24 Giugno 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI MAGGIO 2019

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Maggio 2019. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Maggio 2019 è pari a 1,065744 e l’indice Istat è 102,70.

 

NEL CALCOLO DELLA RETRIBUZIONE DOVUTA IN CORSO DI FERIE DEVONO CONSIDERARSI GLI ELEMENTI RICOLLEGATI ALLO STATUS PERSONALE E PROFESSIONALE DEL LAVORATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 13425 DEL 17 MAGGIO 2019.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 13425 del 17 maggio 2019, ha affermato, in tema di determinazione della retribuzione da corrispondere durante il periodo feriale, che occorre valutare il rapporto di funzionalità intercorrente tra i vari elementi che concorrono alla retribuzione complessiva, nonché le mansioni affidate al lavoratore in ossequio al suo contratto di lavoro.
Nel caso in esame, il Tribunale di Messina rigettava il ricorso proposto da un lavoratore che aveva richiesto che fosse riconosciuta la natura retributiva alla indennità di navigazione "Stretto di Messina" prevista dal contratto collettivo aziendale, con conseguente inclusione nella base di calcolo della retribuzione imponibile (in misura totale) e di quella per la determinazione del trattamento di fine rapporto con condanna, altresì, della parte datoriale al pagamento di differenze retributive, tra le altre, a titolo di ferie, oltre al versamento delle differenze di contribuzione in favore dell'INPS.
La Corte di appello di Messina, parimenti, respingeva il gravame interposto dal lavoratore e rimarcava la natura  non retributiva dell'indennità in questione, volta a compensare il disagio richiesto dalle peculiari esigenze della navigazione marittima a lungo corso, non inclusa nella base di calcolo per la determinazione dei compensi dovuti in relazione agli istituti indiretti.
Avverso la decisione ha proposto ricorso il lavoratore insoddisfatto per violazione dell'art. 36 Cost..
Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso e cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Palermo, ribadendo che il diritto del lavoratore a ferie retribuite trova una disciplina sia nel diritto interno ex art. 36 Cost. che in quello dell'Unione ex art. 7, Direttiva 2003/88/CE.
In particolare, gli Ermellini hanno rimarcato il valore della Direttiva 2003/88/CE, con particolare riferimento all'art.7 ed alla giurisprudenza elaborata dalla Corte di Giustizia in merito.
Sul punto, la Corte di Giustizia, causa C-155/10 del 15 settembre 2011, ha avuto modo di osservare come sebbene la struttura della retribuzione ordinaria di un lavoratore di per sé ricada nelle disposizioni e prassi disciplinate dal diritto degli Stati membri, essa non può incidere sul diritto del lavoratore di godere, nel corso del suo periodo di riposo e di distensione, di condizioni economiche paragonabili a quelle relative all'esercizio del suo lavoro. Pertanto qualsiasi "incomodo" intrinsecamente collegato all'esecuzione delle mansioni che il lavoratore è tenuto ad espletare in forza del suo contratto di lavoro e che viene compensato tramite un importo pecuniario incluso nel calcolo della retribuzione complessiva del lavoratore deve obbligatoriamente essere preso in considerazione ai fini dell'ammontare che spetta al lavoratore durante le sue ferie annuali. All'opposto, non devono essere presi in considerazione nel calcolo dell'importo da versare durante le ferie annuali gli elementi della retribuzione complessiva del lavoratore diretti esclusivamente a coprire spese occasionali o accessorie che sopravvengano in occasione dell'espletamento delle mansioni che incombono al lavoratore in ossequio al suo contratto di lavoro. Del pari, vanno mantenuti, durante le ferie annuali retribuite, gli elementi della retribuzione correlati allo status personale e professionale del lavoratore.
In definitiva, hanno concluso gli Ermellini, sussiste una nozione Europea di "retribuzione" dovuta al lavoratore durante il periodo di ferie annuali, fissata dalla Direttiva 2003/88/CE, art. 7, come interpretato dalla Corte di Giustizia.


IL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI SI CONSUMA AL SUPERAMENTO DELLA SOGLIA EX ART. 3 COMMA 6 DEL D.LGS. N° 8/2016.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 25537 DEL 10 GIUGNO 2019.
La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 25537 del 10 giugno 2019, ha (ri)affermato, in tema di configurabilità del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali, che la fattispecie non si realizza alle singole scadenze di versamento mensile, bensì al superamento della soglia di euro diecimila entro l’ultimo mese dell’anno di competenza, ovvero entro il 16 gennaio dell’anno successivo.
Nella vicenda in esame un imprenditore si era visto negare, dalla Corte d’appello di Torino, la non punibilità per il mancato versamento all’Inps delle ritenute previdenziali ed assistenziali, per 8 mesi consecutivi, operate sulle retribuzioni dei propri dipendenti. In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto condannabile l'imprenditore, escludendo la contenuta entità del superamento della soglia di legge, sulla base della reiterazione della condotta criminosa e ritenendo operante la preclusione di cui all’art. 131bis, comma 3, c.p. attinente ai reati aventi ad oggetto “condotte plurime e reiterate”.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’imprenditore.
Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, con necessario rinvio alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione, in ragione della modifica legislativa di cui all’art. 3, comma 6, del D.Lgs. n°8/2016 che ha introdotto la soglia di punibilità per il reato di omesso versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, affermando che il reato di omesso versamento si configura come una fattispecie connotata da una progressione criminosa, nel cui ambito, superato il limite di legge, le ulteriori omissioni consumate nello stesso periodo di imposta si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata, la cui definitiva cessazione coincide con la scadenza del termine previsto per il versamento dell’ultima mensilità, ovvero con la data del 16 gennaio dell’anno successivo.
Pertanto, hanno continuato gli Ermellini, con la novella legislativa, è superata la configurazione del reato che si consuma alle singole scadenze, essendo ora reato unico che si consuma al superamento della soglia prevista.
A ciò deve aggiungersi, hanno concluso gli Ermellini, che la causa di non punibilità, in ragione della “particolare tenuità del fatto” (id: contenuta entità del superamento della soglia), è applicabile a tutte le tipologie di reato, non essendo previste esclusioni specifiche, ed è certamente applicabile anche ai reati per i quali il legislatore ha previsto una soglia di punibilità, dunque, anche ai reati di omissione di versamenti contributivi. In tale ambito, tuttavia, la causa di non punibilità potrà essere applicata solo se gli importi omessi superano di poco l’ammontare della soglia, in considerazione del fatto che il grado di offensività che integra il reato è già stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale.


IL COMPROPRIETARIO DELL'APPARTAMENTO CONCESSO IN LOCAZIONE A SUA INSAPUTA DALL’ALTRO PROPRIETARIO PER IL 50%, PAGA L'IRPEF ANCHE SE NON HA MAI RISCOSSO I CANONI DI LOCAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 12332 DEL 9 MAGGIO 2019
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 12332 del 9 maggio 2019, ha statuito che il contribuente è obbligato a dichiarare anche i canoni di locazione relativi alle mensilità non riscosse, qualunque sia la causa concreta della mancata percezione, ivi compresi la stipula del contratto di locazione a sua insaputa da parte del comproprietario.
Nel caso in specie, un contribuente impugnava dinanzi alla giustizia tributaria l'avviso di accertamento col quale l'Agenzia delle Entrate, accertava per l'anno d’imposta 2004, un maggior reddito derivante da locazione di immobili per € 5.928,00. Deduceva di essere comproprietario di un immobile col proprio nipote, che lo aveva locato senza informarlo, e di aver perciò intrapreso davanti al Tribunale un'azione monitoria nei confronti del nipote per il pagamento della quota di canone spettantegli, dopo la riscossione del quale avrebbe provveduto al pagamento della relativa imposta.
L'Agenzia delle Entrate contestava la pretesa del ricorrente sostenendo che i canoni di locazione avrebbero dovuti essere dichiarati indipendentemente dall'effettiva riscossione.
Ebbene, l’adita C.t.p. rigettava il ricorso con sentenza in seguito confermata dalla C.t.r. che condivideva in pieno l’assunto dell'Agenzia delle Entrate secondo cui il ricorrente avrebbe dovuto dichiarare i canoni di locazione indipendentemente dall'effettiva riscossione.
Da qui il ricorso per Cassazione da parte del contribuente.
Orbene, i Giudici del Palazzaccio, con la sentenza de qua non hanno accolto il ricorso del contribuente perché, a loro giudizio: “la distinzione fra canone locatizio non riscosso e canone "usurpativamente" somministrato è del tutto sterile, in quanto per sua natura il reddito fondiario è legato alla titolarità del diritto reale, a prescindere dalla sua effettiva percezione.
In particolare, hanno osservato gli Ermellini, l’art. 26 del DPR 22 dicembre 1986 n. 917 ricorda che il contribuente è obbligato a dichiarare anche i canoni relativi alle mensilità non corrisposte; in questo caso, il disposto del legislatore disciplina ogni fattispecie di mancata percezione dei canoni di locazione, quale che sia la causa della concreta mancata percezione (id. anche la non conoscenza dell’esistenza della locazione). Dunque, aveva ragione l’Agenzia delle Entrate a sostenere che i canoni di locazione si dovessero dichiarare indipendentemente dall’effettiva riscossione.
A tale riguardo, hanno ricordato infine i Giudici delle Leggi, la Corte costituzionale stessa ha avuto modo di stabilire che l’applicazione, al caso di specie, dell’articolo 26, non ne implica un’interpretazione costituzionalmente illegittima, in quanto, “la capacità contributiva, quale idoneità all’obbligazione di imposta, desumibile dal presupposto economico al quale l’imposta è collegata, può essere ricavata, in linea di principio, da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità” (cfr. Corte costituzionale, 362/2000, 42/1992, 315/1994 e 143/1995).
Secondo il giudice costituzionale, in definitiva, il sistema del riferimento per la determinazione del reddito dei fabbricati al canone risultante dal contratto di locazione, come sopra sottolineato, è del tutto eccezionale e deve armonizzarsi nel contesto di un sistema che pone la regola per cui i redditi fondiari concorrono a formare il reddito complessivo indipendentemente dalla percezione.
La Corte Suprema ha quindi respinto il ricorso condannando il ricorrente alla refusione delle spese in favore dell’Agenzia delle Entrate.


IL SUPERAMENTO DELLA SOGLIA DI PUNIBILITÀ NON PUÒ INFATTI ESSERE ACCERTATO UNICAMENTE SUI CALCOLI FATTI DALL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA IN SEDE AMMINISTRATIVA.

CORTE DI CASSAZIONE  –  SEZIONE PENALE – SENTENZA  N. 25976 DEL 12 GIUGNO 2019
La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 25976 del 12 giugno 2019, ha statuito che la condanna per evasione fiscale è riformata quando viene basata solo sulle presunzioni tributarie di ricavi in nero, atteso che il superamento della soglia di punibilità non può essere accertato esclusivamente sui calcoli fatti dall'Amministrazione Finanziaria in sede amministrativa.
Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto le doglianze di un piccolo imprenditore di Ancona, al quale erano stati calcolati dei ricavi in nero usando come parametro la dimensione delle vongole e quante presumibilmente ne avrebbe potute vendere, e da qui era stato stabilito il superamento della soglia di punibilità dell'IRES.
Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno invece spiegato che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non sono idonee a costituire di per sé fonte di prova della commissione dell'illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal Giudice Penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa.
Infatti, ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione ai fini di evasione dell'imposta sui redditi, spetta esclusivamente al Giudice Penale il compito di accertare e determinare l'ammontare dell'imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario.
In nuce, ad avviso della S.C., il principio de quo per identità di fondamento logico-giuridico, in linea con la disciplina di cui all'art. 20 del Dlgs. n. 74 del 2000, che prevede l'autonomia del processo tributario da quello penale, è applicabile anche in tema di accertamenti relativi al superamento delle soglie di punibilità concernenti il reato di dichiarazione infedele.


LA MANCANZA DI FORMA SCRITTA NEL PART-TIME NON RENDE NULLO L’INTERO CONTRATTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 14797 DEL 30 MAGGIO 2019.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 14797 del 30 maggio 2019, ha statuito che il difetto della forma scritta del contratto part-time non comporta la nullità dell’intero contratto, con la conseguenza che il contratto di lavoro subordinato deve intendersi a tempo pieno, donde il diritto del lavoratore a percepire tutte le eventuali differenze retributive.
Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Bologna, a conferma della sentenza  del Tribunale di primo grado, condannava la società datrice al pagamento di ferie e permessi non goduti, festività e lavoro domenicale per un importo complessivo di € 15.410,34. Tale decisione si fondava sul difetto di forma scritta del contratto di lavoro part-time, donde la impossibilità del datore di lavoro di poter disporre, liberamente e unilateralmente, la collocazione temporale del proprio dipendente.
Gli Ermellini hanno precisato che la nullità della clausola sul tempo parziale, per difetto di forma scritta, non implica, ai sensi dell'art. 1419, comma 1, c.c., l'invalidità dell'intero contratto, a meno che non risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte colpita da nullità; e comporta, per il principio generale di conservazione del negozio giuridico colpito da nullità parziale, che il rapporto di lavoro deve considerarsi a tempo pieno.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio,  Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 24 Giugno 2019