19 Marzo 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI FEBBRAIO 2018

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Febbraio 2018. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Febbraio 2018 è pari a 0,546736 e l’indice Istat è 101,5.

L’INGERENZA DEL SOCIO ACCOMANDANTE NELL’ATTIVITA’ DELLA SOCIETA’ COMPORTA LA SUA RESPONSABILITA’ PER LE OBBLIGAZIONI SOCIALI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5077 DEL 5 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5077 del 5 marzo 2018, ha (ri)statuito che laddove il socio accomandante interferisca nell’attività della S.a.s., partecipando a molteplici attività e ponendo in essere veri e propri atti di gestione, diventa responsabile (anch’egli) per le obbligazioni sociali.

Nel caso de quo, una lavoratrice veniva estromessa dal proprio lavoro mediante un licenziamento comunicato solo verbalmente. La prestatrice adiva la Magistratura palesando l’inefficacia dell’atto di recesso e chiamando in giudizio anche il socio accomandante della società in quanto, a suo dire, lo stesso partecipava fattivamente all’attività aziendale ed alla conduzione economico/finanziaria della stessa.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, l’azienda datrice di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno nuovamente evidenziato che, nel caso in cui il socio accomandante di una società in accomandita semplice partecipi attivamente alla gestione e conduzione aziendale diventa responsabile delle obbligazioni sociali in uno al socio accomandatario.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il socio accomandante era quotidianamente presente nella sede aziendale, provvedeva ad incassare somme e gestire assegni ed altri titoli di credito, i Giudici dell'Organo di nomofilachia, nel confermare l’inefficacia del licenziamento comunicato oralmente (con tutte le conseguenze retributive e contributive), hanno sottolineato la piena responsabilità per le obbligazioni sociali del socio accomandante che partecipi all’attività aziendale ed alla sua gestione.

 

IL SUPERAMENTO DELLA SOGLIA DI PUNIBILITA’ IN CASO DI MANCATO VERSAMENTO DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI DEI LAVORATORI VA VERIFICATA CON RIFERIMENTO AL PERIODO 16 GENNAIO -16 DICEMBRE DI OGNI ANNO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE – SENTENZA N. 10424 DEL 7 MARZO 2018

La Corte di cassazione – SS.UU. Penali -, sentenza n° 10424 del 7 marzo 2018, ha statuito che, al fine di verificare il superamento della soglia annuale (€ 10.000,00#) di punibilità in caso di omesso versamento delle ritenute previdenziali a carico dei lavoratori dipendenti, deve aversi riguardo al periodo che va dal 16 gennaio al 16 dicembre di ciascun anno (periodo contributivo dicembre dell’esercizio precedente al novembre dell’esercizio in corso).

La III Sezione penale della Suprema Corte, sul ricorso di un legale rappresentante di una società, condannato per il reato di cui all’art. 2, comma 1-bis, della Legge 638/83 (di conversione del DL 463/83), rilevate le difficoltà interpretative, anche all’esito di contrastanti interpretazioni di prassi fra INL e Inps – sebbene appianate con la nota del 25.09.2017 dell’INL – sorte all’esito della depenalizzazione (entro la soglia annuale di € 10.000,00) del reato de quo ad opera dell’art. 3, comma 6, del decreto delegato 8/2016, decideva di rimettere gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione per una statuizione a Sezioni Riunite.

Ebbene, con la sentenza de qua, la Corte di Cassazione –Sezioni Unite Penali-, dopo aver effettuato una esegesi normativa e richiamata la prassi finora formatasi, ha stabilito che il debito previdenziale sorge al termine di ogni mensilità, ma la condotta del mancato versamento assume rilievo soltanto con lo spirare del termine di scadenza indicato dalla Legge.

Donde è stato affermato il seguente principio di diritto: “ in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei dipendenti, l’importo complessivo superiore ad euro 10.000 annui, rilevante ai fini del raggiungimento della soglia di punibilità, deve essere individuato con riferimento alle mensilità di scadenza dei versamenti contributivi (periodo 16 gennaio-16 dicembre, relativo alle retribuzioni corrisposte, rispettivamente, nel dicembre dell’anno precedente e nel novembre dell’anno successivo).
 

NEL PROCEDIMENTO PER IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE DEL LAVORATORE L'E-MAIL SENZA FIRMA DIGITALE NON COSTITUISCE PROVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5523 DEL 8 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5523 del 8 marzo 2018, in relazione ad un licenziamento per giusta causa, è intervenuta sul valore probatorio dell'e-mail senza firma digitale stabilendone la inattendibilità in ordine alla caratteristica della possibile alterazione e/o modificabilità.

Nel caso de quo, un dirigente era stato licenziato al termine di un procedimento disciplinare ex art. 7 l. n° 300/70 per la propria condotta irregolare in merito all'applicazione di cd. "rivalutazioni di magazzino" che, secondo le indagini aziendali aveva portato all'accredito di somme non dovute in favore di alcune società commerciali partner, in quanto relative a giacenza di prodotti di telefonia mobile, in realtà non esistenti. La prospettazione di parte datoriale era fondata su messaggi di posta elettronica rinvenuti sulla casella di posta aziendale non certificata.

Il Tribunale di Roma aveva rigettato la domanda di impugnativa di licenziamento proposta dal lavoratore. Ex adverso, la Corte d'Appello della stessa città, aveva riformato la sentenza di primo grado e dichiarato l'illegittimità del licenziamento, sostenendo la dubbia valenza probatoria dei messaggi di posta elettronica sui quali si era fondata la prova della colpevolezza del lavoratore.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendo infondati i motivi addotti. In particolare, gli Ermellini hanno ribadito che il messaggio di posta elettronica è riconducibile alla categoria dei documenti informatici secondo la definizione che di questi ultimi reca l'art. 1, comma 1, lett. p), del D.Lgs. n° 82/2005. Quanto all'efficacia probatoria dei documenti informatici, l'art. 21 del medesimo D.Lgs., nelle diverse formulazioni, ratione temporis vigenti, attribuisce l'efficacia prevista dall'art. 2702 c.c. (id: efficacia della scrittura privata) solo al documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, mentre è liberamente valutabile dal Giudice, ai sensi dell'art. 20, D.Lgs. n° 82/2005, l'idoneità di ogni diverso documento informatico (come l'e-mail tradizionale) a soddisfare il requisito della forma scritta, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità.

In conclusione, nella impossibilità di certificare l'autenticità dei messaggi allegati, apparendo sufficiente intervenire sul programma di posta elettronica affinché chi li riceve possa vederli come se fossero inviati da altro indirizzo, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso e condannato altresì la società al pagamento delle spese di giudizio di legittimità.

 

IL FINANZIAMENTO DEI SOCI ALLA SOCIETÀ SI INTENDE A TITOLO ONEROSO, SALVA LA PROVA CONTRARIA GRAVANTE SUL CONTRIBUENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 3819 DEL 16 FEBBRAIO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 3819 del 16 febbraio 2018, ha statuito che i finanziamenti dei soci alla società si presumono onerosi, con conseguente necessità dell’applicazione della relativa ritenuta di acconto sugli interessi passivi, fino a prova contraria da fornire da parte del contribuente per dimostrare la gratuita dell’operazione.

IL FATTO

A carico di una società di capitali l’Agenzia delle Entrate provvedeva a recuperare le ritenute d’acconto non versate sugli interessi passivi corrisposti ai soci a fronte di finanziamenti ricevuti.

La società ricorreva prontamente alla giustizia tributaria, risultando soccombente in primo grado e vittoriosa in secondo. In particolare la C.T.R. accoglieva le doglianze della società ricorrente, ritenendo, sul punto, che non vi fosse alcuna prova che i finanziamenti dei soci fossero fruttiferi e che il recupero della ritenuta sugli interessi fosse dunque illegittimo.

Da qui il ricorso in Cassazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, lamentando la violazione dell’articolo 26, comma 5, del D.P.R. 600/1973, che prevede l’obbligo di operare una ritenuta, nella specie pari al 12,5% a titolo di acconto, sugli interessi e altri proventi corrisposti a persone fisiche residenti, e dell’articolo 45 del Tuir, che pone una presunzione di fruttuosità delle somme versate dai soci a titolo di finanziamento, dalla quale discende la piena legittimità del recupero delle ritenute sugli interessi, senza che l’ufficio sia tenuto ad accertarne l’effettiva corresponsione.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, con la sentenza de qua, hanno ritenuto fondate le doglianze dell’Amministrazione; infatti, uniformandosi a precedente giurisprudenza di legittimità, hanno riconosciuto la fondatezza del motivo di ricorso proposto dall’amministrazione finanziaria.

In particolare, i Giudici delle Leggi hanno osservato che “la dimostrazione della mancata percezione degli interessi attivi sulle somme date a mutuo incombe sul contribuente, già per il carattere normalmente oneroso del contratto di mutuo, quale previsto dall’art. 1815 c.c., nonché in virtù della presunzione fissata dal 2° comma dell’art. 45” del Tuir. Di qui la conseguenza che “la società di capitali che abbia ricevuto somme di danaro a titolo di mutuo dai propri soci ha l’obbligo di effettuare la ritenuta d’acconto sugli interessi corrispettivi dovuti ai soci mutuanti (…) ai sensi dell’art. 26 del D.P.R. 600/73”, non solo nell’ipotesi in cui la corresponsione di detti interessi sia effettivamente avvenuta, ma altresì “quando essa sia soltanto presunta dalla legge”.

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, l’Agenzia delle Entrate aveva correttamente applicato la presunzione di onerosità del mutuo: in assenza di prova contraria fornita dalla contribuente, appariva dunque legittima la ripresa a tassazione della ritenuta di acconto non versata.

Da quanto sopra si desume chiaramente:

  • il finanziamento erogato da un socio si ritiene conferito a titolo di mutuo, in assenza della prova di un diverso titolo che risulti dai bilanci o rendiconti della società
  • le somme erogate a titolo di mutuo si presumono fruttifere, salva la prova della gratuità del versamento.

In nuce, per vincere la presunzione di onerosità è opportuno che i versamenti effettuati dai soci a titolo di finanziamento alla società, vengano formalmente deliberati in conto capitale ed infruttiferi con un verbale assemblea.

 

LA COMUNICAZIONE DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO E’ DA INTENDERSI VIZIATA QUANDO LA CARENZA LIMITI LA FUNZIONE DI CONTROLLO SINDACALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5556 DELL’ 8 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5556 dell’8 marzo 2018, ha statuito nuovamente che la comunicazione di licenziamento collettivo non può essere considerata carente quando non limiti la funzione sindacale di verifica.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Roma, a conferma della sentenza del Tribunale di prime cure, dichiarava illegittima la procedura di mobilità adottata dall’azienda nel 2008.

I Giudici capitolini ritenevano irregolare la procedura aziendale ex art. 4, comma 3, della Legge 223/1991 in quanto non specificava il numero e le persone in esubero, atteso che in essa si rinviava soltanto –quanto al personale da mantenere in servizio- agli obblighi di Legge.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno ritenuto fondato il secondo motivo posto a base del ricorso della società datrice. Infatti, secondo i Giudici di Piazza Cavour, i Magistrati dei gradi di merito avevano omesso di considerare che il riferimento agli obblighi di Legge conteneva un implicito rinvio alla norma Regionale del Lazio n. 4 /2003 (abrogativa della Legge Regionale 64/1987) che, con il suo varo, ha cambiato gli obblighi di dotazione del personale ausiliario, imponendo alle case di cura accreditate di munirsi di personale in possesso di specifica qualifica O.S.S. ed O.T.A. ad esaurimento.

Inoltre, con la sentenza in commento è stato rappresentato che ogni incompletezza o inesattezza dei dati, così come la divergenza numerica tra esuberi nella comunicazione iniziale e finale, è da intendersi tale quando è capace di limitare la funzione sindacale di controllo e valutazione e che sussiste un rapporto causale fra la presunta carenza e la limitazione della funzione sindacale.

In conclusione, i Supremi Giudici hanno ritenuto che l’indicazione del profilo professionale di ausiliario, senza specifica indicazione di reparto o ufficio fosse sufficiente a rendere legittima la procedura anche in ragione dell’implicito rinvio alla Legge regionale del Lazio.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 19 Marzo 2018