30 Luglio 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA CORRETTA QUALIFICAZIONE DEL RAPPPORTO DI LAVORO DEVE ESSERE EFFETTUATA VALUTANDO IL COMPORTAMENTO DELLE PARTI NELL’ESECUZIONE DEL CONTRATTO A PRESCINDERE DAL NOMEN IURIS UTILIZZATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18262 DELL’11 LUGLIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18262 dell’11 luglio 2018, ha nuovamente affermato che al fine di qualificare correttamente un rapporto lavorativo intercorrente fra le parti è necessaria una attenta verifica del comportamento dei contraenti nell’esecuzione del contratto stesso non potendosi fare esclusivo affidamento al nomen juris utilizzato per la forma contrattuale.

Nel caso di specie, un lavoratore di un autosalone, che veniva retribuito attraverso delle provvigioni collegate ai contratti conclusi, adiva la Magistratura per vedere acclarata la natura subordinata del proprio rapporto di lavoro.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, in quanto i Giudici non riteneva dimostrata la sussistenza degli indici caratterizzanti il contratto di lavoro dipendente (id: subordinazione, rispetto di un orario predeterminato, inserimento nell’organizzazione aziendale ecce cc), il prestatore ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum dei Giudici di prime cure, hanno per l’ennesima volta evidenziato che la qualificazione di un rapporto di lavoro deve avvenire, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalle parti (che va, comunque, valutato), attraverso una rigorosa valutazione della presenza di eventuali indici caratterizzanti il lavoro subordinato (in primis l’assoggettamento al potere direttivo, organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro) con onere della prova a carico della parte che rivendica una qualificazione diversa da quella formalizzata.

Pertanto, atteso che nel caso di specie il lavoratore non aveva fornito prova rigorosa ed inconfutabile della sua subordinazione, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno rigettato il ricorso confermando la validità del contratto di agenzia stipulato fra le parti.

 

IL LAVORATORE IN REGIME DI PART-TIME NON DEVE RICEVERE UN TRATTAMENTO RETRIBUTIVO MENO FAVOREVOLE RISPETTO AL LAVORATORE A TEMPO PIENO COMPARABILE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16945 DEL 27 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n°16945 del 27 giugno 2018, ha ribadito, in tema di lavoro a tempo parziale, il principio di non discriminazione, specificamente stabilito dal D.lgs. n°61 del 2000, art. 4 (ratione temporis vigente), che stabilisce per il lavoratore a tempo parziale i medesimi diritti e benefici di un lavoratore a tempo pieno comparabile.

Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Milano aveva rigettato l'appello proposto da una società concessionaria di autostrade avverso la sentenza di primo grado che l'aveva condannata al pagamento, in favore di un dipendente, di differenze retributive sulle voci fisse dello stipendio. In particolare, la Corte territoriale aveva accertato l'ingiustificato trattamento meno favorevole ricevuto dal lavoratore, in quanto dipendente a tempo parziale, in comparazione con un lavoratore a tempo pieno pure turnista con analogo avvicendamento, in riferimento all'applicazione (prevista dall'art. 24 del CCNL applicato) del divisore 170 che non veniva calcolato, in egual modo, in riferimento a tutte le voci di retribuzione, fisse e variabili.

Avverso tale sentenza la società datrice proponeva ricorso per cassazione.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dando seguito all'indirizzo ormai consolidato di legittimità secondo cui, in tema di lavoro a tempo parziale, il rispetto del principio di non discriminazione stabilito dal D.lgs. n° 61 del 2000, art. 4, attuativo della direttiva 97/81/CE relativa all'accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale, comporta che il lavoratore in regime di part-time non debba ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile, da individuare esclusivamente in quello inquadrato nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi richiamati dall'art. 1, comma 3 dello stesso decreto (contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, contratti collettivi territoriali stipulati dai medesimi sindacati e contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali, a norma della L. n°300 del 1970, art. 19 e succ. mod.). Con la conseguenza, ai fini della suddetta comparazione, dell'inammissibilità di criteri alternativi, quale quello del sistema della turnazione continua ed avvicendata seguita dai lavoratori a tempo pieno, tali da escludere l'applicazione, così come prospettato dalla società ricorrente, del divisore 170 agli elementi retributivi a carattere variabile.


IN CASO DI FATTURA D’ACQUISTO CONTENENTE UNA GENERICA DESCRIZIONE DELL’OPERAZIONE LA DEDUZIONE DEL COSTO E’ SALVA FORNENDO DOCUMENTAZIONE INTEGRATIVA A SUPPORTO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 14858 DEL 7 GIUGNO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 14858 del 7 giugno 2018, ha statuito che in caso di fattura d’acquisto contenente una generica descrizione dell’operazione la deduzione del costo da parte del contribuente è salva se quest’ultimo sia in grado di produrre documentazione integrativa a supporto dell’effettivo sostenimento della spesa.

IL FATTO

A carico di una società, l’Agenzia delle Entrate emetteva avviso d’accertamento a seguito recupero a tassazione di costi documentati da fatture ritenute troppo generiche nella descrizione dell’operazione e per la mancanza di un contratto tra le parti a supporto delle operazioni fatturate.

La società impugnava prontamente dinanzi alla giustizia tributaria il suddetto avviso risultando vincitrice in entrambi i giudizi di merito. In particolare la C.T.R. provvedeva ad annullare l’avviso di accertamento ritenendo che la società contribuente avesse provato l'effettività e l’inerenza del costo mediante la produzione di schede riepilogative delle ore di lavoro impiegate.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva allora per Cassazione ritenendo che tale produzione documentale integrativa, non soltanto non era idonea a comprovare l'inerenza dei costi, ma non era neppure ammissibile.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria ricordando come secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 21980/15, n. 21446/14, n. 24426/13, n. 9108/12, n. 5748/10), sia in tema di imposizione diretta sia in tema di IVA, la fattura costituisce elemento probatorio a favore dell’impresa solo se redatta in conformità ai requisiti di forma e di contenuto prescritti dall’art.21 del D.P.R. 633/72, ed idonea a rivelare compiutamente natura, qualità e quantità delle prestazioni attestate. La parte contribuente può comunque integrare il contenuto della fattura con elementi di prova idonei a dimostrare la deducibilità dei costi (cfr. Cass. n. 1147/2010).

Inoltre, hanno proseguito gli Ermellini, in tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (cfr. Cass. n. 428/2015), e nel caso in specie, anche in assenza di uno specifico contratto tra le parti, la produzione delle schede riepilogative era sufficiente a provare l'inerenza dei costi delle operazioni indicate in fattura.

Per quanto sopra, i Giudici delle Leggi hanno concluso riconoscendo che il Giudice di merito aveva ben interpretato i principi giuridici suddetti attribuendo piena validità alle schede riepilogative prodotte per comprovare l’effettività dell’operazione fatturata, e per questi motivi è stato rigettato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate.


L’ESERCIZIO DI UNA ATTIVITA’ DI BAR HA NATURA COMMERCIALE, DONDE LA PIENA ASSOGGETTABILITA’ AD IMPOSTA, BENCHE’ SVOLTA ALL’INTERNO DI UN CIRCOLO CULTURALE.

CORTE DI CASSAZIONE –  SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 15475 DEL 13 GIUGNO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 15475 del 13 giugno 2018, ha statuito che l’attività di gestione di un bar, con somministrazione di bevande e alimenti, all’interno dei locali di un circolo culturale ricreativo, effettuata verso pagamento di corrispettivi specifici ai soli associati, non rientra in alcun modo tra le finalità istituzionali dell’ente e deve, quindi, ritenersi attività di natura commerciale, i cui proventi sono soggetti a imposizione fiscale.

I Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno affermato, in via generale, che sono considerate effettuate nell'esercizio dell’attività di impresa le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte da associazioni che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciale, e per le altre associazioni sono invece considerate effettuate nell'esercizio di impresa le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati, ove rese verso il pagamento di un corrispettivo o di un specifico contributo supplementare. 
Ex adverso, in via eccezionale, è esclusa la qualificazione di prestazione fatta nell'esercizio di attività commerciale delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi a condizione che siano "effettuate in conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali e sportive".

Infatti, la possibilità di usufruire dell'agevolazione di cui all'art. 4 D.P.R.  n. 633 del 1972 e art.111 TUIR, anche a seguito della riforma introdotta dall'art. 4 Legge n.383/2000, deriva, infatti, dal concorso di due circostanze:

  • dall'esclusione della qualificazione dell'attività svolta come attività commerciale, in ragione dell'affinità e strumentalità della stessa con i fini istituzionali;
  • dallo svolgimento dell'attività unicamente in favore dei soci.

Pertanto, si deduce che solo le prestazioni ed i servizi che realizzano le finalità istituzionali, senza specifica organizzazione e verso il pagamento di corrispettivi che non eccedano i costi di diretta imputazione, non debbano essere considerate come compiute nell'esercizio di attività commerciale e, quindi, come non imponibili, mentre ogni altra attività espletata dagli stessi soggetti deve ritenersi rientri nel regime impositivo.

Infatti, per la S.C., l'attività di gestione di un bar ristoro da parte di un ente non lucrativo può essere qualificata come "non commerciale" , ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’art. 4 DPR 26 ottobre 1972, n. 633 e di quella sui redditi, di cui all’art. 111 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nel testo vigente "ratione temporis" oggi trasfuso nell'art. 148 dello stesso D.P.R., soltanto se la suddetta attività sia strumentale rispetto ai fini istituzionali dell'ente e sia svolta solo in favore degli associati.

In nuce, gli Ermellini hanno chiarito, rifacendosi a precedenti pronunce della stessa Corte con indirizzo condiviso (id: Cass. n. 15191 del 2006 e Cass. n. 21406 del 2012), che: "l'attività di bar con somministrazione di bevande verso pagamento di corrispettivi specifici, svolta da un circolo culturale, anche se effettuata ai propri associati, non rientra in alcun modo tra le finalità istituzionali del circolo e deve, dunque, ritenersi ai fini del trattamento tributario, attività di natura commerciale"


L’AGGRESSIONE FISICA LEGITTIMA SEMPRE IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19013 DEL 17 LUGLIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 19013 del 17 luglio 2018, ha statuito che un diverbio sfociato in una aggressione fisica, all’esito della quale l’aggredito è dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso a causa del pugno ricevuto, integra pienamente la fattispecie della giusta causa di licenziamento. 

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento ridimensionando il provvedimento da espulsivo a conservativo, connotando il comportamento del lavoratore come un “po’ aggressivo”, sull’assunto che in tale ipotesi il CCNL di riferimento prevedeva una semplice sanzione conservativa.

Nei fatti, un lavoratore, dopo aver ignorato l’ordine di servizio secondo il quale avrebbe dovuto iniziare la prestazione lavorativa in un dato giorno alle ore 10.00 anziché 06.00, reagiva nei confronti del proprio superiore negando con forza di aver ricevuto l’ordine di servizio. Nel corso dell’acceso diverbio il lavoratore colpiva il superiore con un pugno causandogli un trauma facciale e contusioni multiple guaribili in 5 giorni.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, hanno bacchettato i Giudici dell’Appello precisando che un fatto di una tale gravità non può ricondursi ad una ipotesi di sanzione conservativa contrattualmente stabilita. Dunque, non è possibile parlare di “un atteggiamento un po’ aggressivo”, atteso che il lavoratore ha letteralmente mandato all’ospedale il proprio superiore, a cui va aggiunta la configurabilità del reato previsto dall’art. 582 del c.p..  Pertanto, il caso in commento integra pienamente la nozione di giusta causa di licenziamento. 

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

Le pubblicazioni di questa e delle altre Rubriche riprenderanno Lunedi 3 Settembre 2018. La Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale augura ai Colleghi buone ferie.

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

Condividi:

Modificato: 30 Luglio 2018