25 Settembre 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

SE NON DIVERSAMENTE PREVISTO DAL CCNL IL RISPETTO DEL TERMINE PER LA COMUNICAZIONE DEL PROVVEDIMENTO DISCIPLINARE ADOTTATO DEVE ESSERE VERIFICATO IN RELAZIONE ALLA DATA DI INVIO DELLA LETTERA ESSENDO IRRILEVANTE IL MOMENTO IN CUI IL DIPENDENTE LA RICEVE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21260 DEL 13 SETTEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21260 del 13 settembre 2017, ha statuito che al fine di verificare correttamente se la comunicazione contenente l'indicazione del provvedimento disciplinare adottato, all'esperire del previsto iter procedurale, è stata inviata entro i termini previsti dalla contrattazione collettiva, bisogna far riferimento, se non diversamente ed espressamente previsto, alla data di invio dell'atto essendo del tutto irrilevante il momento in cui lo stesso viene a conoscenza del lavoratore.

Nel caso de quo, un dipendente veniva licenziato, all'esito del procedimento disciplinare – ex art. 7 dello Statuto dei lavoratori -, per aver sottratto alcuni prodotti alimentari dal supermercato dove svolgeva la propria attività lavorativa. Il prestatore adiva la Magistratura evidenziando che la lettera con la quale l'azienda comunicava l'atto di recesso gli era pervenuta oltre i 15 giorni previsti dal CCNL di riferimento per la trasmissione della notizia inerente il provvedimento adottato.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il lavoratore ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno sottolineato che se la contrattazione collettiva non prevede diversamente, il termine indicato per la comunicazione del provvedimento disciplinare da irrogare al termine dell'apposito procedimento enunciato dalla L. n° 300/70, deve essere verificato con riferimento alla data in cui il datore di lavoro trasmette l'atto in quanto in quel momento lo stesso manifesta la propri volontà di adottare il provvedimento essendo del tutto irrilevante il tempo in cui la comunicazione produce i suoi effetti (id: nel momento in cui il destinatario ne viene a conoscenza).

Pertanto, atteso che nel caso de quo il datore di lavoro aveva inviato la comunicazione del licenziamento entro i 15 giorni stabiliti dal CCNL del settore commercio per la comunicazione del provvedimento disciplinare, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto il ricorso confermando la legittimità del recesso intimato.

 

LA QUIETANZA A SALDO SOTTOSCRITTA DAL LAVORATORE CONTENENTE UNA DICHIARAZIONE DI RINUNCIA PUO' RITENERSI VALIDA A CONDIZIONE CHE RISULTI ACCERTATA LA CONSAPEVOLEZZA DI ABDICARE A DIRITTI DETERMINATI O DETERMINABILI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 20976 DELL’8 SETTEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 20976 dell’8 settembre 2017, ha (ri)confermato, in tema di legittimità della quietanza a saldo in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, che l'intento transattivo è valido a condizione che sia comprovata l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell'interessato.

Nel caso in esame, un lavoratore, in occasione della risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, aveva sottoscritto apposita quietanza dalla quale risultava che la società datrice avrebbe corrisposto a titolo transattivo una ulteriore somma lorda di euro 1.000,00 al solo fine di evitare qualsiasi rischio di eventuali controversie concernenti, tra l'altro, il calcolo del TFR. L'atto sottoscritto non era stato impugnato, ex art. 2113 c.c., nel termine di decadenza di sei mesi e pertanto a parere dei Giudici di prime cure assumeva piena efficacia di rinuncia e transazione.

Non dello stesso avviso il lavoratore che ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza eccependo che la richiesta avanzata muoveva dall'intento di accertare il proprio diritto alla inclusione nel calcolo del TFR di tutte le somme percepite, anche a titolo di lavoro straordinario prestato in via continuativa. Nella fattispecie denunciava di non aver avuto adeguata consapevolezza di abdicare a diritti che non erano stati espressamente dettagliati.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ed ha annullato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Bari riconoscendo fondato il motivo di ricorso. La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, hanno argomentato gli Ermellini, ove contenga una dichiarazione di rinuncia riferita, in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione alla condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento, che sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi; infatti enunciazioni generiche sono assimilabili alle clausole di stile e non sono sufficienti di per sé a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell'interessato.

Nella fattispecie, in occasione della cessazione, si affermava che la società avrebbe corrisposto a titolo transattivo una somma al solo fine di evitare qualsiasi rischio di eventuali controversie che dovessero coinvolgere il calcolo dell'indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto nel suo complesso. L'atto in questione, pertanto, hanno concluso gli Ermellini, non contiene alcun riferimento al computo del compenso per lavoro straordinario ai fini del calcolo dell'indennità di anzianità dovuta al lavoratore. La consapevolezza del diritto, pertanto, non poteva dirsi esistente a fronte di una generica rinunzia.

 

 

LA MANCATA RISPOSTA AL QUESTIONARIO DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE LEGITTIMA L’ACCERTAMENTO INDUTTIVO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 20303 DEL 23 AGOSTO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 20303 del 23 agosto 2017, ha statuito che in caso di accertamento delle imposte sui redditi, è sempre onere del contribuente la prova dei presupposti dei costi e degli oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, comprese la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi.

Il caso di specie, riguarda le doglianze di un contribuente, accolte dai Giudici Territoriali, nei confronti di un avviso di accertamento induttivo per il periodo di imposta 2007 dell’Agenzia delle Entrate, emesso dopo l’esito di indagini finanziarie e la mancata risposta al questionario, che sarebbe carente circa le motivazioni del disconoscimento di parte dei costi, ritenuti generici e non documentati, aggravati dalla sola mancata risposta al questionario de quo.

I Giudici di Piazza Cavour, ex adverso, hanno accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ribadendo che l’omessa risposta al questionario legittima in toto l’accertamento induttivo emesso dall’Ufficio Finanziario, in quanto, spetta sempre al contribuente, fornire la prova dei presupposti dei componenti negativi di reddito, comprese la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, nonché la loro congruità. Infatti, la lettera d-bis) del secondo comma dell’art.39, del DPR n.600/1973, dispone che l’Amministrazione Finanziaria può procedere all’accertamento del reddito d’impresa in via induttiva, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili, avvalendosi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, “quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell’art. 32, primo comma, numeri 3) e 4), del presente decreto o dell’art. 51, secondo comma, numeri 3) e 4), del DPR 26 ottobre 1972, n. 633”.

In nuce, gli Ermellini hanno confermato ciò che il legislatore, con la norma de qua, ha posto tra i presupposti legittimanti dell’accertamento induttivo, quali l’omessa risposta al questionario inviato al contribuente dall’Ufficio Finanziario.

 

IL VERSAMENTO DELL’IVA DEVE ESSERE ANTEPOSTO A QUALSIASI ALTRA SCELTA IMPRENDITORIALE, ANCHE E SOPRATTUTTO IN CASO DI CRISI ECONOMICA

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 39500 DEL 29 AGOSTO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Penale-, sentenza n° 39500 del 29 agosto 2017, ha statuito che il versamento dell’IVA va anteposto a qualsiasi altra scelta imprenditoriale (id: pagamento di stipendi, debiti verso fornitori, debiti pregressi erariali), privilegiando pertanto il pagamento dell’imposta de qua.

Il caso di specie ha riguardato la contestazione al legale rappresentante di una società a responsabilità limitata per il mancato versamento IVA anno 2010 di circa 400.000 euro, e per il quale lo stesso è stato imputato per il reato di cui all’art. 10-ter del Dlgs 74/2000.

Le doglianze del ricorrente erano incentrate, tra l'altro, sulla violazione dell’art. 606, comma 1, lettera c, del c.p.p., in quanto i Giudici territoriali non avevano seguito l’orientamento di legittimità secondo cui la colpevolezza poteva essere esclusa qualora l’imputato avesse dimostrato che la crisi di liquidità non a lui imputabile, intervenuta al momento della scadenza del termine per la dichiarazione annuale relativa all’esercizio precedente, non potesse essere altrimenti fronteggiata con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale. Nel caso de quo l’omissione del versamento IVA era dipeso da due fattori assolutamente imprevedibili, acuiti in un contesto di crisi economica già in corso da diversi anni: il venir meno del più importante cliente dell’impresa e le dimissioni di circa 40 dipendenti assorbiti proprio dallo stesso.

I Giudici di Piazza Cavour, nel confermare il decisum dei primi due gradi di giudizio hanno respinto il ricorso del contribuente, in quanto l’IVA è un’imposta percepita da terzi, ma da versare all’Erario. Pertanto, per la S.C., è preciso dovere dell'imprenditore operare la scelta del rinvio del versamento in un quadro di ragionevolezza economica che, salvo eventi imprevedibili, sia tale da far ordinariamente presumere che il versamento, con l'aggiunta dei previsti interessi e sanzioni, debba sempre avvenire posticipatamente. Venendo meno tale ragionevolezza, l’imprenditore assume coscientemente e, per forza di cose dolosamente, il preciso rischio di non ottemperare al versamento dovuto.

 

LA CONDOTTA ANTISINDACALE DEVE RISULATARE DA ELEMENTI OGGETTIVI CHE DEVONO ENTRARE A FORMARE PARTE SOSTANZIALE DEL CONVINCIMENTO DEL GIUDICE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21063 DELL’11 SETTEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21063 dell’11 settembre 2017, ha statuito che il convincimento del Giudice non deve mai fondarsi su meri rinvii a fatti generi o per relationem, senza che appaia in modo trasparente l’iter logico giuridico su cui si è basato il convincimento dello stesso.  

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Ancona, in parziale riforma del Tribunale di Ascoli Piceno, condannava l’azienda per aver tenuto una condotta antisindacale nei confronti di tre lavoratici. Il convincimento si era basato sul fatto che il trasferimento disposto per le stesse equivaleva di fatto ad un licenziamento, consistendo concretamente in una pressione nei confronti delle stesse tale di sfociare in un comportamento antisindacale. L’azienda resisteva in Cassazione presentando un unico motivo posto a base del ricorso, fondato proprio sull’erroneo iter logico giuridico seguito della Corte Distrettuale.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, hanno chiarito che il Giudice deve seguire un iter logico giuridico che sia trasparente e che lasci comprendere il percorso argomentativo dello stesso. Giammai, deve basare il proprio convincimento su rinvii generici e per relationem.  Nella specie, il motivo dell’azienda è stato ritenuto fondato atteso che, con riferimento alla violazione ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori, non è risultato dimostrato l’elemento oggettivo e soggettivo. Inoltre, non è stato spiegato perché i licenziamenti, intimati per g.m.o., erano siano stati dichiarati illegittimi, né perché lesivi dell’esercizio dei diritti sindacali.

In conclusione, la pronuncia deiGiudici distrettuali è stata valutata come inidonea e la sentenza è stata cassata e rinviata alla Corte distrettuale in diversa composizione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

  Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 25 Settembre 2017