21 Settembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI AGOSTO 2020

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Agosto 2020. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Agosto 2020 è pari a 1,0000 e l’indice Istat è 102,50

 

L'INFORTUNIO OCCORSO AL LAVORATORE NEL TRAGITTO CASA – LAVORO AL TERMINE DI UN PERMESSO FAMILIARE RIENTRA NELLA NOZIONE DI INFORTUNIO IN ITINERE. 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 18659 DELL'8 SETTEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 18659 dell'8 settembre 2020, ha (ri)confermato che la nozione di rischio elettivo, rilevante al fine di escludere l'indennizzabilità dell'infortunio in itinere, va circoscritta al caso in cui il lavoratore, in base a ragioni o ad impulsi personali, abbia compiuto una scelta arbitraria.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Venezia, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva rigettato la domanda della moglie e delle figlie minori superstiti, in qualità di eredi, di un lavoratore deceduto a causa di un sinistro stradale occorso, mentre, al termine di un permesso ottenuto per motivi personali, tornava da casa sul luogo di lavoro.

All'uopo, la Corte di merito aveva ritenuto che la fruizione di un permesso per motivi personali escludesse il nesso di causalità tra l'infortunio e l'attività lavorativa, ancorché nel caso di specie il permesso fosse stato richiesto e ottenuto per esigenze familiari.

Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso gli eredi del lavoratore ribadendo che l'infortunio si era verificato nel tragitto necessario per ritornare sul luogo di lavoro.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso evidenziando che  il Testo Unico n°1124 del 1965, art. 2, comma 3, nel testo applicabile ratione temporis, prevedeva che "salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l'assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro", precisando che, "l'interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all'adempimento di obblighi penalmente rilevanti" e che "l'assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato". L'anzidetta disposizione, hanno chiarito gli Ermellini, amplia la tutela assicurativa a qualsiasi infortunio verificatosi lungo il percorso da casa al luogo di lavoro, escludendo qualsiasi rilevanza all'entità del rischio o alla tipologia della specifica attività lavorativa cui l'infortunato sia addetto e tutelando piuttosto il rischio generico (connesso al compimento del c.d. percorso normale tra abitazione e luogo di lavoro) cui soggiace qualsiasi persona che lavori, restando per conseguenza confinato il c.d. rischio elettivo a tutto ciò che sia dovuto piuttosto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella legata al c.d. percorso normale, ponendo così in essere una condotta interruttiva di ogni nesso tra lavoro-rischio ed evento. Pertanto, la sussistenza di un rapporto finalistico tra il c.d. percorso normale e l'attività lavorativa è sufficiente a garantire la tutela antinfortunistica.

Ciò posto, hanno concluso gli Ermellini, non è condivisibile l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui la fruizione di un permesso di lavoro per motivi personali interromperebbe ex se il nesso rispetto all'attività lavorativa, con conseguente non indennizzabilità dell'evento infortunistico verificatosi nel percorso normale per rientrare al lavoro, atteso che il permesso costituisce una fattispecie di sospensione dell'attività lavorativa nell'interesse del lavoratore che ontologicamente non è differente dalle pause o dai riposi, differenziandosi da questi ultimi soltanto per il suo carattere occasionale ed eventuale a fronte del connotato di periodicità e prevedibilità che è tipico degli altri, e non potendo logicamente sostenersi che il lavoratore che si allontani dall'azienda e/o vi faccia ritorno in relazione alla necessità di fruire del riposo giornaliero non sia tutelato durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE, AUSILIARIO ALLA SOSTA, CHE SI RECA TROPO SPESSO AL BAR PER UNA “PAUSA CAFFE’”

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 18246 DEL 2 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 18246 del 2 settembre 2020, ha statuito la legittimità di un licenziamento intimato ad un “ausiliario della sosta” che si concedeva numerose e lunghe soste al bar abbandonando, per il corrispondente arco temporale, “il controllo delle vetture in sosta”.

Nel caso in specie, una lavoratrice, addetta al controllo del pagamento del ticket per la sosta degli automobilisti, si vedeva respingere l’impugnativa di licenziamento proposta innanzi al Tribunale di Venezia. Il Giudice di prime cure, infatti, aveva ritenuto il comportamento della dipendente tanto grave da legittimare il licenziamento per motivi disciplinari, in quanto la stessa era risultata essere rea di aver sostato numerose volte e per lungo tempo al bar e di essersi, in un’occasione, fermata mezz’ora in ufficio indicando “in modo erroneo l’orario di una sanzione, risultata applicata in coincidenza” con una sua pausa al bar.

La Corte d’Appello, adita dalla ausiliaria alla sosta, confermava la decisione e respingeva il ricorso affermando che i comportamenti contestati alla lavoratrice, avvalorati da due testimoni che avevano preso parte all’attività di controllo e confermato che ella aveva riportato, in due avvisi di accertamento, un orario errato, coincidente con un periodo in cui non stava lavorando, proprio allo scopo di coprire lo “stato di non lavoro”, connotavano la condotta di particolare gravità, tale da giustificare il licenziamento.

Del medesimo parere anche la Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso e confermato il licenziamento anche perché, in applicazione del noto principio dell’”autosufficienza” del ricorso per cassazione, la difesa della lavoratrice non aveva indicato né in quale punto del ricorso, né aveva riportato il fatto il cui accertamento, in primo grado, secondo la prospettazione di parte ricorrente, era stato omesso ed il cui esame, ex adverso, avrebbe comportato il riesame nel merito da parte della Corte di Appello in differente composizione.

LA COMUNICAZIONE DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO NON DEVE INDICARE CONTESTUALMENTE TUTTI GLI ELEMENTI DI FATTO E DI DIRITTO ALLA BASE DEL PROVVEDIMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16795 DEL 6 AGOSTO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16795 del 6 agosto 2020, ha statuito che nella lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore non è tenuto ad indicare per iscritto, insieme ai motivi che sorreggono il recesso, tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento come ad esempio l’impossibilità di ricollocare il dipendente in altre mansioni.

Nel caso in specie, un dipendente veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo, licenziamento che veniva prontamente impugnato dinanzi al Giudice del Lavoro per violazione e falsa applicazione dell’art. 2, Legge n. 604/196. In particolare, il lavoratore ricorrente deduceva tra le altre cose, che nella lettera di licenziamento l’azienda aveva illegittimamente omesso il riferimento all’ottemperanza all’obbligo di repechage.

Sia il Giudice di prime cure che successivamente la Corte d’Appello respingevano il ricorso del lavoratore che per vedere accolta la sua pretesa di reintegro ricorreva allora per Cassazione.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello, uniformandosi al principio di diritto consolidato in giurisprudenza di legittimità, hanno affermato che “il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare per iscritto i motivi del recesso, ma non è tenuto ad esporre specificamente tutti gli elementi di fatto e di diritto a base del provvedimento, essendo invece sufficiente che indichi la fattispecie di recesso nei suoi tratti e circostanze essenziali, così che in sede di impugnazione non possa invocare una fattispecie totalmente diversa (Cfr. Cass. n. 3752/85) e, a fortiori, non è certamente tenuto a fornire, in sede di esposizione dei motivi, anche la prova degli indicati motivi”.

E’stato altresì affermato, hanno proseguito gli Ermellini, che non è necessaria l’indicazione della inutilizzabilità aliunde nella motivazione del licenziamento per soppressione del posto, trattandosi di elemento implicito da provare direttamente in giudizio (cfr. Cass. n. 3752/85), in quanto la ratio sottesa alla norma sull'onere della forma del recesso è quella che la motivazione del licenziamento sia specifica ed essenziale e consenta al lavoratore di comprendere le effettive ragioni del recesso che, con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si sostanziano nella ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, come richiesto dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966 e non anche nell’adempimento datoriale all’obbligo di repechage (Cass. n. 6678/2019).

Sulla base delle suddette considerazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento per g.m.o. irrogatogli.


TEMPESTIVA L'IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA SE EFFETTUATA ENTRO LA MEZZANOTTE DELL'ULTIMO GIORNO UTILE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 18235 DEL 2 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 18235 del 2 settembre 2020, ha statuito che è ampiamente legittimo l'appello proposto entro la mezzanotte dell'ultimo giorno utile e tale notifica deve ritenersi tempestiva e dunque pienamente valida.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour hanno pienamente accolto un ricorso contro la decisione della Corte d'Appello che aveva, invece, ritenuto tardiva l'impugnazione perché notificata a mezzo PEC oltre le ore 23:00 dell'ultimo giorno utile e, per questo, ritenuta perfezionatasi ex art. 16 del DL n. 179/2012, alle ore 7:00 del giorno successivo, quando il termine per proporre appello era ormai decorso.

Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini, hanno espressamente richiamano quanto stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 75/2019, depositata in data 9 aprile 2019, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 16-septies del D.L. n. 179/2012, convertito nella Legge n. 221/2012, "nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta", rilevando un irragionevole vulnus recato dalla norma menzionata al pieno esercizio del diritto di difesa, in particolare per quanto riguarda la "fruizione completa dei termini per l'esercizio dell'azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare, che è contenuto indefettibile di una tutela giurisdizionale effettiva".

Per i Giudici del Palazzaccio, il divieto di notifica telematico oltre le ore 21 è stato introdotto, attraverso il richiamo dell'art. 147 c.p.c. nella prima parte del censurato art. 16-septies, allo scopo di tutelare il destinatario, per salvaguardarne, cioè, il diritto al riposo in una fascia oraria (id: dalle 21 alle 24) in cui egli sarebbe stato, altrimenti, costretto a continuare a controllare la propria casella di posta elettronica. Ciò giustifica la fictio iuris, contenuta nella seconda parte della norma in esame, per cui il perfezionamento della notifica, effettuabile dal mittente fino alle ore 24, è differito, per il destinatario, alle ore 7 del giorno successivo. Ciò, invece, non giustifica una corrispondente limitazione nel tempo degli effetti giuridici della notifica nei riguardi del mittente: a questi, infatti, verrebbe impedito di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa, che l'art. 155 c.p.c. computa "a giorni" e che, nel caso di impugnazione, scade, appunto, allo spirare della mezzanotte dell'ultimo giorno.

In nuce, la S.C. ha ribadito inequivocabilmente che l'applicazione del principio espresso dalla Consulta ha il preciso effetto di far ritenere tempestivo l'appello del ricorrente in quanto notificato entro le ore 24:00 dell'ultimo giorno utile.

LE DIFFERENZE RETRIBUTIVE DEVONO ESSERE EROGATE AL LAVORATORE AL LORDO, NON SOLO DELLE RITENUTE FISCALI, MA ANCHE DELLA QUOTA CONTRIBUTIVA CARICO DELLO STESSO QUALORA IL DATORE DI LAVORO NON ABBIA TEMPESTIVAMENTE ADEMPIUTO ALL'OBBLIGO DEL VERSAMENTO CONTRIBUTIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18333 DEL 3 SETTEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18333 del 3 settembre 2020, ha (ri)statuito che l’accertamento e liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive deve essere effettuata al lordo, sia delle ritenute previdenziali che di quelle fiscali gravanti sul dipendente.

In particolare, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di un lavoratore che, avendo lavorato alle dipendenze di una società e non avendo percepito alcune mensilità di retribuzione e il TFR, aveva chiesto di essere ammesso al passivo del Fallimento della società datoriale.

Il giudice delegato aveva ammesso il credito al passivo, per un totale minore di quello richiesto.

La Corte di Cassazione ha affermato che l'accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo, oltre che delle ritenute fiscali, di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore, ove il datore di lavoro non abbia tempestivamente adempiuto all'obbligo di versamento contributivo perché in tal caso anche la quota gravante sul lavoratore resta a carico del datore, ex art. 19 della L. 218/52.

Infatti, se il datore di lavoro corrisponde tempestivamente all'ente previdenziale la quota contributiva a carico del lavoratore, può legittimamente operare la relativa trattenuta sulla retribuzione.

Qualora, invece, il datore di lavoro non corrisponde tempestivamente detta quota contributiva, la stessa rimane definitivamente a suo carico, con la conseguenza che il lavoratore rimane liberato dall'obbligazione contributiva per la quota a suo carico e il suo credito retributivo si espande fino a comprendere detta quota; dal che discende che l'intero credito, in sede fallimentare, segue nell'ordine dei privilegi la natura retributiva che gli è propria.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 21 Settembre 2020