4 Aprile 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA PROCEDURA DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO DEVE INTERESSARE TUTTI I LAVORATORI DELL’INTERO, UNICO, COMPLESSO AZIENDALE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2014/2022 DEL 24 GENNAIO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 2014 del 24 gennaio 2022, ha sancito che qualora il collegamento economico funzionale tra due o più imprese sia tale da comportare l’utilizzo contemporaneo e indistinto della prestazione lavorativa da parte delle diverse società, si ha un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro e, pertanto, la procedura di licenziamento collettivo deve interessare i lavoratori di tutte le imprese coinvolte.

Una lavoratrice della Meridiana Fly s.p.a impugnava il licenziamento intimatole nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo avviata dalla compagnia aerea. Il Giudice di prime cure, ravvisando la configurabilità di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro tra la compagnia datrice ed un’altra compagnia aerea (Air Italy s.p.a.), dichiarava illegittimo il licenziamento, atteso che nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo la verifica degli esuberi dovesse essere effettuata tenendo conto della totalità delle maestranze e non solo dei lavoratori in forza alla società formale datrice di lavoro della ricorrente.

La Corte d’Appello confermava l’orientamento del Tribunale di primo grado circa la necessità di non limitare l’individuazione degli esuberi tra il solo personale della Meridiana Fly spa ma di dovere coinvolgere anche quelli della compagnia aerea collegata, stante l’unicità dell’organizzazione. La Meridiana Fly spa ricorreva per la cassazione della decisione deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. e della L. n. 223/1991 affermando che, per configurarsi un unico centro di imputazione era necessaria l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari di distinte imprese. Nel caso specifico erano mancati l'accertamento e la prova che la prestazione lavorativa della ricorrente fosse stata svolta in favore di entrambe le aziende.

La Suprema Corte condivideva le considerazioni del Giudice di legittimità affermando che  l’esistenza di un unico centro di imputazione si realizza in presenza di precisi requisiti: l'unicità della struttura organizzativa e produttiva, l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune, il coordinamento tecnico ed amministrativo tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune e l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese. Nel caso in trattazione, la  compenetrazione tra le strutture aziendali formalmente facenti capo a soggetti distinti implicava la riferibilità della prestazione lavorativa ad un unico soggetto sostanzialmente unitario, prescindendo dalla concreta ed effettiva utilizzazione da parte delle diverse società della prestazione resa dal dipendente. L'utilizzo da parte di una società di figure giuridiche che consentivano l’impiego dei dipendenti dell'altra oppure lo spostamento dei lavoratori da uno all'altro datore di lavoro (ad esempio attraverso il distacco o il c.d. job posting, che implica la risoluzione del rapporto con la prima e la costituzione di un rapporto di lavoro con la seconda) non impediva la configurazione di un'impresa unitaria, atteso che ricorrevano indici significativi dell'unicità della struttura organizzativa.

In conclusione, trattandosi di un unico complesso aziendale era necessario che la procedura collettiva di licenziamento si riferisse a tutti i lavoratori in organico all'unico soggetto datoriale.

SI INTENDE INESISTENTE IL CREDITO DI IMPOSTA IN RELAZIONE AL QUALE MANCA, IN TUTTO O IN PARTE, IL PRESUPPOSTO COSTITUTIVO E LA CUI INESISTENZA NON SIA RISCONTRABILE MEDIANTE I CONTROLLI AUTOMATIZZATI. 

CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. PENALE – SENTENZA N.7615 DEL 3 MARZO 2022.

La Corte di Cassazione – Sezione Penale – sentenza n°7615 del 3 marzo 2022 – ha statuito, in tema di reato per indebita compensazione, che un credito di imposta non può essere al contempo ritenuto non spettante ed inesistente.

La vicenda de qua, trae origine da un'articolata attività di indagine avente ad oggetto l'esistenza di un sodalizio criminale con base presso lo studio di un commercialista. In tale sede, veniva concordata la creazione di falsi crediti di imposta, le modalità della loro cessione, nonché la loro distribuzione agli amministratori di società interessate a compensare la propria esposizione debitoria verso l'Erario attraverso meccanismi di cessione pro soluto ed operazioni di cessione di rami d'azienda. A carico di uno degli amministratori delle società coinvolte, superando la soglia penale, era stato disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca. In sede di riesame, l’indagato evidenziava che per lo stesso reato era già stata disposta la misura cautelare dal Tribunale di Milano, con ciò verificandosi una duplicazione del vincolo. Nel ritenere fondata la richiesta, il Tribunale del riesame, in applicazione del principio del  ne bis in idem, anche all'interno del giudizio cautelare, aveva concluso, con apposita ordinanza, per l'annullamento del provvedimento.

Avverso la suddetta ordinanza, il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Brescia aveva proposto ricorso per cassazione, eccependo l'erroneità delle argomentazioni addotte dal Tribunale del riesame in ordine a due fattispecie diverse che, in concreto riguardavano i due distinti reati ex art. 10 quater, comma 1 e comma 2 del D.Lgs. 74/2000 (id: crediti non spettanti e crediti inesistenti).

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ricordando, preliminarmente, gli approdi della giurisprudenza di legittimità, per la quale l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, luogo e persona.

In particolare, hanno continuato gli Ermellini, le imputazioni a carico dell'amministratore riguardano due diverse ipotesi di reato con una significativa divergenza sotto il profilo oggettivo e soggettivo.

Invero, sotto il profilo oggettivo, ad escludere l'identità del fatto milita il basilare rilievo secondo cui un credito non può essere al contempo non spettante ed inesistente.

La definizione di credito inesistente, hanno concluso gli Ermellini, si desume dal D.Lgs. n°471/1997, art. 13, comma 5, come novellato nel 2015, secondo cui si considera tale il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile attraverso i controlli ex artt. 36bis e 36ter, DPR n°600/73 e art. 54bis, DPR 633/72.

Devono dunque ricorrere entrambi i requisiti per considerare inesistente il credito:

a) deve mancare il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili, finanziari o patrimoniali del contribuente);

b) l'inesistenza non deve essere riscontrabile attraverso controlli automatizzati o formali o dai dati in anagrafe tributaria.

Ne deriva, a contrario, che se manca uno di tali requisiti, il credito deve ritenersi non spettante. In sintesi, per poter qualificare un credito come inesistente è necessario che lo stesso sia ancorato ad una situazione non reale o non vera, "ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza". Non è un caso che il più ampio termine per la notifica dell'atto di recupero riguardi necessariamente una fattispecie più ristretta, evidentemente ritenuta più grave.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE RIFIUTI IL TRASFERIMENTO, SE VIENE ACCERTATA LA BUONA FEDE DEL DATORE DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE- SENTENZA N. 7392 DEL 7 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 7392 del 7 marzo 2022, statuisce che l’assenza ingiustificata dal lavoro per rifiuto della nuova sede assegnata, rappresenta ipotesi legittima di licenziamento, in quanto configura un inadempimento sanzionabile dal punto di vista disciplinare.

Nel caso de quo una lavoratrice adiva il Tribunale a causa dell’intimazione del licenziamento avvenuto per ingiustificata assenza dal lavoro, presso la nuova sede aziendale cui era stata assegnata con accordo sindacale. La lavoratrice impugnava il licenziamento ritenendo inapplicabilità l'accordo sindacale in quanto tenuta fuori, illegittimamente, dal rapporto di lavoro per diversi anni prima della comunicazione del trasferimento.

I Giudici della Corte distrettuale, in parziale accoglimento della domanda della lavoratrice, avevano rilevato che il licenziamento doveva considerarsi illegittimo, con applicazione della tutela indennitaria di cui al comma 6 dell'art. 18 Legge n. 300 del 1970, stante un vizio formale nella procedura di contestazione disciplinare. Il datore di lavoro aveva, infatti, considerato tardive e pertanto prive di rilevanza le giustificazioni alle assenze offerte dalla dipendente, scritte con tempestività, ma pervenute oltre i cinque giorni, negando di fatto il diritto di difesa della stessa.

La lavoratrice ricorreva in Cassazione. La Suprema Corte, confermando il decisum della Corte d’Appello ha affermato che, secondo un orientamento consolidato, in ipotesi di trasferimento adottato in violazione dell'art. 2103 c.c., l'inadempimento datoriale non legittima un automatico rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa, ma dovrà essere valutato in relazione alle circostanze del caso concreto, per accertare se risulti contrario al principio di buona fede ex art. 1460 c.c. Nel caso in oggetto, il Tribunale aveva effettuato il suddetto accertamento, ritenendo legittimo il trasferimento intimato alla dipendente per mancanza di altri posti disponibili.

Pertanto, la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso della dipendente, conferma la legittimità del licenziamento per rifiuto al trasferimento.

INSUSSISTENZA DI LITISCONSORZIO NECESSARIO TRA LA PARTE CHE IMPUGNA LA CARTELLA PER CONTRIBUTI PREVIDENZIALI ARRETRATI, L'ENTE IMPOSITORE E IL CONCESSIONARIO DELLA RISCOSSIONE. BASTA CONVENIRE IN GIUDIZIO ESCLUSIVAMENTE IL TITOLARE DELLA PRETESA CONTRIBUTIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE – SENTENZA N. 7514 DEL 8 MARZO 2022.

La Corte di Cassazione – Sezioni Unite -, sentenza n° 7514 dell’8 marzo 2022, hanno statuito che, nel caso in cui si faccia valere la prescrizione dei contributi, non è necessario convenire l’Agente per la Riscossore: è sufficiente citare solo l'Istituto previdenziale.

La sentenza trae origine dall'impugnazione di un estratto di ruolo, rilasciato dall'Agenzia delle Entrate, attraverso cui il ricorrente sarebbe venuto a conoscenza di un'iscrizione per crediti previdenziali portati da cartelle esattoriali mai notificate. Il contribuente, citando in giudizio la sola agenzia di riscossione, chiedeva di far dichiarare l’infondatezza della pretesa creditoria per mancata notifica delle cartelle e, in ogni caso, per intervenuta prescrizione quinquennale.

In prima istanza il Tribunale, nella contumacia dell'ente riscossore, accoglieva la domanda per l'inesigibilità dei crediti, dovuta in parte all'estinzione per prescrizione e in parte alla mancata notificazione. Di contro, la Corte d'Appello dichiarava la nullità del giudizio di primo grado per violazione del principio del contraddittorio, atteso che il ricorrente aveva omesso di citare il titolare del diritto di credito, vale a dire l'INPS.

La sezione Sesta della Cassazione sollevava la causa alle Sezioni Unite, dato il contrasto giurisprudenziale in merito all’individuazione del soggetto legittimato a resistere in caso di impugnazione di contribuiti riscossi dall’Agenzia delle Entrate.

Per le Sezioni Unite della Cassazione la legittimazione a contraddire compete esclusivamente all'ente impositore, avendo l'azione ad oggetto la sussistenza del debito contributivo iscritto a ruolo, cioè il merito della pretesa contributiva, rispetto al quale il concessionario, vale a dire l'agente di riscossione, resta estraneo.

Ciò in quanto con tali azioni non si dibatte circa la regolarità o la validità degli atti della procedura di riscossione, ma si chiede al Giudicante l'accertamento dell'infondatezza della pretesa creditoria o, in ogni caso, della prescrizione dell'azione di riscossione, cioè una pronuncia sul merito della pretesa contributiva.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata perché la causa non poteva essere proposta in virtù del fatto che il convenuto risulta diverso dal soggetto che per legge è destinatario degli effetti della pronuncia (difetto di legittimazione).

IL PROCESSO TRIBUTARIO CONSERVA LA PROPRIA AUTONOMIA RISPETTO AL PROCESSO PENALE PER QUANTO RIGUARDA GLI ACCERTAMENTI IVA

CORTE DI CASSAZIONE –ORDINANZA 8302 del 15/03/2022

La Corte di Cassazione ha stabilito che i giudici tributari, nel trattare questioni fiscali, non possono tenere conto delle risultanze dei processi penali in cui vengono giudicate le condotte del contribuente in relazione agli stessi accadimenti, per la particolare natura delle presunzioni prese a base dei due procedimenti. In più precisano che, pur avuto riguardo alla modifica introdotta dalla legge 44/2012, tale modifica è applicabile alle sole imposte dirette.

Il caso nasce da una sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che aveva annullato due avvisi di accertamento emessi sia in materia di Imposte Dirette sia di IVA emessi nei confronti di una ditta che non aveva, in estrema semplificazione, prestato la normale diligenza nell’acquistare beni, poi rivelatisi acquisti fittizi, da società che si erano poi rivelate società cartiere, non supportate da un’organizzazione e da una struttura commerciale, ed in relazione a tali acquisti avevano portato in deduzione i relativi costi, ed in detrazione l’IVA addebitata.

Per tale condotta il legale rappresentante della società oggetto di accertamento aveva anche affrontato un procedimento penale, risoltosi poi a suo favore giacché il giudice penale aveva stabilito che “il fatto non sussiste”.

Il Giudice della CTR aveva quindi assunto tale decisione della magistratura penale a circostanza per cui annullare anche gli accertamenti fiscali sia ai fini delle Imposte Dirette sia dell’IVA, richiamando la novellata parte dell’art.14, comma 4-bis della legge 537/1993, che avuto riguardo ai redditi di cui all’art.6 del TUIR, stabiliva che «qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell'art. 530 cod. proc. pen. ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell'art. 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi».

La Corte di Cassazione interviene, sollecitata dall’Amministrazione Finanziaria, a chiarire che la norma, seppur valida sotto il profilo delle Imposte Dirette, nella parte in cui richiama la “non ammissibilità in deduzione” non può essere estesa a tutto l’ambito tributario, giacché non vi è giustificazione alla sua applicazione in relazione alle imposte indirette, come l’IVA, non trattando di “recupero di detrazione”. Fanno notare infatti i giudici che nel procedimento di giustizia tributaria sono completamente differenti anche i presupposti e le presunzioni poste a base della pretesa erariale, che non trovano corrispondenza nell’omologo procedimento penale, “escludendo che il provvedimento penale faccia stato nel processo tributario e consentendo al giudice di merito di valutarne l'effettiva valenza dimostrativa nel processo tributario alla luce di tutti gli elementi di fatto evidenziati negli avvisi di accertamento a fini del recupero a tassazione dell'Iva indebitamente detratta”.

Concludeva quindi la Corte di Cassazione per il rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in diversa composizione per un nuovo esame della questione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 4 Aprile 2022