20 Aprile 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI MARZO 2020

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Marzo 2020. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Marzo 2020 è pari a 0,448171 e l’indice Istat è 102,60

 

ILLEGITTIMO IL PATTO DI PROVA INSERITO IN UN CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO IN CASO DI IDENTITA' DELLE MANSIONI SVOLTE IN PRECEDENTI RAPPORTI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 6633 DEL 9 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 6633 del 9 marzo 2020, ha statuito la illegittimità di un licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova, attesa la nullità del patto contrattuale, inserito per le medesime mansioni in tre precedenti rapporti a tempo determinato.
Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Venezia, in accoglimento del gravame interposto da una lavoratrice con mansioni di portalettere, dichiarava la nullità del patto di prova, inserito nel contratto a tempo indeterminato intervenuto con Poste italiane S.p.a., e la conseguente illegittimità del licenziamento, condannando per l'effetto la società appellata a reintegrare l'attrice nel posto di lavoro.
Nella fattispecie, la Corte di merito aveva constatato che la parte datoriale aveva già verificato le qualità professionali della lavoratrice nell'espletamento delle mansioni di portalettere, in occasione di ben tre contratti di lavoro a tempo determinato, conclusi con la stessa lavoratrice per le medesime mansioni.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società invocando la diversa collocazione geografica della lavoratrice, avendo avuto i precedenti rapporti di lavoro esecuzione nella provincia di Lecce, a differenza di quello successivo, in questione, relativo al territorio della provincia di Belluno; la fattispecie, costituiva uno dei vari fattori, al pari del mutamento di abitudini di vita,  in presenza dei quali doveva riconoscersi l'interesse di entrambe le parti a valutare la reciproca convenienza del contratto prevedendo il patto di prova.
Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso e ricordato che la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell'interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento attraverso il quale, sia il datore di lavoro, sia il lavoratore possono saggiare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest'ultimo, a sua volta, verificando l'entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto. Inoltre, hanno continuato gli Ermellini, precisando, che il patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati tra le stesse parti è ammissibile, qualora risponda alle finalità dinanzi richiamate, potendo nel tempo intervenire molteplici fattori, attinenti non soltanto alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute.
Tanto premesso, hanno concluso gli Ermellini, la Corte veneziana ha rilevato come nel caso esaminato fosse pacifico e documentato che la lavoratrice, prima del contratto de quo, avesse stipulato con Poste italiane altri contratti a termine, contenenti ciascuno un patto di prova, prova quindi superata in tutti i pregressi rapporti di lavoro intrattenuti nel corso degli anni precedenti, sempre nell'ambito del settore recapito, in provincia di Lecce. Di conseguenza, ad avviso della Corte di merito, per ben tre volte la società appellata aveva verificato le qualità professionali e la personalità della lavoratrice nell'espletamento delle mansioni di portalettere, con esito positivo. Pertanto, hanno statuito gli Ermellini, non può condividersi la tesi secondo cui l'ulteriore patto di prova sarebbe stato giustificato per la diversità delle realtà territoriali, posto che le mansioni di portalettere risultavano qualitativamente identiche, ancorché rese in distinte realtà territoriali; invero, non era neppure dato comprendere per quale motivo l'attività di recapito nella zona di Lecce presentasse caratteristiche diverse dalla medesima attività espletata nel bellunese.


LA PRESENZA DI UN SALDO DI CASSA NEGATIVO LEGITTIMA L’ACCERTAMENTO INDUTTIVO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 7538 DEL 26 MARZO 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 7538 del 26 marzo 2020, ha statuito che la presenza di saldi negativi di cassa legittima l’accertamento di maggiori ricavi in maniera induttiva da parte dell’Amministrazione finanziaria, anche nel caso in cui trattasi di impresa individuale.
Nel caso in specie l’Agenzia delle Entrate provvedeva ad emettere a carico di una ditta individuale accertamento induttivo con il quale venivano contestati maggiori ricavi, non fatturati né dichiarati, in presenza di un saldo di cassa costantemente negativo per numerosi periodi.
L’imprenditore provvedeva immediatamente ad impugnare il suddetto accertamento dinanzi alla giustizia tributaria, risultando vincitore in primo grado e parzialmente soccombente in secondo grado. In particolare, la C.t.r. uniformandosi all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, riformava parzialmente la decisione di prime cure, rilevando che, in presenza di un saldo negativo di cassa, era corretto presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo. Tuttavia, la gestione di una società di capitali doveva necessariamente essere valutata differentemente rispetto ad un’impresa individuale. Infatti, l’imprenditore individuale, per assicurare il normale funzionamento dell’impresa può essere costretto ad effettuare anticipazioni di denaro, che contabilmente vengono registrati solo come meri versamenti ed i prelevamenti di cassa. Sulla base di tali considerazioni i giudici d’appello, pur confermando la ripresa a tassazione, riducevano il reddito accertato induttivamente in misura del 30%.
Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, uniformandosi ad un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, hanno accolto in toto i motivi di gravame dell’Amministrazione finanziaria ribadendo che “in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa, la sussistenza di un ingiustificato saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo (cfr. ex plurimis: Cass. n. 25289/2017; Cass. n. 11988/2011; Cass. n. 24509/2009; Cass. n. 27585/2008;).
Infine, i Giudici delle Leggi hanno precisato che il principio suddetto (differentemente da quanto ritenuto dalla CTR) non incontra eccezioni con riferimento alle attività esercitate in forma individuale, trovando fondamento in principio ragionieristico per il quale la chiusura “in rosso” di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati.

 

IL DATORE DI LAVORO È SEMPRE RESPONSABILE PER LA MANCATA ADOZIONE DI MISURE DI SICUREZZA IDONEE A CONTRASTARE IL VERIFICARSI DI INFORTUNI SUL LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10106 DEL 16 MARZO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n. 10106 del 16 marzo 2020, ha statuito che il decesso del lavoratore causato da infortunio sul lavoro determina la responsabilità del datore di lavoro, se questi ha omesso di adottare misure di sicurezza idonee.
Nel caso in oggetto, la Corte d’Appello di Campobasso, condividendo la valutazione già operata dal Tribunale di primo grado, condannava alla reclusione un datore di lavoro in relazione ad una serie di comportamenti, riconducibili nelle fattispecie della colpa generica e specifica, che si riteneva avessero provocato la morte di un suo dipendente. Il lavoratore era stato, infatti, vittima di un incidente sul lavoro durante alcune operazioni di movimentazione di carichi ingombranti, essendo stato travolto da una serie di strutture metalliche, ed era deceduto pochi giorni dopo. Inoltre, nel corso degli accertamenti era stato rilevato che, seppur presenti sul luogo dell’incidente, non erano stati utilizzati strumenti idonei ad eliminare i rischi connessi al trasporto dei suddetti carichi.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, il datore di lavoro ricorreva quindi in Cassazione.
La Suprema Corte, sottolineando la correttezza delle valutazioni effettuate dai giudici di prime cure, ha affermato che la mancata predisposizione e l'omessa adozione di misure di tipo organizzativo e tecnico utili a realizzare l’attività lavorativa in condizioni di sicurezza, rappresentano fattispecie di colpa del datore di lavoro. La prova che i lavoratori fossero dotati di dispositivi di sicurezza come i caschi di per sé non è sufficiente, in quanto già la Corte di merito aveva sottolineato l'inadeguatezza di questo tipo di dispositivi rispetto al rischio cui i lavoratori erano esposti, inoltre, la stessa mancanza di controlli sul loro effettivo utilizzo ne accentuava ancor di più l’inefficacia. Il datore di lavoro avrebbe dovuto, quindi, adottare misure organizzative e tecniche idonee a fronteggiare l'eventuale imprudenza nell'utilizzo dei dispositivi di sicurezza forniti, allo scopo di rendere reale la tutela della salute dei lavoratori.
Per le ragioni esposte la Corte di Cassazione rigetta il ricorso, condannando il ricorrente.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO IN SEGUITO AD UN DIVERBIO SENZA CONTESTAZIONE DI GRAVE TURBAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7567 DEL 27 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7567 del 27 marzo 2020, ha statuito che il licenziamento irrogato a un lavoratore trasceso alle vie di fatto, colpendo con un calcio il proprio superiore, nel corso di un diverbio litigioso nei locali aziendali, è da considerarsi una sanzione proporzionata al fatto contestato e legittima rispetto alla scala di valori sociali.
La Corte d'appello di Milano, a conferma di quanto stabilito dal Tribunale di Pavia, in particolare osservava che l’azienda, nell’evocare l’evento, aveva omesso l’essenziale parametro consistente nella enunciazione del grave perturbamento alla vita aziendale e, dunque, le conseguenze in ordine alle gravi alterazioni della vita aziendale. Dunque, da qui la decisione di ritenere la contestazione insussistente e la conseguente applicazione della tutela reale ed il risarcimento fino a un massimo di 12 mensilità.
Orbene, la Corte di Cassazione, nel bacchettare i giudici di merito, ha ricordato che le tipizzazioni stabilite dai contratti collettivi hanno una portata esemplificativa, atteso che la giusta causa è una nozione legale, che non può trovare certo limite nelle previsioni della contrattazione collettiva. Ciò premesso, il giudice ha come solo limite le previsioni del CCNL che sanzionano un determinato comportamento con un provvedimento conservativo. In tutte le altre ipotesi, il giudice è sempre tenuto a verificare se le previsioni disciplinari del CCNL sono conformi alla nozione legale della giusta causa, anche alla luce dell’etica comune e dei valori esistenti nella realtà sociale.

IN PROSSIMITA’ DEL COMPORTO IL LAVORATORE NON PUO’ AUTONOMAMENTE DECIDERE DI COLLOCARSI IN FERIE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7566 DEL 27 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7566 del 27 marzo 2020, ha statuito che il lavoratore non può sostituire il proprio stato di malattia con le ferie maturate e non ancora godute per evitare il comporto, ma deve farne richiesta al datore di lavoro.
La Corte di appello di Napoli, a conferma della sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, aveva respinto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato dalla società per le assenze ingiustificate dal lavoro per più giorni consecutivi.  La Corte di appello ha osservato, a sostegno della propria decisione, che la lavoratrice si era collocata autonomamente in ferie alla scadenza del periodo di comporto, senza formulare alcuna richiesta di autorizzazione al loro godimento; né poteva ritenersi che la società datrice di lavoro si fosse resa inadempiente all'obbligo di sorveglianza sanitaria, dovendo la visita medica effettuarsi, in tale ipotesi, prima della concreta assegnazione del lavoratore alle mansioni. La lavoratrice, dopo un periodo di malattia protratto per oltre sessanta giorni, poteva, in assenza di visita medica, legittimamente rifiutarsi, ex articolo 1460 c.c., di eseguire le mansioni incompatibili con il suo stato di salute, posto che l'omissione della visita medica costituisce grave e colpevole inadempimento del datore di lavoro, ma non poteva rifiutarsi di ritornare al lavoro e continuare ad assentarsi, come invece aveva fatto.
Orbene, la Corte di Cassazione, a conferma del ragionamento logico giuridico dei giudici di merito, ha ricordato che l'articolo 41 del decreto legislativo n. 81/2008, è uno degli strumenti di sorveglianza sanitaria per effetto del quale il lavoratore, assente per malattia per più di 60 giorni, deve sottoporsi a visita medica prima che riprenda il proprio lavoro, con lo scopo di verificare l’idoneità alla mansione.
Infine, il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell'assenza per malattie in ferie, e nell'esercitare il potere, conferitogli dalla legge (articolo 2109 c.c., comma 2), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell'ambito annuale armonizzando le esigenze dell'impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto.
Tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.
Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro
e Michela Sequino

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Modificato: 20 Aprile 2020