17 Settembre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI AGOSTO 2018

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Agosto 2018. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Agosto 2018 è pari a 2,335312 e l’indice Istat è 102,90.

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE VIENE “PIZZICATO” CON UN DISCRETO QUANTITATIVO DI SOSTANZE STUPEFACENTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21679 DEL 5 SETTEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21679 del 5 settembre 2018, ha statuito che è da ritenersi illegittimo il licenziamento del dipendente che viene sorpreso, durante una pausa dal lavoro, con un discreto quantitativo di hashish (probabilmente) destinato allo spaccio.

Nel caso in esame, un dipendente assunto con qualifica di magazziniere veniva “pizzicato” dai Carabinieri con 25 grammi di hashish nella tuta di lavoro nel mentre rientrava in azienda dopo una pausa di lavoro. All’esito del procedimento disciplinare – ex art. 7 della L. n° 300/70 -, l’azienda irrogava il licenziamento per giusta causa attesa la quantità di sostanza stupefacente che il prestatore stava per introdurre in azienda ed il rilevante danno d’immagine procurato per l’evidenza, su alcuni quotidiani locali, del marchio aziendale sulla tuta di lavoro all’interno della quale era stata rinvenuto il quantitativo di hashish.

Il prestatore adiva la Magistratura per vedere acclarata l’illegittimità dell’atto di recesso datoriale soccombendo in entrambi i gradi di merito.

Inevitabile il ricorso in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel ribaltare il deliberato di prime cure, hanno evidenziato che nel caso di specie il comportamento del dipendente non fosse tale da ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia con il datore di lavoro atteso che la sostanza stupefacente poteva essere destinata al consumo personale del prestatore, non essendo stata fornita prova della finalità di spaccio, e non era ravvisabile un danno di immagine per l’azienda in quanto il quotidiano che aveva pubblicato la foto della tuta con il logo aziendale aveva diffusione esclusivamente a livello locale.

Pertanto, attesa la valutazione degli atti che faceva propendere per il mancato riconoscimento della irrimediabile lesione del vincolo fiduciario e per la conseguente applicazione di una sanzione di tipo conservativo, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno cassato la sentenza rinviando gli atti alla Corte territoriale per un nuovo decisum in subiecta materia.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE APOSTROFA IL PROPRIO SUPERIORE CON FRASI OFFENSIVE ED INGIURIOSE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19092 DEL 18 LUGLIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 19092 del 18 luglio 2018, ha nuovamente affermato che è da ritenersi legittimo il licenziamento del dipendente che offende il proprio superiore gerarchico con frasi gravemente offensive che travalicano il legittimo diritto di critica.

Nel caso de quo, un lavoratore veniva licenziato per aver proferito frasi fortemente ingiuriose nei confronti del proprio Direttore Generale anche alla presenza di altri lavoratori e di ospiti esterni all’azienda.

Il prestatore adiva la Magistratura per vedere acclarata l’illegittimità dell’atto di recesso datoriale trovando pieno soddisfo alle proprie pretese.

L’azienda ricorreva in appello ottenendo il ribaltamento del deliberato di prime cure.

Inevitabile la pronuncia dei Giudici della Corte di Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum della Corte territoriale, hanno evidenziato che l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale e formale, si traduca in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro dipendente.

Pertanto, atteso che nel caso di specie il lavoratore aveva utilizzato espressioni gravemente offensive nei confronti del proprio superiore finanche alla presenza di altri lavoratori e di soggetti estranei all’azienda, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno rigettato il ricorso del dipendente confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa comminatogli.

 

NEL LICENZIAMENTO PER GMO PER RIDIMENSIONAMENTO DELL'ATTIVITA' E' OBBLIGO DEL DATORE DI LAVORO INDIVIDUARE IL SOGGETTO PONENDO A CONFRONTO IL SUO PROFILO CON QUELLO DI ALTRI LAVORATORI CON MEDESIME FUNZIONI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21438 DEL 30 AGOSTO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21438 del 30 agosto 2018, ha ribadito, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per ridimensionamento dell'attività, che la scelta del lavoratore da licenziare va effettuata secondo i principi di correttezza e buona fede individuati dall'art. 5 della legge n°223/1991.

Nel caso in specie, la Corte d'Appello di Firenze, contrariamente al giudizio di primo grado, ritenne illegittimo il licenziamento di un lavoratore addetto al reparto falegnameria di un'impresa, evidenziando che la società datrice, che ne era onerata, non aveva dimostrato le ragioni per le quali la scelta del dipendente era caduta sul lavoratore e non su altri che svolgevano medesime mansioni, con una minore anzianità di servizio. Il licenziamento era stato adottato in esito alla riorganizzazione dell'attività aziendale, con conseguente ridimensionamento dell'organico, privilegiando alcuni settori (verniciatura) ma senza del tutto abolirne altri (falegnameria). 

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice affermando che nel giudizio di merito era emerso che, per far fronte alla crisi aziendale era stato "di fatto" soppresso il ramo falegnameria avendo la società privilegiato l'acquisto di semilavorati, salvaguardando il reparto verniciatura; conseguentemente la mera riduzione dell'attività era riconducibile alla soppressione di un settore aziendale e non da una riduzione di personale omogeneo e fungibile.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso premettendo che la Corte di Appello aveva motivatamente escluso che in esito alla paventata riorganizzazione dell'attività aziendale vi fosse stata la soppressione del reparto falegnameria e, pertanto, il licenziamento era riconducibile ad una mera riduzione dell'attività come dichiarato in sede di licenziamento.

Ciò premesso, gli Ermellini hanno approfondito la questione ricordando che secondo l'art. 3 della legge n° 604/1966 ai fini del recesso datoriali servono:

a) la soppressione del settore lavorativo, del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni allo stesso attribuite in precedenza;

b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali diretti a incidere sulla struttura e organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività, insindacabili dal Giudice purché effettivi e non simulati;

c) l'impossibilità del reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione nel carattere effettivamente necessario e non pretestuoso della scelta.

L'onore probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, il quale può assolverlo anche tramite presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili.

Del pari, hanno continuato gli Ermellini (cfr. Cass. 28.03.2011 n°7046), quando il giustificato motivo oggettivo, come nel caso in specie, si identifica con la mera esigenza di riduzione di personale fungibile non è vero che la scelta del datore di lavoro sia totalmente libera: essa risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, anche dai principi di correttezza e buona fede, ex artt. 1175 e 1375 c.c.. In questa situazione si è ritenuto che debba farsi riferimento, ai criteri che la legge n° 223/91, art. 5, ha dettato per i licenziamenti collettivi per l'ipotesi in cui l'accordo sindacale non abbia indicato criteri di scelta diversi. Conseguentemente possono essere presi in considerazione, in via analogica, i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità, atteso che non assumono rilievo le esigenze tecnico-produttive e organizzative, data la situazione di fungibilità tra i dipendenti.

 

NON CONFIGURA UNA IPOTESI PENALE IL LIEVE SUPERAMENTO DEL LIMITE DEI 10.000,00 PER OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI GRAVANTI SUI DIPENDENTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – ORDINANZA N. 39413 DEL 3 SETTEMBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, ordinanza n° 39413 del 3 settembre 2018, ha statuito che si applica la non punibilità per particolare tenuità del fatto anche in presenza di plurime omissioni mensili che, sommate, superino di poco la soglia fissata dal legislatore per il reato di omesso versamento di ritenute assistenziali e previdenziali, previsto solo al raggiungimento dei 10.000 euro annui.

Nel caso di specie, il legale rappresentante di una società, condannato in primo grado per omesso versamento di ritenute assistenziali e previdenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti in diverse mensilità del 2010, contestava l'omessa applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, pur ammontando il debito complessivo annuo a circa 11.000,00 euro, quindi solo 1.000,00 euro oltre la soglia penale. La Corte d’Appello, nel respingere le doglianze del contribuente, sosteneva che i singoli versamenti omessi rappresentano le condotte plurime e reiterate che precludono l’applicazione del beneficio previsto dall’art. 131 bis C.P.

Ex adverso, i Giudici di piazza Cavour, ribaltando in toto i precedenti giudizi, hanno ribadito che l’art. 131 bis c.p., nel collegare l'abitualità del comportamento alla pluralità o reiterazione, quale motivo ostativo all’applicazione della causa di non punibilità, si riferisce a condotte che già di per sè costituiscono reato, anche isolatamente valutate. Il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali è, invece, caratterizzato da una consumazione prolungata, connotata da una progressione criminosa di comportamenti adottati nello stesso anno, che vanno considerati quali momenti esecutivi di un unico comportamento delittuoso e che singolarmente considerati non integrano alcun reato.

In nuce, la S.C. ha confermato che la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile se, come nel caso di specie, l'omissione è di poco superiore alla soglia fissata dal legislatore, considerando però tutti i versamenti non eseguiti nel loro complesso.

LA CONCILIAZIONE STRAGIUDIZIALE EX ART. 2113 PUO’ ESSERE IMPUGNATA NEI SUCCESSIVI SEI MESI FATTO SALVO LE IPOTESI IN CUI L’ACCORDO VENGA CONCLUSO IN UNA SEDE PROTETTA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21617 DEL 4 SETTEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21617 del 4 settembre 2018, ha statuito che gli accordi stragiudiziali ai sensi dell’art. 2113 c.c., conclusi in pendenza di giudizio, o comunque ancora sub judice, perché provvisori, possono essere impugnati nei sei mesi successivi.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Salerno, a conferma della sentenza di primo grado, riteneva  valida l’impugnazione  da parte del lavoratore dell’accordo stragiudiziale avvenuto nei sei mesi successivi la sottoscrizione.

Nei fatti, le parti, in data 21 aprile 2009, si accordavano sottoscrivendo un atto denominato conciliazione e transazione stragiudiziale, con l’impegno di formalizzare il contenuto dell’accordo entro e non oltre il  successivo 31/05/2009 innanzi all’allora Direzione Provinciale del Lavoro di Salerno.

Con raccomandata del 7 maggio 2009, pervenuta in azienda il 12 maggio 2009, il lavoratore impugnava l’atto sottoscritto.

La Corte d’Appello, allineandosi ai precedenti orientamenti giurisprudenziali, statuiva che l’aver intrapreso un’azione giudiziaria nei confronti del proprio datore di lavoro non fa venir meno la soggezione del lavoratore verso quest’ultimo. Con la conseguenza che, salvo le ipotesi in cui l’accordo venga siglato in una delle sedi protette, l’atto può sempre essere impugnato nei successivi sei mesi dalla sottoscrizione.  Inoltre, lo stesso atto era poi da ritenersi affetto da nullità assoluta in quanto contenente diritti retributivi non ancora maturati e diritti previdenziali e assistenziali e quindi sottratti alla disponibilità del lavoratore.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno sostanzialmente ribadito che l’art. 2113 c.c. esclude l’impugnabilità delle rinunce e transazioni solo quando avvenga in una delle sedi protette (art. 185 cpc, 410 cpc, 411 cpc ecc).  Tali accordi, in sede protetta, precludono al Giudice l’accertamento della situazione preesistente e della violazione di disposizioni inderogabili eventualmente attuata con gli accordi transattivi. Ne consegue che gli accordi stipulati ai sensi dell’art. 2113, non sottoscritti in una delle sedi protetta, sono impugnabili nei sei mesi successivi, anche se trattasi di una sentenza provvisoria e quindi ancora sub judice, non potendo escludere l’insistenza della soggezione del lavoratore verso il proprio datore di lavoro.  

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 17 Settembre 2018