25 Marzo 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LEGITTIMA LA COLLOCAZIONE IN CIG DEL DIPENDENTE REINTEGRATO NEL POSTO DI LAVORO A SEGUITO DI SENTENZA DI MERITO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7064 DEL 12 MARZO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7064 del 12 marzo 2019, ha affermato che la reintegrazione nel posto di lavoro non equivale al ripristino del rapporto di lavoro se lo stesso è sospeso a seguito di collocazione in cassa integrazione guadagni di parte del personale dipendente.

Nel caso de quo, un lavoratore veniva licenziato dalla propria azienda. A seguito di impugnativa del licenziamento il prestatore veniva reintegrato nel posto di lavoro venendo, però, collocato in CIG atteso lo stato di difficoltà aziendale. Successivamente il medesimo dipendente, addetto alla mansione di sorvegliante della struttura aziendale, veniva licenziato, all’esito del procedimento sancito dallo Statuto dei lavoratori, per aver sottratto una tanica di 24 litri di benzina dalla pompa di erogazione del distributore interno alla società.

Il prestatore adiva nuovamente la Magistratura sostenendo sia l’illegittimità del recesso datoriale che la propria collocazione in cassa integrazione guadagni all’atto del reintegro a seguito della prima sentenza di merito.

Soccombente in entrambi i gradi di giudizio, il lavoratore ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel rigettare il ricorso, hanno colto l’occasione per evidenziare nuovamente che l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro presuppone la persistenza del rapporto e quindi l’inidoneità del licenziamento illegittimo a produrre il suo effetto estintivo. L’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento ed il conseguente ordine di reintegrazione comportano la ricostituzione de iure del rapporto di lavoro il quale va considerato come mai risolto a prescindere dal concreto ripristino del rapporto di lavoro.

Pertanto, atteso che caso di specie l’azienda aveva prontamente reintegrato il lavoratore, seppur collocandolo in CIG (come altri lavoratori), i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando la correttezza dell’operato datoriale.

 

IL RISARCIMENTO DEL DANNO IN FAVORE DEL LAVORATORE INFORTUNATO DEVE ESSERE QUANTIFICATO IN RELAZIONE ALLE REALI LESIONI PATITE PRESCINDENDO DALLA DEFINIZIONE FORMALE DEL TITOLO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 6269 DEL 4 MARZO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 6269 del 4 marzo 2019, ha nuovamente statuito che, per quel che concerne l’alveo dell’infortunistica sul lavoro, con particolare riferimento al risarcimento del danno, la quantificazione delle somme dovute al prestatore deve essere effettuata con riferimento al reale nocumento subito prescindendo dalla definizione formale dei titoli attribuiti alle varie tipologie di danno.

Nel caso in disamina, un lavoratore, dopo aver ottenuto il risarcimento del danno non patrimoniale, con sentenza definitiva, chiedeva il pagamento di una ulteriore somma, a titolo di danno biologico, motivandolo con un aggravamento verificatosi successivamente al deposito del primo ricorso per Cassazione.

I Giudici di prime cure accoglievano le doglianze del prestatore stabilendo, però, che dalla somma complessivamente dovuta dovesse essere detratto quanto già pagato al ricorrente.

II dipendente ricorreva in Cassazione sostenendo che la somma dovuta fosse ascrivibile ad un titolo di risarcimento del danno diverso da quello per il quale aveva già percepito somme di denaro.

Orbene, gli Ermellini, rigettando il ricorso, hanno colto l’occasione per (ri)affermare che il risarcimento del danno in favore del dipendente infortunato deve essere quantificato facendo riferimento alle lesioni patite dal prestatore prescindendo da una mera differenziazione formale che può comportare una duplicazione del risarcimento per il medesimo nocumento psico-fisico.

Pertanto, atteso che caso de quo il prestatore aveva già percepito una somma di denaro a titolo di danno non patrimoniale, e che il paventato danno biologico susseguente all’aggravamento non era altro che una diversa declinazione del danno non patrimoniale già risarcito, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando che dalla somma totale dovesse essere detratto quanto già erogato, seppur utilizzando una diversa definizione formale.

 

INTEGRA IL G.M.O. L'INIZIATIVA DATORIALE VOLTA ALLA SOPPRESSIONE DI UNA POSIZIONE LAVORATIVA ANCHE SE A DISTANZA DI SETTE MESI VENGA RIPRISTINATA CON CONTRATTO A TERMINE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4672 DEL 18 FEBBRAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4672 del 18 febbraio 2019, ha confermato che per la legittimità del recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo è sufficiente che le addotte ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale, causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa.

Nel caso de quo, una lavoratrice, inserita nell'impresa datrice con la qualifica di quadro per la particolare professionalità di ingegnere specializzato in metrologia, con funzione di responsabile di misurazioni industriali della massima precisione, veniva licenziata per g.m.o. a causa della cessazione dell'Ufficio Compliance, conseguenza della abrogazione della severa normativa giapponese in materia di controlli.

La lavoratrice, per sentir condannare la società datrice ed accertare la nullità e/o illegittimità del licenziamento intimatole, adiva il tribunale di Milano, eccependo l'insussistenza dei motivi addotti dall'imprenditore, con particolare riguardo al ripristino della propria posizione, sia pure con contratto a termine dopo sette mesi dal licenziamento.

Soccombente in entrambi i gradi di giudizio, la questione è approdata alla Suprema Corte.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso, osservando, sul tema, che ai fini della legittimità del licenziamento individuale per g.m.o., seppure l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, è sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa. E' dunque in sostanza sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell'articolo 41 Cost..

Quanto al ripristino della posizione lavorativa, nella specie, hanno continuato gli Ermellini, a fronte della esauriente e argomentata sussistenza di ragioni di carattere organizzativo e produttivo, valutata anche la peculiare specializzazione della lavoratrice, la Corte di merito ha correttamente valutato che per molti mesi dopo il licenziamento la società non aveva assunto altri dipendenti, ad eccezione di un lavoratore, con qualifica di impiegato e con contratto a termine, avvenuta a distanza di ben sette mesi dal licenziamento de quo, e connesso alle dimissioni di altro impiegato, pervenendo al convincimento del raggiungimento della prova dell'insussistenza di una diversa collocabilità della lavoratrice in mansioni equivalenti. 

 

SE MANCA L’APPOSITA DELIBERA ASSEMBLEARE I COMPENSI CORRISPOSTI AGLI AMMINSITRATORI NON SONO DEDUCIBILI

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 884 DEL 16 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 884 del 16 gennaio 2019, ha (ri)affermato che è fiscalmente indeducibile il costo del compenso erogato agli amministratori in assenza di apposita delibera assembleare.

Nel caso in specie, l’Agenzia delle Entrate aveva emesso a carico di una società avviso di accertamento per recuperare a tassazione l’indebita deduzione del costo sostenuto per compensi agli amministratori senza l’esistenza di un’apposita delibera assembleare.

La società ricorreva prontamente alla giustizia tributaria risultando vincitrice in primo grado e soccombente in secondo grado. In particolare la C.t.r. accoglieva il ricorso dell’Agenzia delle Entrate ritenendo le deduzioni operate per compensi agli amministratori non legittime, in quanto tali compensi risultavano carenti dei requisiti di certezza e determinatezza per non essere stati oggetto di apposita delibera assembleare, ma previsti e approvati solo in sede di approvazione del bilancio.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte della società.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio con la sentenza de qua hanno respinto in toto il ricorso della società.

Infatti, gli Ermellini, uniformandosi a giudizio di legittimità esistente in materia, espresso dalle sezioni unite con la sentenza n. 21933/2008, hanno ricordato come il compenso degli amministratori di una società di capitali, qualora non sia stabilita nell’atto costitutivo, necessita una esplicita delibera assembleare, che non può ritenersi implicita in quella di approvazione del bilancio, la quale, dunque, non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’articolo 2389 cod. civ.,salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori”.

Infine, i Giudici delle Leggi hanno evidenziato che una delibera di approvazione di bilancio non possa implicitamente determinare i compensi degli amministratori per le seguenti ragioni:

  • per la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica;
  • per la distinta previsione normativa della delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi;
  • per la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio;
  • per il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società.

Per le motivazioni suddette il ricorso è stato respinto con condanna della parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità

 

PER LA CASSAZIONE, LE SANZIONI PECUNIARIE AMMINISTRATIVE PREVISTE PER LA VIOLAZIONE DELLE NORME TRIBUTARIE HANNO CARATTERE AFFLITTIVO, QUINDI NON SI TRASMETTONO AGLI EREDI

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 6500 DEL 6 MARZO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 6500 del 6 marzo 2019, ha statuito che gli eredi non sono tenuti a pagare le sanzioni per l'inesatto o mancato versamento dell'IMU commesso dal de cuius.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, ribaltando in toto il verdetto della CTR di Roma, hanno accolto le doglianze, per l’annullamento di un accertamento IMU emesso dal Comune, dei figli del proprietario deceduto di un terreno edificabile che aveva pagato l'IMU come se l'appezzamento fosse agricolo, ancorché ritenuto edificabile con il piano regolatore generale approvato.

Nello specifico, gli Ermellini hanno dato ragione agli eredi sul fronte delle sanzioni, chiarendo che le sanzioni pecuniarie amministrative previste per la violazione delle norme tributarie hanno carattere afflittivo, onde devono inquadrarsi nella categoria dell'illecito amministrativo di natura punitiva, disciplinato dalla Legge 689/81, essendo commisurate alla gravità della violazione ed alla personalità del trasgressore, con la conseguenza che ad esse si applica il principio generale sancito dall'art. 7 della stessa Legge, secondo cui l'obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione non si può trasmettere agli eredi.

Ex adverso, i Giudici del Palazzaccio hanno dato ragione nel merito al Comune ricordando che, ai fini ICI-IMU, un'area è fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune stesso, indipendentemente dall'approvazione della Regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo, determinando quella che può considerarsi una vera e propria impennata di valore rilevante ai fini fiscali.

In nuce, la S.C. ha condannato i tre figli del de cuius a pagare l'imposta IMU reclamata dal Comune di Roma, escludendo, però, ogni tipo di sanzione aggiuntiva.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 25 Marzo 2019