2 Luglio 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….
 

IL DATORE DI LAVORO E’ RESPONSABILE DELL’INFORTUNIO OCCORSO AL LAVORATORE ANCHE SE LO STESSO E’ ASCRIVIBILE AD UN COMPORTAMENTO NEGLIGENTE E DISATTENTO DEL PRESTATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16047 DEL 18 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16047 del 18 giugno 2018, ha (ri)statuito che il datore di lavoro è responsabile per l’infortunio occorso al proprio dipendente anche se l’evento lesivo è imputabile (anche) alla negligenza del prestatore di lavoro. La responsabilità datoriale è da escludersi solo nei casi di comportamento abnorme, inopinato ed esorbitante del subordinato.
Nel caso in commento, un lavoratore restava ferito alla schiena a seguito della caduta, da un piano sovrastante, di un pilone in ferro poggiato lungo la parete. Il dipendente adiva la Magistratura chiedendo il pagamento del danno differenziale non patrimoniale. Il datore di lavoro si difendeva sostenendo che l’infortunato non avrebbe dovuto svolgere attività nel luogo dell’evento lesivo poiché era a conoscenza della pericolosità dell’ambiente.
Soccombente in entrambi i gradi di merito, seppur in diversa misura, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.
Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum di prime cure, hanno nuovamente evidenziato che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore anche qualora esso sia ascrivibile non soltanto ad una disattenzione ma anche ad imperizia, negligenza e imprudenze sue. Il datore è esonerato da ogni responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore assuma i caratteri di abnormità, in opinabilità e esorbitanza necessariamente riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute in modo da porsi quale causa esclusiva dell’evento.
Pertanto, atteso che nel caso de quo il comportamento del prestatore non aveva i requisiti enunciati dai Giudici del Palazzaccio, il ricorso del datore di lavoro è stato respinto ed è stata confermata la sua condanna al risarcimento del danno in favore del dipendente infortunato.
 

LA QUALIFICAZIONE DI UN RAPPORTO DI LAVORO COME SUBORDINATO DEVE ESSERE EFFETTUATA VALUTANDO GLI INDICI CARATTERIZZANTI TALE TIPOLOGIA LAVORATIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 15631 DEL 14 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 15631 del 14 giugno 2018, ha nuovamente statuito che l’elemento caratterizzante il rapporto di lavoro subordinato è l’inserimento del prestatore nell’organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione di energie lavorative ed il contestuale assoggettamento alle direttive del datore di lavoro.
Nel caso in commento, un lavoratore adiva la Magistratura per vedere acclarata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in luogo del contratto d’opera stipulato con l’imprenditore.
Soccombente in entrambi i gradi di merito, il prestatore in Cassazione.
Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum di prime cure, hanno colto l’occasione per (ri)affermare che, a prescindere dal nomen juris attribuito dalle parti, la verifica inerente la sussistenza di un rapporto di lavoro subornato fra le parti deve essere effettuata valutando l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui a differenza del lavoro autonomo dove l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (opus). Ulteriore elemento caratterizzante il lavoro subordinato è la subordinazione, intesa quale assoggettamento del lavoratore alle direttive impartite dal datore o da un superiore gerarchico circa la modalità di esecuzione dell’attività lavorativa. Altri fattori indicativi, possono essere individuati nell’assenza di rischio economico, nel luogo della prestazione e nella forma della retribuzione.
Pertanto, atteso che nel caso in disamina il lavoratore non aveva fornito prova esaustiva del proprio inserimento nell’organizzazione aziendale e del suo sottostare al potere direttivo, organizzativo, gerarchico e disciplinare dell’imprenditore, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno rigettato il ricorso negando la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra le parti.
 

L'ADEGUAMENTO AGLI STUDI DI SETTORE NON È EMENDABILE IN CONTENZIOSO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 14550 DEL 6 GIUGNO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria, sentenza n. 14550 del 6 giugno 2018, ha (ri)affermato che in sede di contenzioso tributario, l’adeguamento ai risultati degli studi settore operato in sede di dichiarazione dei redditi non è emendabile.
Nel caso in specie, un contribuente in sede di dichiarazione dei redditi si adeguava agli studi di settore, salvo poi indicare nel quadro RG il reddito originario e non quello risultante dall’adeguamento.
Da qui, l’Amministrazione finanziaria provvedeva ad iscrivere a ruolo la maggiore imposta dovuta. Contro la cartella di pagamento il contribuente ricorreva alla giustizia tributaria.
La C.t.r nel confermare la pronuncia di primo grado, annullava la cartella di pagamento sul presupposto della natura di dichiarazione di scienza della dichiarazione dei redditi, e come tale sempre emendabile, e poi perché l’adeguamento agli studi di settore era avvenuto per errore, in quanto aveva determinato un incremento sensibile dei ricavi, che erano comunque già congrui.
L’Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione, ponendo tra i propri motivi di gravame la violazione degli articoli 36-bis del D.p.r. 600/1973 e dell’articolo 2, comma 8-bis, del D.p.r. 322/1998, in quanto, ferma la generale emendabilità delle dichiarazioni dei redditi, le manifestazioni di volontà in esse contenute non risultano ritrattabili come ad esempio la scelta di adeguarsi alle risultanze degli studi di settore.
Orbene, nell’accogliere il ricorso i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, nel ricordare nuovamente che la dichiarazione dei redditi costituisce di norma una dichiarazione di scienza, e come tale può quindi essere modificata ed emendata in presenza di errori che espongano il contribuente al pagamento di tributi maggiori di quelli effettivamente dovuti, hanno affermato che la suddetta facoltà di emendabilità non è assoluta.
Infatti, hanno proseguito gli Ermellini, la possibilità di emendare la propria dichiarazione dei redditi è consentita solo nell’ambito circoscritto dell’indicazione dei dati reddituali, sia in positivo che in negativo, laddove si siano riscontrati degli errori materiali (è il caso degli errori di calcolo o di errate liquidazioni degli importi) o formali (è il caso degli errori inerenti l’esatta individuazione della voce del modello da compilare nella quale indicare il dato reddituale).
Pertanto hanno concluso i Giudici del Palazzaccio l’emendabilità delle dichiarazioni dei redditi, è possibile solo quando occorre apporre delle modifiche a degli errori di calcolo o esposizione dei dati reddituali, e non quando l’errore riguarda una “manifestazione di autonomia negoziale del soggetto”, (quale è da considerarsi la volontà ad adeguarsi alle risultanze degli studi di settore) salvo che il contribuente dimostri che l’errore fosse conosciuto o conoscibile dall’amministrazione (cfr. Cassazione, n. 18180/2015 e n. 1427/2013).
 

LEGITTIMO L’ACCERTAMENTO PARZIALE, DA PARTE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE, ANCHE CON METODO INDUTTIVO E SU SEGNALAZIONE DELLA GUARDIA DI FINANZA

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 15826 DEL 15 GIUGNO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria, sentenza n° 15826 del 15 giugno 2018, ha statuito che l’Agenzia delle Entrate può procedere all'accertamento parziale, da integrare successivamente, anche con metodo induttivo e su segnalazione della Guardia di Finanza.
Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto in toto le doglianze di una SRL tese all’annullamento di un accertamento parziale scaturito da un'indagine delle fiamme gialle dalla quale era emerso un maggior reddito d'impresa legato al mancato riconoscimento di alcune deduzioni, in base alla quale l’Amministrazione Finanziaria aveva emesso un atto impositivo parziale, con riserva di integrazione, applicando il metodo induttivo.
Con la sentenza de qua, la sezione tributaria della S.C., ha chiarito che l'accertamento parziale, è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile e non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del DPR n.600 del 1973 e 54 e 55 del DPR n.633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole, per cui è possibile basarsi senza limiti anche sul metodo induttivo e il relativo avviso può essere emesso pur in presenza di una contabilità tenuta in modo regolare.
Inoltre, i Giudici del Palazzaccio hanno anche evidenziato come l'utilizzo dell'accertamento parziale è nella disponibilità degli uffici anche quando a essi pervenga una segnalazione o processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza che fornisca elementi per ritenere la sussistenza di un reddito non dichiarato, senza che tale strumento debba essere subordinato a una particolare semplicità della segnalazione pervenuta.
Pertanto, i competenti uffici dell'Agenzia delle Entrate, a norma dell'art. 41-bis del DPR n. 600/1973, senza pregiudizio dell'ulteriore attività accertatrice nei termini stabiliti dall'art. 43, possono procedere con l'accertamento parziale che non è, dunque, circoscritto all'accertamento del reddito d'impresa.
 

LA SANZIONE AMMINISTRATIVA PER L’IMPIEGO DI LAVORATORI PRIVI DI PERMESSO  DI SOGGIORNO NON E’ ASSORBITA DALLA SANZIONE PENALE 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA  N. 15096  DELL’11 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 15096 dell’11 giugno 2018, ha escluso l’assorbimento della sanzione amministrativa per lavoro nero nella sanzione penale prevista a contrasto dell’immigrazione clandestina.
Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Legge, a conferma del Tribunale di prime cure, in seguito alla verbalizzazione di due lavoratori extracomunitari in nero, riteneva che le sanzioni amministrative emessa dalla Direzione Territoriale dovessero ritenersi assorbite nella sanzione penale prevista per i lavoratori privi di permesso di soggiorno, non potendo le stesse essere cumulate fra loro.
Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno cassato la sentenza dei Giudici di merito spiegando che trattasi di due fattispecie fra loro distinte e non legate ad un nesso di casualità o antecedenza logica; infatti, le sanzioni amministrative tendono a colpire l’utilizzo di personale a nero e sono poste a tutela retributiva e contributiva del prestatore di lavoro, mentre quelle penali tendono a colpire chi viola la Legge sull’immigrazione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!
 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 2 Luglio 2018