15 Aprile 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LEGITTIMO IL PROVVEDIMENTO ESPULSIVO NEI CONFRONTI DEL DIRIGENTE CHE SI PONGA IN CONTRAPPOSIZIONE ALL'INDIRIZZO ESPRESSO DAL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 8659 DEL 28 MARZO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 8659 del 28 marzo 2019, ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dirigente per le reiterate critiche mosse nei confronti delle strategie dettate dall'organo amministrativo.

Nel caso in esame, un dirigente, responsabile del servizio raccolta indifferenziata del Comune di Palermo, nel contesto di una situazione di inefficienza amministrativa del servizio di nettezza urbana, aveva espresso, con toni eccessivi e coloriti, il proprio dissenso rispetto ai processi organizzativi individuati, per ripristinare il regolare svolgimento del servizio di raccolta, dal consiglio di amministrazione della società. La situazione, sfociata in un diffuso discredito circa le capacità professionali dei componenti l'organo amministrativo, aveva comportato il licenziamento del dirigente previa contestazione di tutti i comportamenti critici assunti, nell'arco temporale di ben tre anni, che avevano irrimediabilmente compromesso il necessario rapporto fiduciario.

La Corte d'Appello di Palermo, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato.

Non dello stesso avviso il dirigente che, insoddisfatto, ha proposto ricorso per cassazione invocando la legittimità del diritto di critica ed il conseguente carattere discriminatorio del provvedimento espulsivo adottato.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e, avallando il giudizio della Corte territoriale, ha osservato che nella specie, il dirigente, pur duolendosi della natura discriminatoria del recesso, nei fatti, non aveva allegato la eventuale ragione della invocata discriminazione.

Per tale motivo, a giudizio degli Ermellini, la Corte territoriale aveva ascritto la scelta aziendale alla irreversibile compromissione del rapporto fiduciario con il proprio dirigente. Con riguardo alla giustificatezza del recesso intimato al dirigente, hanno rimarcato gli Ermellini, tale nozione si discosta, sia sul piano soggettivo che oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la sua ragion d'essere, da un lato, dal rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, dall'altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura organizzativa dell'azienda.    

Nella specie, hanno concluso gli Ermellini, la condotta addebitata esprimeva un atteggiamento reiteratamente demotivante, di discredito dei superiori e non collaborativo, pertanto il licenziamento era il rimedio "non arbitrario dettato dall'esigenza di recuperare un rapporto armonico tra organo amministrativo e livelli dirigenziali".


NON E’ CONFORME ALLA LEGGE LA COMPENSAZIONE CHE TIENE CONTO DI CREDITI D’IMPOSTA NON VENUTI ANCORA A ESISTENZA PER MANCANZA DI PRESENTAZIONE DELLA RELATIVA DICHIARAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 6645 DEL 7 MARZO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 6645 del 7 marzo 2019, ha statuito che in caso di ravvedimento operoso avente ad oggetto debiti tributari parzialmente compensati con crediti d’imposta, il calcolo della sanzione ridotta deve essere effettuato sull’intera imposta versata in ritardo e non, invece, sulle somme residuate all’esito della compensazione, se i suddetti crediti d’imposta non risultano ancora esistenti.

IL FATTO

Una S.r.l. ometteva di versare le ritenute d’acconto operate sui dividendi pagati ai soci alla scadenza di legge del 16 ottobre 2004. Successivamente, in data 9 novembre 2004, avvalendosi dell’istituto del ravvedimento operoso la società, mediante modello F24, assolveva all’obbligazione tributaria compensando parzialmente il debito con un credito di imposta euro e versando interessi e sanzioni sulla differenza residua.

L’Agenzia delle Entrate, sul presupposto che la sanzione fosse dovuta sull’intera imposta, in quanto pagata in ritardo, notificava alla società cartella di pagamento con la quale chiedeva il versamento della parte residua, con relativi interessi e sanzioni, oltre i compensi di riscossione.

La società ricorreva alla giustizia tributaria risultando vincitrice in entrambi i giudizi di merito. In particolare il Giudice di merito riteneva correttamente effettuato il ravvedimento sul presupposto che vi era stato ravvedimento operoso, tramite compensazione, con conseguente illegittimità̀ dell’irrogazione della sanzione ordinaria del 30 per cento. 

L’Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione per violazione dell’articolo 8, legge 212/2000, e dell’articolo 17, D.Lgs. 241/1997.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, con la sentenza de qua hanno accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate riconoscendo non conforme alla legge il giudizio di merito, in quanto la compensazione della S.r.l., doveva essere ricondotta nello schema delle disposizioni normative tributarie e, quindi, rapportata alle modalità ivi contemplate, cioè:

  • la compensazione è ammessa soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge;
  • non può essere derogato il principio secondo il quale “… ogni operazione di versamento, di riscossione e di rimborso, e ogni deduzione sono regolate da specifiche, inderogabili norme di legge…”. Per costante orientamento di legittimità (Cass. nn. 16532/2017, 10207/2016, 17001/2013 e 12262/2007), tale principio non può considerarsi superato dall’articolo 8, comma 1, legge 212/2000 che, nel prevedere in via generale l’estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione, ha lasciato ferme, in via transitoria, le disposizioni vigenti, demandando ad appositi regolamenti l’estensione di tale istituto ai tributi per i quali non era contemplato a decorrere dall’anno d’imposta 2002.

Ancora, gli Ermellini hanno ritenuto non legittimo il comportamento della società, in quanto non conforme ai seguenti dettami normativi di cui all’art. 17 del D.lgs. 241/97: 

  • possibilità di estinguere l’obbligazione attraverso la compensazione con tributi non omogenei;
  • possibilità di applicare l’istituto della compensazione al momento del versamento unitario di diverse imposte e contributi (compensazione speciale);
  • obbligo che la compensazione debba risultaredalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto” e che debba essere effettuataentro la data di presentazione della dichiarazione successiva”.

Per quanto sopra i Giudici di legittimità hanno individuato nella dichiarazione il momento di operatività della compensazione in quanto il credito da compensare deve risultare dalla dichiarazione e dalla denuncia periodica presentata successivamente alla data in vigore del decreto legislativo, per cui poiché nella fattispecie esaminata la dichiarazione è intervenuta solo il 9 novembre 2004 e, poiché alla data in cui la società avrebbe dovuto procedere al pagamento delle ritenute di acconto (al 16 ottobre 2004) nessun credito d’imposta era ancora venuto a esistenza, la compensazione effettuata non era conforme alla lettera della legge.


IL LAVORATORE LICENZIATO, CHE ABBIA RICHIESTO IL TENTATIVO DI CONCILIAZIONE O ARBITRATO NEL TERMINE DI 180 GG DALL’IMPUGNAZIONE STRAGIUDIZIALE, QUALORA CONSEGUA IL MANCATO ACCORDO E DECORRANO ANCHE I SUCCESSIVI 20 GG PER LA PRESENTAZIONE DELLA MEMORIA DELLA CONTROPARTE, HA TEMPO 60 GG, DOPO QUESTI 20, PER PRESENTARE RICORSO AL GIUDICE A PENA DI DECADENZA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8026 DEL 21 MARZO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 8026 del 21 marzo 2019, ha statuito che in caso di licenziamento individuale, previsto dall’art. 6 della Legge 604/1966, così come modificato dall’art. 32, comma 1, della Legge 183/2010, se alla richiesta del lavoratore, destinatario del provvedimento di cessazione del rapporto di lavoro, di tentativo facoltativo di conciliazione o arbitrato nel termine di 180 giorni dall’impugnazione stragiudiziale consegue il mancato accordo necessario al relativo espletamento, decorsi anche i 20 giorni dal ricevimento della copia della richiesta senza che la controparte depositi presso la commissione di conciliazione la memoria prevista dall’art. 410, comma 7, del c.p.c., decorre un ulteriore termine di 60 giorni affinché il lavoratore stesso debba presentare, ai sensi dell’ultima parte del comma 2 del citato articolo 6 della Legge 604/1966, il ricorso al Giudice a pena di decadenza.

La fattispecie ha riguardato un dipendente della Fondazione Teatro San Carlo di Napoli che aveva presentato ricorso presso il Tribunale di Napoli per sentire accertata l’invalidità dei reiterati contratti a termine stipulati con la Fondazione con instaurazione di un unico rapporto a tempo indeterminato.

I Giudici della Cassazione, nel sottolineare la decadenza del ricorso al Giudice nel caso in cui decorrano i 60 giorni, hanno enunciato il principio di diritto in base al quale il lavoratore avrebbe dovuto presentare ricorso al Giudice entro 60 giorni dai 20 decorsi per la controparte per la presentazione delle proprie memorie, pena la decadenza.

La Corte di Cassazione mette così ordine sul doppio regime di decadenza, stragiudiziale e giudiziale, per l’impugnazione dei licenziamenti, dando una chiara soluzione alle diverse casistiche che si possono presentare nel caso in cui il lavoratore, prima del ricorso al giudice, promuova un tentativo di conciliazione e arbitrato.

ILLEGITTIMO L’ACCERTAMENTO CON GLI STUDI DI SETTORE QUANDO LO SCOSTAMENTO FRA RICAVI DICHIARATI E VOLUME D’AFFARI ACCERTATO IN BASE AGLI STANDARD NON COSTITUISCE UNA GRAVE INCONGRUENZA

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 8854 DEL 29 MARZO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 8854 del 29 marzo 2019, ha statuito l’illegittimità di un accertamento da studi di settore in quanto lo scostamento del 4,68% ai fini IVA fra ricavi dichiarati e volume d'affari accertato non costituisce una “grave incongruenza, requisito tuttora previsto dalla normativa nazionale e riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto le doglianze di una società contribuente, avverso un accertamento per scostamento da studi di settore emesso dall’Agenzia delle Entrate, ribadendo che il fisco non può fare riferimento a soglie fisse ma deve tener conto della storia commerciale del contribuente oltre che del mercato su cui opera, e deve, comunque, dare la facoltà al contribuente di eccepire lo scostamento minimo rilevato sulla base dei parametri automatici.

Inoltre, per la S.C. non ci può essere nessun dubbio, che la preclusione ex ar.57, comma 2, del D.lgs n.546/92 non impedisca alla parte privata di eccepire il lieve scostamento anche per la prima volta in appello, infatti, la disposizione vale soltanto per le eccezioni in senso stretto, e non bisogna dimenticare che il contribuente, convenuto in senso sostanziale, è attore (solo) in senso formale, mentre è l'Amministrazione Finanziaria ad essere attore in senso sostanziale e la sua pretesa è quella che risulta dall'atto impugnato.
In nuce, la parte privata può dunque sollevare la questione del gap minimo in quanto eccezione in senso improprio o mera difesa, infatti, tende soltanto a contestare la sussistenza del fatto costitutivo dell'obbligazione tributaria laddove la grave incongruenza è il presupposto per l'accertamento fondato sugli studi di settore.

 

NON ESISTE UN DIRITTO SOGGETTIVO ALLA PARITA’ DI RETRIBUZIONE FRA LAVORATORI

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 8299 DEL 25 MARZO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 8299 del 25 marzo 2019, ha (ri)statuito il principio consolidato secondo cui non esiste alcun diritto soggettivo alla parità di trattamento retributivo, specie se giustificato da ragioni di carattere temporale.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Catania riduceva le somme liquidate a favore del lavoratore dal Tribunale. La questione riguardava un conducente di linea assunto con contratto a tempo determinato e poi con contratto di formazione e lavoro, al quale non venivano riconosciuti premio di produttività e indennità di vestiario, emolumenti previsti entrambi da due diversi accordi aziendali. 

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, riformando i Giudici di merito, hanno ricordato che l’inadeguatezza della retribuzione ai principi dettati dall’art. 36 della Costituzione deve fare riferimento soltanto agli elementi che concorrono al minimo costituzionale, che rispetta appunto il principio di proporzionalità ed adeguatezza  e non a tutti gli altri istituti ed elementi contrattuali.

Tale presunzione di adeguatezza e proporzionalità, pur se in via generale, è insita nel contratto collettivo stipulato fra le Parti Sociali. 

Quindi, soprattutto in presenza di un trattamento differenziato il cui fondamento risiede nel carattere temporale, il datore di lavoro è libero di applicare un trattamento differenziato fra i dipendenti purché non intacchi il minimo costituzionale garantito. 

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 15 Aprile 2019