29 Marzo 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IN CASO DI TRASFERIMENTO DI AZIENDA IL CESSIONARIO RISPONDE, ANCORCHE’ IN VIA SOLIDALE, ANCHE DEL TFR MATURATO PRESSO IL CEDENTE. PERTANTO, IN CASO DI FALLIMENTO DEL CEDENTE IL LAVORATORE NON POTRA’ RICHIEDERE L’INTERVENTO DEL FONDO DI GARANZIA PER LA QUOTA TFR DEL CEDENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4897 DEL 23 FEBBRAIO 2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4897 del 23 febbraio 2021, ha statuito che il fallimento del datore di lavoro cedente non comporta il diritto del lavoratore, dimessosi dal cessionario in bonis, di ottenere dal Fondo di Garanzia il pagamento del TFR maturato presso il cedente fallito.

La sentenza in esame ha riformato la statuizione della Corte di Appello di Milano con la quale, contrariamente al primo grado, era stato riconosciuto il diritto di una lavoratrice ad ottenere dall’Inps il pagamento del TFR e delle ultime mensilità maturati presso la società cedente fallita.

In sostanza, la Corte meneghina faceva -in particolare- leva sulla sentenza della Cassazione n° 24730/2015 per effetto della quale la definitività dello stato passivo non consente all’Inps di proporre opposizione allo stesso. Nel caso in esame, il credito della lavoratrice aveva trovato puntuale riscontro nello stato passivo della società cedente fallita, donde – anche in considerazione del fatto che il datore di lavoro cessionario è obbligato della quota maturata in capo al cedente soltanto a titolo di solidarietà e non per un debito proprio – riconosceva il diritto della lavoratrice al pagamento, da parte del Fondo di Garanzia, del TFR maturato in capo alla cedente fallita.

I Giudici di Piazza Cavour, ex adverso, hanno cassato la statuizione della Corte distrettuale ribadendo che la stessa aveva mal interpretato il principio, più volte affermato dalla stessa Corte (19277/2018; 2827/2018), in base al quale il TFR diviene esigibile solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, benché lo stesso maturi in costanza di rapporto.

Pertanto, solo a seguito della sua esigibilità può essere oggetto di richiesta al Fondo di Garanzia, ricorrendo l’insolvenza del datore di lavoro in capo al quale è cessato il rapporto di lavoro.

Inoltre, nel caso di trasferimento di azienda ovvero di un suo ramo, applicandosi l’art. 2112 c.c., il cessionario risponde anche del TFR maturato in capo al cedente, ancorché a titolo solidale, oltre che della quota maturata dalla data del trasferimento. Quindi, in caso di trasferimento, ex art. 2112 c.c., il lavoratore potrà richiedere l’intervento del Fondo di garanzia soltanto a fronte della cessazione del rapporto di lavoro e in caso di insolvenza del cessionario, anche per la quota maturata presso il cedente.

 

LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA, ANCHE AZIENDALE, APPLICATA DAL CEDENTE NON SOPRAVVIVE PRESSO IL CESSIONARIO, APPLICANDOSI I CONTRATTI -ANCHE AZIENDALI- IN USO PRESSO QUEST’ULTIMO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7221 DEL 15 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7221 del 15 marzo 2021, ha statuito che l’uso aziendale non sopravvive al mutamento della contrattazione collettiva, in caso di trasferimento di azienda.

Il caso in esame ha preso origine da un ricorso di un lavoratore che si era visto negare dalla società subentrata nel rapporto di lavoro, per effetto di una cessione di azienda, un orologio del valore di € 2.500,00#, in occasione del compimento del suo trentesimo anno di attività lavorativa,

Vincitore in entrambi i gradi del giudizio di merito, la società adiva la Suprema Corte.

Gli Ermellini hanno (ri)chiarito che, nell’ipotesi di trasferimento di azienda, si applica la contrattazione integrativa aziendale del cessionario e non del cedente. Infatti, all’art. 2112 c.c., 3° comma, è precisato che i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.

Pertanto, nell’ipotesi di trasferimento di azienda, si applica la contrattazione integrativa aziendale del cessionario e non già del cedente. Ciò posto, anche l’uso aziendale (come nel caso in esame), operando come una contrattazione integrativa aziendale, subisce la stessa sorte dei contratti collettivi applicati dal precedente datore di lavoro e non è più applicabile presso la società cessionaria dotata di una propria contrattazione integrativa.

Tuttavia, nel caso in esame, era emerso che presso la società cessionaria la contrattazione aziendale era stata posta in essere in data successiva al compimento del trentesimo anno di anzianità presso il cedente e, quindi, il lavoratore aveva diritto all’orologio e, in mancanza, al controvalore economico.

 

IN CASO DI OMESSO VERSAMENTO DEI CONTRIBUTI DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO NON E' PREVISTA UN'AZIONE DELL'ASSICURATO VOLTA A CONDANNARE L'ENTE PREVIDENZIALE ALLA REGOLARIZZAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N.6722 DEL 10 MARZO 2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 6722 del 10 marzo 2021, ha (ri)confermato, in tema di inadempimento contributivo, l'impossibilità di azionare l'obbligo di versamento direttamente ad opera dell'assicurato nei confronti dell'INPS al fine di ottenere la regolarizzazione della propria posizione contributiva. 

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Genova aveva confermato la pronuncia di primo grado del Tribunale di La Spezia che aveva rigettato la domanda con cui un lavoratore aveva chiesto all'INPS di provvedere alla regolarizzazione della sua posizione contributiva a seguito del passaggio in giudicato di altra sentenza con la quale era stato reintegrato nel proprio posto di lavoro, in conseguenza dell'illegittimità del licenziamento intimatogli, e il datore di lavoro era stato condannato a pagare ex art.18, L. 300/70 la contribuzione previdenziale dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione. La Corte, in particolare, aveva ritenuto che il lavoratore non avesse azione nei confronti dell'INPS mentre, l'unico rimedio disponibile per l'assicurato, in casi di inadempimento del datore di lavoro, fosse di tipo risarcitorio, ex art. 13, L. n°1338/1962.

Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, deducendo che nel caso di specie non potesse trovare applicazione la disciplina risarcitoria di cui agli artt. 2116 c.c. e art. 13, L. n° 1338/1962, per essersi, nelle more, il soggetto obbligato estinto a seguito di cancellazione dal registro delle imprese. L'INPS ha resistito con controricorso con cui ha rimarcato sia la propria estraneità alla vicenda processuale passata in giudicato, sia la sopravvenuta prescrizione dei contributi.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ed ha preliminarmente ricordato che  i contributi previdenziali obbligatori hanno natura di obbligazioni pubbliche, equiparabili a quelle tributarie a causa dell'origine legale e della loro destinazione a beneficio di enti pubblici per l'espletamento delle loro funzioni sociali, onde deve escludersi, coerentemente con l'autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello previdenziale, che il lavoratore possa sostituirsi all'ente previdenziale per ottenere una condanna del datore di lavoro a pagare i contributi medesimi, discendendo piuttosto l'obbligo del loro pagamento dall'acclarata persistenza del rapporto di lavoro, sia in conseguenza della declaratoria di nullità del recesso, sia in dipendenza della sua ricostituzione con efficacia ex tunc, a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa o di giustificato motivo. Quanto al termine di prescrizione dei contributi dovuti tra la data del licenziamento e quella di reintegrazione, esso può iniziare a decorrere solo successivamente all'ordine di reintegrazione. Ciò chiarito, hanno continuato gli Ermellini, è consolidato nella giurisprudenza della Corte il principio secondo cui, in caso di omesso versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, l'ordinamento non prevede un'azione dell'assicurato volta a condannare l'ente previdenziale alla "regolarizzazione" della sua posizione contributiva, nemmeno nell'ipotesi in cui l'ente previdenziale, messo a conoscenza dell'inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia tempestivamente attivato per l'adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato, residuando unicamente in suo favore il rimedio risarcitorio di cui all'art. 2116 c.c. e la facoltà di chiedere all'INPS la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13,  L. n° 1338/1962.

Da ultimo, hanno "suggerito" gli Ermellini, atteso che all'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponde il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio e le obbligazioni societarie possono trasferirsi ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali.


IL SISTEMA DI TASSAZIONE DELLE SOCIETA’ RESIDENTI ALL’ESTERO DEVE ESSERE INDIVIDAUTO CON RIFERIMENTO AL PAESE IN CUI VI E’ LA GESTIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 6476 DEL 9 MARZO 2021

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza  n° 6476  del 9 marzo 2021, ha statuito che l’assoggettamento del reddito a tassazione in Italia può derivare anche dal fatto che l’adozione delle decisioni riguardanti la direzione e la gestione dell’attività di impresa avvenga nel territorio italiano, nonostante la società abbia residenza fiscale all’estero, in quanto il mancato riconoscimento della residenza all'estero di una società non si configura con il solo fatto di porre in essere operazioni nel territorio italiano in termini di beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, ha pienamente accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate avverso la sentenza del CTR Lazio n. 1795/38/14 conforme a quella di primo grado, avente per oggetto un avviso di accertamento per l’anno 2009 con il quale l'ufficio aveva ripreso a tassazione i redditi di una società sul presupposto che, pur essendo formalmente residente in Lussemburgo, in realtà operasse esclusivamente in Italia. Dalle indagini condotte dalla Guardia di Finanza, l'ufficio aveva dedotto che la società operasse in Italia, ma al riguardo, i Giudici di prime cure avevano ritenuto che ciò non fosse stato provato, per via della mancata dimostrazione di specifiche operazioni effettivamente qui realizzate o per la mancata acquisizione di documentazione bancaria che dimostri l'oggettiva e precisa operatività in Italia della società

Ex adverso, gli Ermellini, hanno ritenuto meritevoli di accoglimento le doglianze dell’Amministrazione Finanziaria, poiché in relazione all'art. 73, comma 3, del DPR n. 917/1986, era emerso che le decisioni fondamentali di management necessarie alla sua gestione venivano assunte in Italia, con ciò dando luogo al radicamento della sua residenza nel territorio italiano.

I Giudici di Legittimità, con la sentenza de qua, hanno sottolineato che, per sede dell'amministrazione, contrapposta a quella legale, si deve intendere il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accertamento, nei rapporti interni e con terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell'impulso dell'attività dell'ente.

In nuce, la S.C. ha anche precisato che l'adozione di tale criterio, per altro in linea con la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 28/06/2007, non contrasta con la libertà di stabilimento che, pur non essendo un abuso la localizzazione all'estero della residenza anche per fruire di una legislazione più vantaggiosa, una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad escludere la normativa dello Stato membro interessato.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER CHIUSURA DI UN CANTIERE E CONTESTUALE CRISI DI IMPRESA SE IL DIPENDENTE ERA STATO INSERITO NELL’ORGANICO AZIENDALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 6916/21 DELL’11 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 6916 dell’11 marzo 2021, ha statuito l’illegittimità del licenziamento di un geometra comminato a seguito della chiusura del cantiere a cui era stato assegnato e della contestuale crisi di impresa, in quanto il lavoratore era inserito nell’organico permanente della società e l’attività d’impresa era proseguita su altri cantieri.

Nel caso di specie, un geometra dipendente di una società edile impugnava il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo a seguito della soppressione, da parte della società edile datrice, del posto di lavoro suo e di tutti gli altri dipendenti addetti ad un cantiere il cui completamento dei lavori era stato affidato in subappalto ad un'altra società. Il Giudice di primo grado riteneva legittimo il licenziamento stante l’impossibilità di una ricollocazione del lavoratore a fronte della grave crisi che aveva condotto la società al concordato preventivo ed alla chiusura di altri cantieri.

La Corte di Appello, di parere opposto, accoglieva il reclamo del lavoratore annullando il licenziamento, ordinava la reintegra del richiedente in mansioni equivalenti e condannava al risarcimento del danno sostenendo che la chiusura del cantiere “avrebbe potuto integrare una ragione di ordine organizzativo o produttivo solo se il lavoratore fosse stato assunto per essere impiegato esclusivamente in quel determinato cantiere, mentre egli era stato assunto per far parte dell’organico permanente dell’impresa, per cui solo l’eventuale abolizione della sua postazione lavorativa con modifica dell’organico avrebbe potuto giustificarne il licenziamento”. A questo proposito i Giudici rilevavano che il geometra era stato assunto per lavorare presso la sede della società, con possibilità di assegnazione di mansioni fuori sede e che, inoltre, era stato nominato procuratore speciale per l’espletamento di qualsiasi attività di ordine tecnico, amministrativo e contabile, senza alcuna limitazione al solo cantiere.

Avverso tale sentenza la società datrice ricorreva, inutilmente, in Cassazione ritenendo il licenziamento giustificato dalla situazione di crisi aziendale comprovata sia dall’avvenuto riassetto aziendale che dall’attuazione della procedura di concordato preventivo in continuità aziendale. Secondo la Corte Suprema tale circostanza era in sé irrilevante, atteso che l’attività aziendale era proseguita ed erano rimasti attivi altri cantieri e tanto più che il lavoratore era stato assunto non per svolgere le sue funzioni unicamente presso quel cantiere, ma per essere parte integrante dell’organico aziendale permanente.

Il ricorso veniva pertanto dichiarato illegittimo e veniva confermata la reintegra nel posto di lavoro.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

 

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 29 Marzo 2021