10 Settembre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita  iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

AMMISSIBILE UNA NUOVA COMUNICAZIONE DI LICENZIAMENTO SE LA STESSA E’ FONDATA SU MOTIVI DIVERSI DAL PRIMO ATTO DI RECESSO DATORIALE E LA SUA EFFICACIA RESTA SUBORDINATA ALLA DECLARATORIA DI ILLEGITTIMITA’ DEL PRIMO PROVVEDIMENTO ESPULSIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19089 DEL 18 LUGLIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 19089 del 18 luglio 2018, ha statuito che può essere ritenuto legittimo intimare due volte il licenziamento ma solo nel caso in cui il secondo atto di recesso trovi fondamento in motivazioni diverse dal primo e la sua efficacia sia condizionata all’illegittimità del primo atto unilaterale datoriale.

Nel caso di specie, un lavoratore di Poste italiane Spa era destinatario di ben sei contestazioni disciplinari: le prime quattro punite con una sospensione dal lavoro e dalla retribuzione e le ultime due con separati provvedimenti di licenziamento.
Il prestatore adiva la Magistratura per vedere acclarata l’illegittimità di entrambi gli atti di recesso datoriale. I Giudici di prime cure, in entrambi i gradi di giudizio, accettavano le doglianze del prestatore evidenziando che per le motivazioni poste a fondamento del primo atto di recesso datoriale il CCNL prevedeva una sanzione di tipo conservativo e che il secondo licenziamento era fondato su fatti ben noti all’azienda già prima dell’intimazione del primo licenziamento.
Poste italiane Spa ricorreva in Cassazione sostenendo di non aver potuto provvedere ad un unico licenziamento in quanto le motivazioni del secondo atto di recesso era diventate note all’azienda nel mentre espiava il termine del primo procedimento disciplinare e le tempistiche dei due procedimenti non erano compatibili con le scadenze sancite dalla contrattazione collettiva per la corretta irrogazione delle sanzioni disciplinari.
Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum dei Giudici di prime cure, hanno evidenziato che l’adozione di due diversi licenziamenti è ammissibile solo nel caso in cui il secondo atto di recesso trovi fondamento su fatti e circostanze non conosciuti dal datore di lavoro nel momento di adozione del primo licenziamento ed a condizione che il secondo atto datoriale sia subordinato all’illegittimità del primo provvedimento espulsivo.
Pertanto, atteso che nel caso de quo Poste italiane Spa era a conoscenza dei fatti posti a fondamento del secondo recesso già nel momento  di adozione del primo provvedimento espulsivo e che il datore stesso avrebbe potuto sospendere il primo procedimento disciplinare in attesa della definizione del secondo prima di emettere il licenziamento ovviando alla problematica delle tempistiche dettate dal CCNL, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno rigettato il ricorso confermando l’illegittimità del licenziamento comminato al prestatore.

E' OBBLIGO DEL SOSTITUTO DI RIPARTIRE LE RISORSE ESISTENTI ALL'ATTO DELLA CORRESPONSIONE DELLE RETRIBUZIONI IN MODO DI ADEMPIERE IL PROPRIO OBBLIGO DI VERSAMENTO DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 39225 DEL 29 AGOSTO 2018.

La Corte di Cassazione – III Sezione penale, sentenza n° 39225 del 29 agosto 2018, ha ribadito, in tema di mancato versamento dei contributi all'Inps sulle retribuzioni dei dipendenti, che spetta all'imprenditore gestire le risorse disponibili in modo da assolvere al proprio obbligo.
Nel caso in specie, la Corte d'appello di Milano, integralmente confermando la sentenza di primo grado, aveva condannato il rappresentante legale di una società per il reato, ex art. 2, D.Lgs. n°463/83, convertito in legge n°638/83, di omesse ritenute previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni di lavoratori dipendenti relative all'anno di imposta 2009. L'amministratrice della società datrice si era difesa sostenendo che, considerata la condizione di crisi finanziaria dell'azienda, successivamente sfociata in fallimento, aveva privilegiato il pagamento delle retribuzioni a discapito dei propri obblighi previdenziali, al fine di non causare un maggior danno per la sopravvivenza del personale dipendente e delle relative famiglie.
Avverso il suddetto provvedimento l'imputata ha proposto ricorso per cassazione adducendo lo stato di necessità rispetto al quale non aveva avuto alcun margine di scelta.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso premettendo che essendo il reato in esame caratterizzato dal dolo generico, esaurendosi con coscienza e volontà della omissione contributiva, non costituisce elemento rilevante, al fine di escludere l'elemento soggettivo, la fase di criticità dell'azienda o di difficoltà dell'imprenditore che destini le risorse aziendali a debiti "più urgenti".
Gli Ermellini hanno continuato specificando che il reato è configurabile altresì anche nel caso in cui si accerti l'esistenza del successivo stato di insolvenza dell'imprenditore, in quanto è onere di quest'ultimo ripartire le risorse esistenti al momento di corrispondere le retribuzioni ai lavoratori dipendenti in modo di poter adempiere all'obbligo del versamento delle ritenute, anche se ciò possa riflettersi sull'integrale pagamento delle retribuzioni medesime.
Invero, la legge affida al datore di lavoro, in quanto debitore delle retribuzioni, nei confronti dei prestatori di lavoro dipendenti, il compito di detrarre dalle stesse l'importo delle ritenute previdenziali e assistenziali e di corrisponderle all'Erario quale sostituto del soggetto obbligato. In questo senso il sostituto adempie contemporaneamente a un obbligo proprio e a un obbligo altrui: di qui la conseguenza di ritenerlo vincolato al pagamento delle ritenute allo stesso titolo per cui è vincolato al pagamento delle retribuzioni.
Né può configurarsi, hanno concluso sul punto gli Ermellini, a fronte di una situazione di carenza di liquidità, lo stato di necessità invocato dal datore di lavoro, atteso che la punibilità della condotta deve essere individuata proprio nel mancato accantonamento delle somme dovute all'Istituto sussistendo comunque la provvista sufficiente all'adempimento, che solo la scelta dell'imprenditore ha fatto sì che avesse diversa destinazione.

IL LAVORATORE NON PUO' RIFIUTARSI DI ESEGUIRE LA PRESTAZIONE ANCHE SE I COMPITI ASSEGNATI RISULTINO ESTRANEI ALLA QUALIFICA ATTRIBUITA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21036 DEL 23 AGOSTO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21036 del 23 agosto 2018, ha ribadito, in tema di rifiuto ad eseguire la prestazione, che il lavoratore è tenuto comunque ad osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro, salvo il diritto alla riconduzione delle mansioni a quelle rientranti nella propria qualifica.
Nel caso in esame, un lavoratore di una emittente radiotelevisiva, con qualifica di documentatore di primo livello, si era rifiutato di effettuare l'attività ordinatagli da un superiore, consistente nel reperimento e consegna di un cd musicale richiesto da un giornalista; tale condotta, per la società datrice di lavoro, integrava una insubordinazione, avvalorata dalla pretestuosità delle ragioni addotte dal dipendente il quale aveva sostenuto che l'attività richiesta esulava dai compiti della propria qualifica, rientrando tra quelli di mera manovalanza. Il fatto era sfociato in un provvedimento disciplinare, al quale era conseguita l'applicazione di una sanzione costituita dalla sospensione, per tre giorni, dall'attività lavorativa.
La corte d'appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto compatibile la sanzione applicata al caso prospettato che aveva causato notevoli disservizi all'organizzazione aziendale.
Non dello stesso avviso il lavoratore che ha adito la Suprema Corte per la cassazione della sentenza.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso alla luce dell'indirizzo ormai consolidato di legittimità secondo il quale, l'eventuale adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica può consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto il lavoratore è tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c. e può legittimamente invocare l'art. 1460 c.c., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte.

LA PRESCRIZIONE DEI CONTRIBUTI INPS A PERCENTUALE DEGLI AUTONOMI DECORRE DALLA DATA DI SCADENZA DEL TERMINE PER IL LORO PAGAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19640 DEL 24 LUGLIO 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 19640 del 24 luglio 2018, ha (ri)affermato il proprio orientamento restrittivo in materia di decorrenza del termine prescrizionale per il pagamento dei contributi Inps a percentuale a carico dei lavoratori autonomi, statuendo nuovamente che il momento di decorrenza della prescrizione deve essere identificato con la scadenza del termine per il loro pagamento.
Nel caso in specie a carico di un lavoratore autonomo, artigiano, l’Inps aveva provveduto ad emettere, nell’anno 2009, un avviso di accertamento per contributi a percentuale omessi per l’annualità 2001.
L’artigiano provvedeva immediatamente a ricorrere alla giustizia per chiederne l’annullamento sostenendo che era intervenuta la prescrizione quinquennale di cui all’articolo 3, comma 9° della legge n. 335/95.
Dal canto suo l’Istituto previdenziale resisteva sostenendo che la prescrizione quinquennale non poteva sussistere essendo stata omessa la dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2001.
Nel primo grado di giudizio di merito l’artigiano risultava soccombente e condannato al pagamento dei contributi a percentuale, sentenza che veniva poi riformulata in Appello.
In particolare la Corte d’Appello accoglieva l’eccezione di prescrizione sollevata dall’appellante, sostenendo che la circostanza secondo cui per i redditi del 2001 fosse stata omessa la dichiarazione di legge, non impediva certamente l’accertamento di essi attraverso i poteri ispettivi dell’ente previdenziale e l’esercizio della relativa pretesa, quantomeno dal momento in cui fu omessa la dichiarazione fiscale dovuta e dunque dall’anno 2002; ciò non era avvenuto poiché il primo atto interruttivo risaliva pacificamente al 2009 sicché era intervenuta la prescrizione quinquennale.
Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Inps.
Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, nel respingere il ricorso presentato dall’Inps hanno (ri)affermato, uniformandosi a precedente giudizio di legittimità, sentenza n. 13463 del 29/05/2017, che “in tema di contributi cd. “a percentuale”, il fatto costitutivo dell’obbligazione contributiva è costituito dall’avvenuta produzione, da parte del lavoratore autonomo, di un determinato reddito ex art. 1, comma 4 della l. n. 233/1990, quand’anche l’efficacia del predetto fatto sia collegata ad un atto amministrativo di ricognizione del suo avveramento; ne consegue che il momento di decorrenza della prescrizione dei contributi in questione, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 335 del 1995, deve identificarsi con la scadenza del termine per il loro pagamento e non con l’atto, eventualmente successivoed avente solo efficacia interruttiva della prescrizione anche a beneficio dell’Inps – con cui l’Agenzia delle Entrate abbia accertato, ex art. 1 del d.lgs. n. 462 del 1997, un maggior reddito”.
E’ pertanto, hanno concluso gli Ermellini, “risulta infondata la tesi fatta valere dall’INPS secondo cui il diritto ai contributi a percentuale sul reddito sarebbe sorto solo quando l’Istituto ha avuto contezza del suo credito e cioè solo dopo che l’Agenzia delle Entrate ha accertato d’ufficio, con atto notificato il 3 febbraio 2007, che il lavoratore autonomo in relazione all’anno 2001 avesse conseguito un reddito mai dichiarato prima. Invece il diritto in questione era già sorto al momento del fatto generatore dello stesso ovvero alla scadenza del termine stabilito per il pagamento dei medesimi contributi all’INPS”.
Infine, in applicazione dei suddetti principi, i Giudici delle Leggi hanno evidenziato come la mancata denuncia del reddito da parte dell’artigiano non equivalesse ad un doloso e preordinato occultamento del debito contributivo da corrispondere all’INPS; né che essa (id. mancata dichiarazione dei redditi) configurasse impedimento assoluto, da parte dell’Inps a procedere per l’accertamento del maggior reddito con i normali controlli che poteva invece sempre attivare e sollecitare anche rivolgendosi all’Agenzia dell’Entrate (cfr. Cass. sent. n. 17769/2015).
Per le suddette motivazioni il ricorso dell’Inps è stato rigettato anche con condanna delle spese a carico dell’Istituto previdenziale.

L’AGENZIA DELLE ENTRATE PUÒ RETTIFICARE IL BILANCIO DELLA SOCIETÀ DI CAPITALI, SENZA DOVER CONTESTARE PREVIAMENTE LA FALSITÀ DEL DOCUMENTO CONTABILE.

CORTE DI CASSAZIONE  –  SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 21106 DEL 24 AGOSTO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 21106 del 24 agosto 2018, ha statuito che, ai fini dell'accertamento tributario, l'Agenzia delle Entrate ha la possibilità di rettificare il bilancio della società di capitali, contestando i criteri di classificazione adottati, senza dover contestare previamente la falsità del documento contabile.
Il caso di specie riguarda il maggior reddito accertato dall'Ufficio delle Imposte relativo al presupposto che la società dovesse considerarsi non operativa ai sensi dell'art. 30 della L. n. 724/1994. Il mancato superamento del test di operatività scaturiva dalla riclassificazione, operata dall'ufficio, tra le immobilizzazioni materiali dell'unico bene immobile posseduto dalla società, che essa aveva invece inserito nell'attivo circolante in conformità al proprio oggetto sociale, che contempla l'acquisto, la vendita, la permuta e la valorizzazione di immobili.
Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto le doglianze dell’Amministrazione Finanziaria ribaltando in toto i precedenti gradi di giudizio, fondati sul fatto che, poiché il bilancio di una società di capitali fa fede fino a querela di falso, per riclassificare l'immobile ai fini dell'accertamento tributario, l'ufficio avrebbe dovuto prima promuovere un'azione penale volta ad accertare la falsità della rappresentazione del documento contabile. Ex adverso, per i Giudici di legittimità, gli amministratori della società, ai quali spetta redigere il bilancio, non rivestono la qualifica di pubblico ufficiale, e tale ragione è sufficiente per escludere che il bilancio sia riconducibile fra gli atti che, ai sensi dell'art. 2700 c.c., fanno piena prova fino a querela di falso.
Infatti, la S.C. ha ribadito che l'art. 2379 c.c. consente a chiunque vi abbia interesse di impugnare la delibera di approvazione del bilancio per ottenerne l'annullamento, chiedendo al Giudice di valutare se l'atto sia stato redatto in conformità ai principi di legge, senza necessità di esperire querela di falso o di attendere l'esito di un eventuale procedimento penale a carico degli amministratori.
In nuce, sul piano tributario, gli Ermellini hanno definitivamente chiarito che vi è la possibilità per l'Amministrazione Finanziaria di rettificare il bilancio, contestando i criteri di redazione, al fine dell'accertamento del debito fiscale o dell'insussistenza del credito vantato dal contribuente, e pertanto deve ritenersi implicitamente prevista da tutte le norme antielusive che consentono all'Ufficio non solo di procedere alle attività ispettive sulle scritture contabili, ma anche, in presenza dei presupposti di legge, di procedere all'accertamento induttivo.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!


Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro


 

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Modificato: 10 Settembre 2018