30 Marzo 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LE DICHIARAZIONI MENZOGNERE AL DATORE DI LAVORO POSSONO COSTITUIRE RAGGIRO ED INTEGRARE L'ELEMENTO MATERIALE DEL DELITTO DI TRUFFA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 6095 DEL 4 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 6095 del 4 marzo 2020, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa conseguente alle dichiarazioni menzognere di un lavoratore che possono costituire raggiro ed integrare l'elemento materiale del delitto di truffa.
Nel caso de quo,  la Corte d'appello di Roma aveva confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice per aver ripetutamente indicato orari di inizio e fine trasferta diversi da quelli effettivi, così da fruire del corrispondente e più favorevole trattamento economico, nonché per avere acquistato direttamente, in violazione delle disposizioni aziendali, i biglietti ferroviari relativi a undici trasferte.
La Corte aveva osservato che la condotta contestata integrasse gli estremi del delitto di truffa ex art. 640 c.p. ed inoltre non consentisse, per la sua gravità e reiterazione, di ritenere applicabile una sanzione conservativa.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la lavoratrice deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 640 c.p. in difetto di artifici e raggiri ed invocando l'adozione di un provvedimento di tipo conservativo, in luogo del licenziamento adottato.
Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso rilevando che le dichiarazioni menzognere ben possono costituire raggiro ed integrare l'elemento materiale del delitto di truffa quando sono presentate in modo tale da indurre in errore il soggetto passivo di cui viene carpita la buona fede. Gli Ermellini hanno altresì continuato affermando che per l'esistenza del delitto di truffa non può avere rilievo la mancanza di diligenza, di controllo e di verifica da parte del soggetto passivo, non valendo ciò ad escludere l'idoneità del mezzo.
Quanto alla legittimità del provvedimento espulsivo adottato dalla società datrice, gli Ermellini hanno constatato, condividendo le considerazioni effettuate dal giudice di merito, che i comportamenti accertati, con particolare riguardo alle false attestazioni degli orari di inizio della trasferta, fossero comunque gravi ed ampiamente sufficienti a giustificare il licenziamento per giusta causa per la loro portata offensivamente ingannevole sotto i profili oggettivo e soggettivo.

 

IL FASTIDIO DI CANCELLARE I MESSAGGI, INVIATI MASSIVAMENTE, NON È UN DANNO CHE INTEGRA L’ILLECITO TRATTAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 41604 DEL 10 OTTOBRE 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 41604 del 10 ottobre 2019, ha statuito che non è reato lo spamming, consistente nell'invio massivo di posta elettronica per farsi pubblicità, ad esempio a una mailing list di addetti ai lavori, in quanto il trattamento illecito di dati si configura soltanto se l'interessato subisce un nocumento, anche dopo le modifiche apportate al codice privacy per l'entrata in vigore del GDPR (id: regolamento Ue General data protection).
Per i Giudici di piazza Cavour, il danno richiesto dalla legge non può essere soltanto il fastidio di dover cancellare le mail indesiderate, per quanto il relativo l'invio sia illegittimo, ex adverso si configura quando il mittente non toglie dalla mailing list l'utente che segnala di non voler ricevere più i messaggi.
Nel caso di specie, gli Ermellini hanno accolto le doglianze del ricorrente avvocato, il quale, promuoveva i suoi corsi di formazione inviando mail ai membri di un'associazione professionale che ha difeso in giudizio, vale a dire tre o quattro mail a testa spedite nell'arco di cinque mesi, ed in particolare, il legale offriva agli associati la sua consulenza legale, pubblicizzata anche su Facebook con una pagina ad hoc, e l'organizzazione di convegni sulla normativa che interessava la categoria.
Con la sentenza de qua, i Giudici del Palazzaccio hanno illustrato che il nocumento patito del titolare dei dati trattati costituisce un elemento costitutivo del reato e non una condizione oggettiva di punibilità come voleva la giurisprudenza ante riforma e comunque più risalente: il danno alla persona offesa, che può essere anche morale, deve essere previsto e voluto o comunque accettato dall'agente come effetto della propria condotta, mentre resta escluso il dolo eventuale.
In nuce, per la S.C., l'illecito trattamento si configura soltanto di fronte a una concreta lesione nella sfera personale o patrimoniale del titolare dei dati, e pertanto le tre o quattro mail ricevute da ciascuno degli iscritti non costituiscono una significativa invasione del loro spazio informatico. Il reato è a dolo specifico e scatta soltanto quando il mittente resta indifferente alla richiesta di mettere fine allo spam, creando un vero e proprio disagio al destinatario, pertanto le comunicazioni indesiderate sono illegittime in base all'art. 130 del codice privacy ma non costituiscono reato.

 

IMPOSSIBILE INVOCARE I VIZI DEL BENE LOCATO IN CASO DI MANCATA CONCESSIONE DELLE AUTORIZZAZIONI AMMINISTRATIVE.

CORTE DI CASSAZIONE  –  SENTENZA N. 5968 DEL 3 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5968 del 3 marzo 2020, ha statuito che non può invocarsi un vizio del bene locato, ex art. 1578 c.c., a fronte del mancato rilascio di autorizzazioni amministrative per l’esercizio dell’attività commerciale.
Ecco i fatti di causa.
Un locatore concedeva in locazione un immobile, a fronte del pagamento di un canone e la società conduttrice, nel contratto, assumeva il rischio di un eventuale mancato rilascio delle autorizzazioni amministrative necessarie per lo svolgimento dell'attività cui l'immobile sarebbe stato destinato.
Nel corso della locazione, tali concessioni venivano negate e, di conseguenza, la conduttrice agiva giudizialmente per ottenere la declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento del locatore, a causa dei vizi del bene – ex art. 1578 c.c..
Ebbene, gli Ermellini, in linea con la più recente giurisprudenza in materia, hanno precisato che il contratto di locazione è validamente costituito anche nel caso di mancato rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze amministrative relative alla destinazione d'uso se l'immobile, oggetto della locazione, è stato comunque utilizzato dal conduttore secondo l'uso convenuto.
Pertanto, la Cassazione ha rigettato il ricorso ribadendo
, pertanto, che il conduttore, essendo a conoscenza dell'ipotetica inidoneità del bene all'utilizzo previsto, ne aveva accettato il rischio economico e non vi era, perciò, alcun presupposto per la risoluzione del rapporto per vizi ex art. 1578 c.c..
A maggior ragione essendo accertato che il locatore non aveva assunto alcun obbligo in ordine all'eventuale rilascio dei titoli e che il successivo diniego del Comune non era dipeso da caratteristiche proprie dell'immobile locato che, comunque, era rimasto nella disponibilità della conduttrice sino alla scadenza.

 

L’INDENNITA’ DI MATERNITA’ AI CO.CO.CO. VA CORRISPOSTA INDIPENDENTEMENTE DALLA PERCEZIONE DI REDDITI.

CORTE DI CASSAZIONE  – SENTENZA N. 7089 DEL 12 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7089 del 12 marzo 2020, ha statuito che l’erogazione dell’indennità di maternità c/Inps per gli iscritti alla gestione separata è indipendente dalla percezione di redditi.
La statuizione in commento è di particolare importanza in quanto è intervenuta su una vicenda afferente un periodo precedente la novella di cui all’art. 13 della legge 81/2017 che, come noto, ha precisato che -per i collaboratori coordinati e continuativi- l’indennità de qua va corrisposta a prescindere dalla effettiva astensione dall'attività lavorativa.
Ebbene, venendo ai fatti, la vicenda giudiziaria esaminata riguarda l’indennità di maternità negata dall’Inps ad una amministratrice di società nel periodo marzo-maggio 2009, avendo la lavoratrice percepito reddito da amministratore nel medesimo periodo.
Vincitrice in entrambi i gradi di merito, si è dovuta difendere in Cassazione considerato il ricorso dell’Istituto previdenziale.
Ebbene, gli Ermellini hanno avallato il decisum dei Giudici distrettuali atteso che, come rilevato, la indennità di maternità andava riconosciuta (prima della novella del 2017) previa dichiarazione, resa ai sensi dell’art. 5 del DM 12 luglio 2007.
Infatti, a mente del citato art. 5, comma 3, l'indennità è corrisposta "previa attestazione di effettiva astensione dal lavoro da parte del lavoratore e del committente e resa nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà".
Pertanto, rilevata la sussistenza di detta dichiarazione, il reddito risultava essere stato corrisposto in assenza di una effettiva prestazione lavorativa.
Secondo la Cassazione la percezione dell'indennità di maternità non è impedita della sussistenza di redditi che non siano collegati alla prestazione di attività lavorativa, come è avvenuto nel caso in esame; fatto questo, peraltro, non contestato dall'INPS.
La Corte di Cassazione ha affermato, infatti, che la percezione dell'indennità opera su un  piano distinto rispetto allo stato di effettivo bisogno nel quale versi la donna.
Come ribadito anche dalla Corte Costituzionale, si deve evitare che dalla disciplina del rapporto di lavoro derivi una sostanziale menomazione economica a motivo della maternità; pertanto l'indennità di maternità è indipendente dai redditi di qualsiasi natura percepiti.

 

IL RISARCIMENTO DEL DANNO PROFESSIONALE, BIOLOGICO ED ESISTENZIALE DEVE ESSERE PROVATO IN GIUDIZIO CON TUTTI I MEZZI AMMESSI DALL’ORDINAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 6965 DEL 11 MARZO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 6965 del 11 marzo 2020, ha statuito la necessità di provare il danno professionale, biologico ed esistenziale derivante da un inadempimento del datore di lavoro riconducibile alle fattispecie del demansionamento e della dequalificazione.
Nel caso de quo, un lavoratore adiva il Tribunale per chiedere il risarcimento del danno subito dal punto di vista professionale, biologico ed esistenziale causato dal demansionamento a cui lo aveva sottoposto il datore di lavoro, riducendo la quantità degli incarichi a questi affidati.
Soccombente nel primo grado di giudizio, il datore di lavoro ricorreva alla Corte d’Appello che, riformando la sentenza del Tribunale, accoglieva il suo ricorso, rilevando non tanto l’assenza della fattispecie del danno, quanto la mancanza di prove a supporto della richiesta del lavoratore.
Gli eredi del lavoratore ricorrevano quindi in Cassazione.
Orbene, gli Ermellini hanno affermato che, ai fini della risarcibilità del danno, è necessario che il danneggiato fornisca la prova del pregiudizio riportato nel rispetto dei principi giurisprudenziali relativi all’onere della prova, anche ricorrendo alle cosiddette presunzioni.
In particolare, la Suprema Corte, richiamando una serie di pronunce precedenti, ha affermato che il danno derivante da demansionamento o dequalificazione, sia professionale che biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente al verificarsi di un comportamento inadempiente da parte del datore di lavoro; al contrario, non può prescindere dalla costruzione di un impianto probatorio da cui si deducano la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito. I giudici sottolineano che se per il pregiudizio derivante da danno biologico è sufficiente dimostrare la lesione dell’integrità psicofisica medicalmente accettabile e per il pregiudizio professionale vanno provati la natura e le caratteristiche del danno,  il danno esistenziale, inteso come pregiudizio oggettivamente accettabile provocato sulla sfera non reddituale del lavoratore che alteri le sue abitudini di vita e gli aspetti relazioni della stessa, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo rilievo in questo caso anche la prova per presunzioni. Viene inoltre posto in risalto, come una volta, accertata l’esistenza dell’avvenuto demansionamento il giudice di merito deve provvedere a determinare il quantum del danno proprio sulla base delle prove fornite dalla parte interessata.
Per i motivi indicati la Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha rinviato la sentenza alla Corte d’Appello.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.
Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro
e Michela Sequino

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Modificato: 30 Marzo 2020