ai fini della determinazione di una condotta sanzionabile, ciò che rileva è l’effettiva sottrazione di documenti aziendali relativi ai processi di lavorazione interna aziendale. Accertata la provenienza aziendale del materiale, a nulla rileva l’eventuale utilizzabilità del materiale sottratto per arrecare danno al datore di lavoro, che non assume ruolo decisivo ai fini della valutazione della condotta e della sua gravità.
Per le ragioni esposte, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso del lavoratore.

L’IRROGAZIONE DELLA SANZIONE DISCIPLINARE DEVE SEGUIRE IL PRINCIPIO DI IMMEDIATEZZA E TEMPESTIVITA’ DELLA CONTESTAZIONE.
CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2654 DEL 28 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 2654 del 28 gennaio, ha ribadito che il datore di lavoro, anche per le sanzioni conservative, deve sempre procedere alla contestazione disciplinare con tempestività, atteso che il ritardo nella contestazione lede il diritto di difesa del lavoratore.
Nel caso preso in esame, la Corte d’Appello confermando quanto deciso dal Tribunale di primo grado, annullava la sanzione disciplinare, consistente nella sospensione dal servizio senza retribuzioni per tre giorni, comminata al dipendente di un istituto bancario. Secondo i Giudici, infatti, era stato violato il principio di immediatezza e tempestività della contestazione disciplinare avvenuta in ritardo rispetto a fatti già noti in seguito all'audizione del lavoratore.
Avverso tale decisione la società datrice proponeva ricorso in Cassazione lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della L. n. 300/1970 non avendo la Corte tenuto conto della circostanza tale per cui si trattava di una sanzione conservativa e non espulsiva e, pertanto, avrebbero dovuto tener conto diversamente del concetto di tempestività della contestazione. In ogni caso, secondo il ricorrente, i giudici di secondo grado avrebbero disatteso la regola secondo la quale il requisito di tempestività deve essere inteso in senso relativo, considerando anche la complessità organizzativa e strutturale del datore di lavoro.
La Corte di Cassazione, ribadendo un principio già consolidato, affermava che, anche per le sanzioni conservative, il datore deve procedere alla contestazione non appena abbia conoscenza dei fatti oggetto di addebito, atteso che il ritardo nella contestazione lede il diritto di difesa del lavoratore e, soprattutto, il suo affidamento sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore alla condotta del lavoratore (cfr. Cass. civ. n.29627/2018). La valutazione della tempestività, inoltre, “costituisce giudizio di merito, non sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivato” (ex multis Cass. civ. n.31532/2019), in proposito la Suprema Corte aveva già affermato che, in caso di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono comportare un ritardo della stessa (quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa), “con valutazione riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici” (Cass. civ. n.16841/2018).

L’ALIUNDE PERCEPTUM O PERCIPIENDUM VA DETRATTO DAL RISARCIMENTO DEL DANNO COMMISURATO ALLE RETRIBUZIONI PERSE DAL LICENZIAMENTO ALL’EFFETTIVA REINTEGRA. SE IL RISULTATO E’ SUPERIORE O UGUALE ALLE 12 MENSILITA’ VA EROGATO TALE ULTIMO IMPORTO.
CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 3824 DEL 7 FEBBRAIO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 3824 del 7 febbraio 2022, è intervenuta per chiarire il significato della portata di cui all’art. 18 comma 4 della L. 300/70 e sulla modalità di detrazione dell’aliunde perceptum e/o percipiendum.
In particolare, come noto, la predetta disposizione prevede che “nei casi …omissis…il Giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché' quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”.
La querelle era sorta in quanto le società datrici di lavoro ritenevano che l'aliunde perceptum o percipiendum dovesse essere detratto dal tetto massimo delle dodici mensilità, mentre i lavoratori ritenevano che la detrazione dell'aliunde perceptum o percipiendum fosse preclusa qualora l'attività svolta aliunde non si sovrapponesse al periodo di inoccupazione risarcito.
Ebbene, hanno specificato i Giudici nomofilattici, la determinazione dell'indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo dell'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, a titolo di aliunde perceptum o percipiendum, e, comunque, entro la misura massima corrispondente a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, senza che possa attribuirsi rilievo alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel corso del periodo di estromissione; se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all'importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l'indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo.

L'ERRONEO ADDEBITO IVA SU OPERAZIONI NON IMPONIBILI PER PRESTAZIONE DI SERVIZI NON CONSENTE IL DIRITTO DEL COMMITTENTE ALLA DETRAZIONE DELL'IMPOSTA.
CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.5012 DEL 16 FEBBRAIO 2022.

La Corte di Cassazione – ordinanza n°5012 del 16 febbraio 2022 – ha statuito, in tema di  illegittima detrazione dell’IVA, che per le prestazioni di servizi non imponibili, qualora il prestatore abbia emesso (erroneamente) una fattura con l’applicazione dell’IVA, non può riconoscersi il diritto del committente alla detrazione dell’imposta.
Nel caso de quo, la Commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna aveva rigettato l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate in ordine alla rettifica parziale di un Avviso di accertamento operata dalla CTP. In particolare, il giudice d'appello aveva confermato la sentenza di primo grado  riconoscendo il diritto alla detrazione dell'Iva effettuata da un contribuente (committente)  in relazione a prestazioni di trasporto afferenti merci destinate all'esportazione per le quali, erroneamente, il prestatore,  in luogo del titolo di non imponibilità ex art. 9, DPR n°633/72, aveva  applicato l'Imposta sul valore aggiunto.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'Agenzia delle Entrate.
Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ricordando che il DPR n° 633 del 1972, art. 9, comma 1, nella versione applicabile ratione temporis, prevede, al n. 2), che costituiscono servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali non imponibili, tra gli altri, "i trasporti relativi a beni in esportazione, in transito o in importazione temporanea….". Sul punto, hanno continuato gli Ermellini, qualora, con riferimento ad una prestazione di servizi non imponibile, il prestatore abbia emesso una fattura con applicazione dell'Iva, non può riconoscersi il diritto del committente alla detrazione dell'imposta, in quanto lo stesso è connesso, come regola generale, all'effettiva realizzazione di un'operazione imponibile, per cui non si estende all'IVA dovuta per il solo fatto e nella misura in cui essa sia stata indicata in fattura.
Conseguentemente, ove l'operazione sia stata erroneamente assoggettata all'Iva, sarebbero restati privi di fondamento non solo il pagamento dell'imposta da parte del cedente (che perciò ha diritto di chiedere all'Amministrazione il rimborso di quanto versato) e la rivalsa effettuata dal cedente o prestatore nei confronti del cessionario o committente (che può quindi chiedere al primo la restituzione dell'Iva in via di rivalsa erroneamente versata), ma anche la detrazione operata dal cessionario o committente nella sua dichiarazione Iva, con conseguente potere-dovere dell'Amministrazione di escludere la detrazione dell'imposta così pagata in rivalsa.
La fattispecie, hanno concluso gli Ermellini, non rientra neanche nei casi previsti dall'art. 6, comma 6, D.Lgs. n° 471/1997 che dispone l'applicazione di una sanzione amministrativa per le ipotesi di illegittima detrazione dell'Iva assolta, in quanto, la possibilità attiene unicamente ai casi in cui, a seguito di un’operazione imponibile, l’Iva sia stata erroneamente corrisposta sulla base di un’aliquota maggiore rispetto a quella effettivamente dovuta.
Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 14 Marzo 2022