8 Luglio 2019

 

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LE ASSENZE DAL LAVORO NON CONTRATTUALMENTE GIUSTIFICATE NON ESONERANO IL DATORE DI LAVORO DAL PAGAMENTO DEI RELATIVI CONTRIBUTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 15120 DEL 3 GIUGNO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 15120 del 3 giugno 2019, ha (ri)confermato che la contribuzione è dovuta anche nei casi di assenza del lavoratore per le ipotesi non previste dalla legge e/o dal contratto collettivo.

Con ricorso al Tribunale di Lecce, un datore di lavoro chiedeva dichiararsi l'illegittimità ed inefficacia del verbale di accertamento con il quale l'Inail gli aveva contestato, nella sua qualità di titolare di attività di ristorante-pizzeria, l'omesso versamento di premi rapportati alle retribuzioni relative a periodi di assenza dal lavoro dei dipendenti dovute a cause diverse da ferie, malattia ed altre ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo per sospensione dell'attività lavorativa. Il Tribunale accoglieva il ricorso mentre la Corte d'Appello accoglieva il gravame proposto dall'Inail e rigettava il ricorso.

In particolare, la Corte territoriale, nel confermare il principio affermato dalle Sezioni Unite con Sentenza n°1199/2002, aveva ritenuto, come disposto all'art. 1 del decreto legge n° 338/89, che le assenze dal lavoro non contrattualmente giustificate non esonerano il datore di lavoro dal pagamento del premio sulla retribuzione cosiddetta contributiva, che resta insensibile alla retribuzione di fatto erogata, fatta eccezione per l'ipotesi in cui quest'ultima sia superiore.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro eccependo che l'Inail nella determinazione dell'imponibile aveva commisurato l'orario di lavoro a 40 ore settimanali, spostando sul datore di lavoro l'onere di provare la riconducibilità delle assenze dei lavoratori ai casi di esclusione dell'onere contributivo previsto dalla legge, onere che sarebbe applicabile solo nel settore edile.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ribadendo che l'importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all'importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (id. minimale contributivo), secondo il riferimento ad essi fatto, con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale, dal decreto legge 9 ottobre 1989, n°338, art.1.

Tale principio, hanno continuato gli Ermellini, secondo l'arresto delle Sezioni Unite n. 1199 del 29/07/2002 opera, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, sia con riferimento all'ammontare della retribuzione c.d. contributiva, sia con riferimento all'orario di lavoro da prendere a parametro, che deve essere l'orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale se superiore.

Nel settore dell'edilizia, il decreto legge n°244/1995 ha individuato le ipotesi di esenzione dall'obbligo del minimale contributivo con disposizione avente chiara finalità antielusiva; in proposito, resta comunque escluso che una sospensione consensuale della prestazione che derivi da una libera scelta del datore di lavoro e costituisca il risultato di un accordo tra le parti possa determinare la sospensione dell'obbligazione contributiva.

Il fatto che per gli altri settori merceologici non vi sia analoga previsione, hanno concluso gli Ermellini, non significa che sussista una generale libertà delle parti di modulare l'orario di lavoro e la stessa presenza al lavoro, così rimodulando anche l'obbligazione contributiva, considerato che quest'ultima è svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e deve essere connotata dai caratteri di predeterminabilità, oggettività e possibilità di controllo.

 

L’AGENZIA DELLE ENTRATE NON PUÒ DISCONOSCERE LA DETRAZIONE IVA SU UN COSTO SPROPORZIONATO E ANTIECONOMICO, A MENO CHE L’AFFARE NON SI RIVELI UN GIRO DI FATTURE FALSE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 16010 DEL 14 GIUGNO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n°16010 del 14 giugno 2019, ha statuito che l’Agenzia delle Entrate non può disconoscere la detrazione IVA su un costo vistosamente sproporzionato e comunque antieconomico, a meno che, l’operazione non costituisca un giro di fatture false.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto il ricorso di una società che aveva dato un premio a un'azienda cliente assolutamente sproporzionato rispetto al giro d'affari rilevato fra le due imprese, in quanto il “principio dell'inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d'impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all'esercizio dell'attività imprenditoriale, con esclusione di ogni valutazione in termini di utilità o congruità, anche solo potenziale o indiretta, perché “il giudizio sull'inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo”.

Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini, hanno anche ribadito che “il giudizio quantitativo o di congruità non è, però, del tutto irrilevante” con riguardo al diverso piano logico e strutturale dell'onere della prova dell'inerenza del costo e ciò perché l'oggetto del giudizio di congruità, a differenza di quello sull'inerenza, indica il rapporto tra lo specifico atto d'acquisto di un diritto o di una utilità con la decurtazione, in pratica è un giudizio sulla proporzionalità tra il quantum corrisposto e il vantaggio conseguito.

In nuce, per la S.C. un costo sproporzionato non può essere dedotto dalle imposte sui redditi, ex adverso, per l'IVA, ai fini della valutazione dell'inerenza, il giudizio di congruità ha una diversa incidenza, di per se non idonea a escludere il diritto a detrazione, salvo che l'antieconomicità manifesta e macroscopica dell'operazione sia tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all'utilizzo per operazioni assoggettate a Iva, ergo la contestazione dell'Ufficio e, i contenuti della prova posta a suo carico, non possono essere soddisfatti adducendo esclusivamente alla mera antieconomicità dell'operazione.

 

IL SOCIO DELLA COOPERATIVA SOCIALE NON HA DIRITTO ALLE DIFFERENZE RETRIBUTIVE QUANDO LA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO È AVVENUTA SULLA BASE DI UNA DECISIONE ASSEMBLEARE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 14684 DEL 29 MAGGIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 14684 del 29 maggio 2019, ha statuito che il socio della Cooperativa sociale non ha diritto alle differenze retributive quando la riduzione dell’orario di lavoro, in conseguenza della trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, è avvenuta sulla base di una decisione assembleare, rispetto alla quale non ha, nell’immediato, espresso alcuna riserva.

Nel caso in specie una socia di una cooperativa sociale riusciva ad ottenere in primo grado il pagamento di differenze retributive reclamate in relazione al maggiore orario lavorativo previsto dal CCNL Cooperative Sociali (38 ore settimanali), a fronte del minore orario da lei lavorato di 36 ore. La Corte d’Appello successivamente revocava il decreto ingiuntivo ottenuto dalla socia per il pagamento delle differenze retributive, sull’assunto che:

  • la riduzione di orario, mediamente a 36 ore settimanali, era stata predisposta e accettata da tutti i soci, compresa la ricorrente la quale, peraltro, aveva assunto il ruolo di riferente per la predisposizione delle turnazioni;
  • le turnazioni che si erano rese necessarie per evitare licenziamenti, visto che l’amministrazione comunale aveva imposto orari di apertura e chiusura della struttura non compatibili con una turnazione con orario a tempo pieno per tutte le educatrici.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte della lavoratrice socia, che poneva quale motivo di gravame principale la violazione della regola che la trasformazione dal rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno in rapporto a tempo parziale non poteva avvenirea seguito di determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma necessiti in ogni caso dell'esplicito consenso scritto del lavoratore” (Cass. 16089/2014).

Orbene, i Giudici del Palazzaccio con la sentenza de qua non hanno condiviso le doglianze della ricorrente, in quanto il Giudice d’Appello aveva correttamente operato individuando quale fondamento dell'operata riduzione dell'orario previsto in un rapporto a tempo pieno, un accordo accettato da tutti i soci della Cooperativa e non una decisione assunta unilateralmente dal datore di lavoro (la riduzione era stata deliberata in sede assembleare, delibera non impugnata dalla socia ricorrente), peraltro difficilmente identificabile in una società cooperativa.

Ancora, gli Ermellini hanno rilevato come la pretesa della socia si era posta in contrasto con i principi di correttezza e buona fede in sede di attuazione del rapporto di lavoro in ambito cooperativistico, in quanto solo alla cessazione del rapporto era stato richiesto il pagamento di ore non lavorate in base ad una decisione assunta nell’interesse comune e dopo che la lavoratrice aveva condiviso tale decisione con gli altri soci e senza esprimere alcuna riserva.

Per le motivazioni suddette la Corte Suprema ha rigettato il ricorso con condanna della socia ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

 

IN CASO DI DIMISSIONI VOLONTARIE, NEL PERIODO IN CUI OPERA IL DIVIETO DI LICENZIAMENTO, LA LAVORATRICE MADRE HA DIRITTO, A NORMA DELL'ART. 55 DEL D.LGS. 26 MARZO 2001, N. 151, ALL'INDENNITÀ SOSTITUTIVA DEL PREAVVISO INDIPENDENTEMENTE DAL MOTIVO DELLE DIMISSIONI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16176 DEL 17 GIUGNO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16176 del 17 giugno 2019, ha statuito che in caso di dimissioni volontarie nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice madre ha diritto, a norma dell'art. 55 del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, alle indennità previste dalla legge o dal contratto per il caso di licenziamento, ivi compresa l'indennità sostitutiva del preavviso, indipendentemente dal motivo delle dimissioni e, quindi, anche nell'ipotesi in cui esse risultino preordinate all'assunzione della lavoratrice alle dipendenze di altro datore di lavoro.

Più in dettaglio.

Un’ASL di Firenze non aveva corrisposto ad una lavoratrice madre dimissionaria in “periodo protetto” l’indennità sostitutiva del preavviso, ritenendo che la stessa avesse preso la sua decisione in previsione di nuova occupazione lavorativa.

La lavoratrice aveva ottenuto soddisfazione in primo grado ed anche la Corte territoriale aveva confermato tale decisione dopo il ricorso promosso dall’ASL.

L’ASL adiva la Corte Suprema, la quale ha rigettato, con la sentenza in commento, il ricorso della stessa ASL ritenendo irrilevante il motivo delle dimissioni e confermando che l’onere probatorio di dimostrare la situazione economicamente più vantaggiosa, che renderebbe irrazionale l’indennità, ricade sul datore di lavoro.

 

L’ACCERTAMENTO DELLA NATURA SUBORDINATA DEI CONTRATTI DI COLLABORAZIONE SI FONDA SULLA PRESENZA DEGLI INDICI CLASSICI DEL LAVORO DIPENDENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 16037 DEL 14 GIUGNO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 16037 del 14 giugno 2019, ha ritenuto sussistente la natura subordinata dei contratti di collaborazione costituiti con una società di call center, sulla base di evidenti indici di subordinazione.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Firenze, a conferma della sentenza del Tribunale di Arezzo, condannava la società al pagamento del verbale Inps, riconoscendo la natura subordinata delle prestazioni rese da soggetti svolgenti funzioni di operatori di "call center" o di gestione del sito "web". Nello specifico la società gestiva la vendita via "internet" di occhiali da sole e da vista.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, hanno confermato il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, dal quale sono emersi chiari indici rivelatori della subordinazione.  Difatti, l'oggetto dei contratti di collaborazione risultava generico e non individuava uno specifico opus. La prestazione lavorativa veniva svolta presso la sede aziendale, con strumenti di proprietà della società ed il corrispettivo era determinato in misura fissa, con conseguente assenza di un rischio economico per i collaboratori che di fatto erano inseriti nell'organizzazione imprenditoriale a cui seguivano controlli in ordine al contenuto e alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 8 Luglio 2019