29 Giugno 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….

 

LE PRESTAZIONI ASSISTENZIALI NON SONO SOGGETTE ALLA REGOLA DELLA COMPENSATIO LUCRI CUM DAMNO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 8799 DEL 12 MAGGIO 2020.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 8799 del 12 maggio 2020, ha (ri)statuito che le prestazioni assistenziali erogate dall’Inps (nella fattispecie CIGS) non possono essere considerate quale aliunde perceptum e, per l’effetto, non possono essere sottratte dal risarcimento del danno.
Nel caso in esame un lavoratore aveva richiesto ed ottenuto un decreto ingiuntivo dal Tribunale di Napoli per retribuzioni maturate per i mesi di giugno ed aprile 2013 in virtù della sentenza emessa dallo stesso Tribunale di declaratoria di inefficacia della cessione del ramo d'azienda intervenuta tra le società Telecom Italia e Telepost.
In particolare, veniva eccepito, nel giudizio di opposizione nel procedimento monitorio, che nessuna retribuzione spettava al lavoratore, atteso che nel periodo in questione, questi era stato collocato in CIGS da parte della società cessionaria e che, in ogni caso, dalle stesse andava detratto, a titolo di aliunde perceptum, l’importo della cassa integrazione guadagni.
Ebbene, già la Corte territoriale aveva richiamato il pressoché costante orientamento giurisprudenziale alla cui stregua le somme percepite dal lavoratore dall'istituto previdenziale a titolo assistenziale si sottraggono alla regola della compensatio lucri cum damno, atteso che non realizzano un effettivo incremento patrimoniale.
Parimenti, la Suprema Corte che, nel richiamare precedenti approdi nomofilattici, ha avuto modo di riaffermare che non sono deducibili a titolo di aliunde perceptum dal risarcimento del danno per mancata costituzione del rapporto di lavoro le somme che traggono origine dal sistema di sicurezza sociale che appronta misure sostitutive del reddito in favore del lavoratore, considerato che l'eventuale non debenza dà luogo ad un indebito previdenziale ripetibile, nei limiti di legge, dall'Istituto previdenziale (cfr., ex multis, Cass. n. 14878 del 7.6.2018, Cass. n. 9724 del 18/4/2017, Cass. n. 7794 del 27/03/2017).


LA LEGITTIMITA' DEL CONTRATTO A TERMINE PER RAGIONI SOSTITUTIVE NELLE STRUTTURE COMPLESSE – IN RELAZIONE AD UNA FUNZIONE PRODUTTIVA SPECIFICA – RICHIEDE LA SPECIFICAZIONE DELLE MANSIONI DEL PERSONALE DA SOSTITUIRE E L'UFFICIO DI APPLICAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9200 DEL 2 MAGGIO 2020.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 9200 del 20 maggio 2020, ha (ri)confermato, in tema di contratti a termine per ragioni di carattere sostitutivo, che l'onere di specificazione delle predette ragioni è correlato alla finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell'apposizione del termine.
Nel caso de quo, la Corte d'appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda avanzata da una lavoratrice nei confronti di Poste italiane S.p.a., volta alla declaratoria della nullità del termine apposto al contratto di lavoro e giustificato per ragioni di carattere sostitutivo, correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione di personale addetto al Polo corrispondenza Campania. La Corte aveva ritenuto che gli elementi indicati nella clausola apposta, fossero sufficienti per ritenere legittima l'apposizione del termine, poiché erano stati specificati l'ambito territoriale, il luogo della prestazione lavorativa e le mansioni da svolgere, rilevando, inoltre, che Poste aveva prodotto ritualmente, il prospetto assenze/presenze relativo al periodo contrattuale da cui si desumeva il numero e l'identità dei lavoratori assunti a tempo determinato addetti allo smistamento presso il CMP. Tale documentazione, oltre a essere rilevante quale prova della sussistenza di una specifica giustificazione del termine, era significativa al fine di escludere che nel caso di specie si fosse trattato di ricoprire croniche carenze di organico presso la struttura di applicazione ed evidenziò che la lavoratrice era stata assunta per un periodo coincidente con quello estivo di ferie del personale.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la dipendente rilevando che l'astratto riferimento ad esigenze sostitutive non poteva soddisfare il requisito della legittimità del termine, posto che non si erano identificati in modo puntuale i dipendenti sostituiti.
Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando il seguente principio di diritto, più volte affermato: "in tema di assunzione a termine di lavoratori subordinati per ragioni di carattere sostitutivo, alla luce della sentenza della Corte Cost. n° 214 del 2009, l'onere di specificazione delle predette ragioni è correlato alla finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell'apposizione del termine e l'immodificabilità della stessa nel corso del rapporto. Pertanto, nelle situazioni aziendali complesse, in cui la sostituzione non è riferita ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica, occasionalmente scoperta, l'apposizione del termine deve considerarsi legittima se l'enunciazione dell'esigenza di sostituire lavoratori assenti – da sola insufficiente ad assolvere l'onere di specificazione delle ragioni stesse – risulti integrata dall'indicazione di elementi ulteriori (quali l'ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto di lavoro) che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati nominativamente, ferma restando, in ogni caso, la verificabilità della sussistenza effettiva del prospettato presupposto di legittimità"

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA DELL’OPERAIO ANCHE SE I BENI AZIENDALI SOTTRATTI SONO DI VALORE ESIGUO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. N. 11005 DEL 9 GIUGNO 2020
La Corte di Cassazione, sentenza n° 11005 del 9 giugno 2020, ha statuito che è legittimo il licenziamento per giusta causa dell’operaio che sottrae beni aziendali, seppur di valore esiguo, qualora il CCNL applicato sanzioni con il licenziamento il furto in azienda.
Nel caso in specie, un’azienda aveva provveduto a licenziare per giusta causa un dipendente trovato in possesso di due pennelli dello stesso tipo di quelli di proprietà dell’azienda.
Il lavoratore risultava soccombente in entrambi i gradi di giudizio di merito. In particolare la Corte d’Appello riteneva provato l’addebito per non aver il lavoratore dimostrato la proprietà da parte sua dei pennelli né fornito una logica alternativa a quella dell’illecita sottrazione da parte sua dei pennelli al fine di trarne un ingiusto profitto ai danni dell’azienda e per aver, di contro, i testi confermato l’identità con quelli adoperati in azienda. Il licenziamento, peraltro, trovava giustificazione anche nella disposizione di cui all’art. 32 del CCNL applicabile, essendo il furto dei pennelli sufficienti a ledere il vincolo fiduciario, a prescindere dal modico valore economico dei pennelli stessi.
Da qui il ricorso per Cassazione da parte del lavoratore.
Orbene, gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno respinto in toto il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa spiegando che dovendosi logicamente escludere che quegli oggetti possano considerarsi res nullius, è addebitabile al ricorrente la mancanza riconducibile all’ipotesi del furto in azienda che lo stesso contratto collettivo include tra le fattispecie passibili della massima sanzione, di modo che va considerato immune da vizi il giudizio di proporzionalità espresso dalla Corte territoriale fondato sull’idoneità della condotta addebitata a ledere il vincolo fiduciario, inteso come possibilità di affidamento del datore nell’esatto adempimento delle prestazioni future, a fronte della quale alcuna rilevanza può essere attribuita all’esiguo valore dei beni sottratti, viceversa infondatamente sostenuta nel quarto motivo.
Infine, i Giudici delle Leggi hanno ritenuto legittimo anche il fatto che gli oggetti fossero di proprietà aziendale anche solo mediante l’uso di una fotografia, che in effetti riproduceva l’immagine di due pennelli generici in uso nell’azienda.

 

LO STRALCIO DELLE CARTELLE AL DI SOTTO DEI MILLE EURO VA INTESA PER SINGOLA VOCE DI DEBITO INSERITA NELL’ATTO ESATTORIALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 11187 DELL’11 GIUGNO 2020
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 11187 dell’11 giugno 2020, ha statuito che lo stralcio delle cartelle sotto i mille euro avviene per singola partita e non deve essere riferito all’intero ammontare della cartella.
Con l’importante ordinanza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, hanno chiarito, ed in pratica esteso, gli effetti della cosiddetta “pace fiscale” del 2018 (id: DL FISCO), che ha, di fatto, cancellato tutte le mini-cartelle, quelle cioè con importi inferiori a 1.000 euro, e che riguardano il periodo compreso tra il 2000 e il 2010.
Il caso di specie riguarda lo stralcio delle cartelle al di sotto dei mille euro, ricordando che al contribuente non era richiesto di fare nulla, essendo un’operazione attraverso la quale l’Amministrazione Finanziaria eliminava automaticamente i debiti oggetto di stralcio senza alcuna istanza, ma con procedura d’ufficio, in quanto, la misura prevedeva l’annullamento automatico di tutte le cartelle esattoriali di importo complessivo inferiore ai mille euro affidate all’agente della riscossione fra il primo gennaio 2000 e il 31 dicembre 2010. L’importo veniva calcolato al 24 ottobre 2018 (id: data di entrata in vigore del decreto legge), comprensivo di capitale, interessi per ritardata iscrizione a ruolo e sanzioni.
In nuce, per la S.C., lo stralcio dei debiti a ruolo non superiori a mille euro opera per singola partita inserita nella cartella e non con riferimento all’ammontare complessivo della cartella stessa. Può dunque accadere che sia azzerata una cartella di importo complessivo maggiore, se composta da articoli di ammontare non eccedenti la suddetta cifra.

 

LEGITTIMA L’ACQUISIZIONE DELLO STIPENDIO DEL FALLITO ALL’ATTIVO FALLIMENTARE SE QUESTI DISPONE DI RISORSE SUFFICIENTI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 11185 DELL’11 GIUGNO 2020.
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 11185 dell’11 giugno 2020, ha statuito che lo stipendio dell’imprenditore fallito è acquisito all’attivo fallimentare se il fallito dispone di disponibilità economiche per sé e la propria famiglia.
La legge fallimentare, all’articolo 46, co, 1, stabilisce che gli stipendi del fallito e, al pari, le pensioni, i salari e i proventi dell'attività lavorativa, sono acquisiti all’attivo del fallimento nella parte in cui questi non sono necessari al mantenimento del fallito e della sua famiglia.
La legge istituisce, pertanto, un vero e proprio diritto del fallito e della sua famiglia alla conservazione delle somme necessarie al proprio mantenimento mentre rimette al giudice delegato il compito di accertare i seguenti elementi:

  • l'esistenza di una necessità di mantenimento del fallito e della sua famiglia;
  • l'ammontare delle somme necessarie al mantenimento del fallito e della sua famiglia.

Il giudice delegato provvede ad accertare caso per caso l'esistenza di tali criteri in base alle richieste del curatore e prescinde da una richiesta in tal senso del fallito. La valutazione deve prendere in considerazione che la quota di mantenimento del fallito e della sua famiglia:

  • non può essere limitata a coprire le esigenze puramente alimentari, dovendo invece essere ragguagliata ad una misura che possa costituire anche premio ed incentivo per l'attività produttiva e reddituale svolta;
  • non può essere elevata fino a raggiungere il limite del minimo tenore di vita socialmente adeguato in quanto deve sempre considerarsi che nella condizione sociale del fallito ha un peso rilevante la sua condizione di debitore verso una collettività di debitori concorrenti.

La Cassazione, tuttavia, con l’ordinanza in argomento, ha chiarito che il diritto del fallito alla conservazione di parte del proprio stipendio, viene meno se il giudice delegato, come nel caso di specie, accerta che il fallito dispone di rilevanti disponibilità economiche sottratte al fallimento e che il medesimo conduce uno stile di vita non proporzionato alla mera percezione dello stipendio.
In tal caso, venendo meno l'unico presupposto di fatto richiesto per l'attribuzione di tale diritto, secondo la Suprema Corte il giudice delegato può disporre l'acquisizione integrale dello stipendio all'attivo fallimentare.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.
Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro
e Michela Sequino

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Modificato: 29 Giugno 2020