23 Settembre 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI AGOSTO 2019

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Agosto 2019. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Agosto 2019 è pari a 1,808031 e l’indice Istat è 103,20.

L'ALTERCO SEGUITO DALLE "VIE DI FATTO" SI SOSTANZIA NEL RICORSO ALLA VIOLENZA ANCHE SOLTANTO TENTATA NEI CONFRONTI DI PERSONE E COSE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22636 DEL 10 SETTEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22636 del 10 settembre 2019, ha statuito, in tema di licenziamento disciplinare che le cosiddette "vie di fatto" conseguenti l'alterco si realizzano anche se l'atto violento sia soltanto tentato e non compiuto in effettivo.

Nel caso de quo, un lavoratore veniva licenziato per giusta causa al termine del relativo procedimento disciplinare, ai sensi dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 69 del Ccnl Unionmeccanica, in quanto si era reso autore di episodi di grave insubordinazione, violenza, minacce e distruzione di beni aziendali. Tali episodi erano consistiti, secondo la contestazione disciplinare, nell'aver aggredito il capo ufficio verbalmente e anche in modo fisico, brandendo un bastone ma poi fermato per l'intervento di altri dipendenti e, in un'altra occasione, con l'aggressione verbale fin dentro l'ufficio dello stesso capo ufficio, ove aveva lanciato il cordless aziendale contro il muro, distruggendolo.

Il Tribunale di Alessandria respingeva la domanda proposta dal lavoratore volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento e, parimenti, la Corte di Appello di Torino confermava che la condotta, per la sua gravità, integrava la sanzione del licenziamento come previsto dall'art. 69 del Ccnl che contempla "gli alterchi con vie di fatto, ingiurie, disordini, risse o violenze…".

Non dello stesso avviso il lavoratore che ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, sostenendo che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto sussumibile la fattispecie concreta in quella prevista dal citato art. 69 del Ccnl, ovvero dell'alterco seguito da vie di fatto. Invero, a parere del lavoratore, la fattispecie occorsa non era connotata dalla gravità, in quanto le vie di fatto non si erano concretizzate e quindi avrebbe potuto essere sanzionata con una mera sospensione dal lavoro.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso condividendo l'operato dei Giudici di merito.

La Corte territoriale, hanno argomentato gli Ermellini, ha correttamente inquadrato il comportamento del lavoratore nelle ipotesi contenute nell'art. 69 del Ccnl applicato; per "alterco", hanno continuato gli Ermellini, invero, "deve intendersi qualsiasi discussione, o litigio, animata e scomposta tra due persone; se connotato dalla cd. "vie di fatto", invece occorre che tale diverbio sia stato caratterizzato da un ricorso alla violenza, intesa come estrinsecazione di energia fisica trasmodante in un pregiudizio fisico, anche tentato, verso una persona o una cosa, ad opera di un uomo".

Nella fattispecie, l'avere il dipendente brandito un bastone, fermato dall'intervento di altri dipendenti, e l'avere distrutto un telefono aziendale lanciandolo contro il muto, rappresenta senza dubbio un comportamento violento concretante le cd. vie di fatto e non un contegno meramente minaccioso che non è mai connotato dal pregiudizio fisico.    

 

SE IL DATORE DI LAVORO NON DA’ DIMOSTRAZIONE DELLA PROPRIA ADESIONE ALLA ASSOCIAZIONE SINDACALE FIRMATARIA NON PUÒ APPLICARE IL RELATIVO CONTRATTO.

CORTE DI CASSAZIONE- SENTENZA N. 22367 DEL 6 SETTEMBRE 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22367 del 6 settembre 2019, ha statuito che deve essere reintegrato il lavoratore licenziato per superamento del comporto, qualora il CCNL conforme all’attività economica svolta dall’impresa, preveda un periodo di conservazione del posto più lungo rispetto al contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro, che deve essere, pertanto, disapplicato se l'Azienda non dimostra  di essere iscritta all'associazione firmataria  del CCNL  che afferma di applicare.

Nel caso in specie, un lavoratore impugnava il proprio licenziamento per superamento del periodo di comporto nei confronti di una s.r.l.  che si occupava di distribuzione commerciale, chiedendone l'illegittimità e la successiva reintegra e risarcimento come sancito dall'art.18 1egge 300/70.

In entrambi i gradi di giudizio di merito veniva accolta e confermata la domanda proposta dal lavoratore nei confronti della società volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto con gli effetti reintegratori e risarcitori sanciti dall’art. 18 legge 300/70 nella versione di testo pro tempore vigente.

In particolare, la Corte territoriale d’appello, aveva confermato la decisione del  primo Giudice il quale aveva ritenuto inapplicabile alla fattispecie il contratto collettivo del settore terziario Confcommercio, che prevedeva un periodo di comporto pari a 180 giorni,  non avendo la società dato prova dell’adesione alla suddetta sigla sindacale, e aveva accolto invece la proposta  del lavoratore  sulla  applicabilità del contratto collettivo Confail Confimea,  che prevedeva un  periodo di comporto di 365 giorni.

Orbene, gli Ermellini, con la sentenza de qua, nel respingere il ricorso della società hanno convalidano la decisione  di secondo grado  ricordando  innanzitutto il seguente principio di legittimità in base al quale “i contratti collettivi di lavoro non dichiarati efficacierga omnes” ai sensi della legge 14 luglio 1959 n. 741, costituendo atti di natura negoziale e privatistica, si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti, ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano fatto espressa adesione ai patti collettivi e li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti” (vedi Cass. n. 10632 dell’8/5/2009).

Ancora, i Giudici di Piazza Cavour, nelle proprie motivazioni hanno ricordato che, “ove una delle parti faccia riferimento, per la decisione della causa, ad una clausola di un determinato contratto collettivo di lavoro, non efficace “erga omnes”, in base al rilievo che a tale contratto entrambe le parti si erano sempre ispirate per la disciplina del loro rapporto, il Giudice del merito ha il compito di valutare in concreto il comportamento posto in essere dal datore di lavoro e dal lavoratore, allo scopo di accertare, pur in difetto della iscrizione alle associazioni sindacali stipulanti, se dagli atti siano desumibili elementi tali da indurre a ritenere ugualmente sussistente la vincolatività della contrattazione collettiva invocata” (Cass. 3/8/2000 n. 10213).

Pertanto, hanno concluso i Giudici delle Leggi, i Giudici del gravame hanno ben proceduto ai doverosi accertamenti, verificando che non era stata data dalla società, dimostrazione della propria adesione alla associazione Confcommercio, e neanche l'utilizzo degli istituti contrattuali propri del CCNL Confcommercio  nel calcolo delle buste paga  poteva essere considerato "comportamento concludente" in mancanza dell'adesione esplicita e della produzione in atti del  testo ufficiale del Contratto a cui fare riferimento .

Per le motivazioni suddette il ricorso è stato rigettato con relativa condanna delle spese di giudizio a carico della società.

 

IL SOCIO AMMINISTRATORE È OBBLIGATO AD ISCRIVERSI ALLA GESTIONE PREVIDENZIALE INPS DEI COMMERCIANTI SOLO SE SVOLGE ATTIVITÀ MATERIALE NELL’AZIENDA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21295 DEL 9 AGOSTO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21295 del 9 agosto 2019, ha statuito che per l’amministratore unico di una società affinché scatti l’obbligo della iscrizione alla gestione previdenziale INPS dei commercianti, è necessario che lo stesso svolga attività materiale ed esecutiva nell’impresa. In caso contrario, se riceve soltanto un compenso come amministratore unico, è tenuto ad iscriversi soltanto alla gestione separata INPS.

All’uopo, si ricorda che in base alla Legge 122/2010, il socio di S.r.l. che ne sia amministratore e che svolga nella società attività (anche di mero tipo organizzativo e direttivo), risulta obbligato, sia all’iscrizione alla gestione separata INPS, che alla gestione INPS commercianti ed al versamento sia dei contributi sui compensi eventualmente percepiti come amministratore che dei contributi sull’utile figurativo (o comunque del contributo minimale annuo).

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno riconosciuto piena legittimità alle due precedenti sentenze di merito che avevano dato ragione ad un commerciante che si era opposto alla richiesta dell’INPS della doppia contribuzione commercianti-gestione separata, ricostruendo l’evoluzione normativa e della giurisprudenza esistente in materia.

In particolare, gli Ermellini hanno ricordato che dapprima la giurisprudenza di legittimità, con la sentenza sez. UU. n. 3240/2010 aveva ritenuto che, nel concorso tra attività operativa e posizione di amministratore, al socio amministratore di s.r.l. si applicasse l’obbligo di iscrizione in un’unica gestione, identificata in quella relativa all’attività prevalente, la cui identificazione era onere dell’INPS. Successivamente, però, l'articolo 12, comma 11, del decreto legge 78/2010, convertito nella legge 122/2010, ponendosi come norma di interpretazione autentica, ha stabilito che, in tale situazione non si applica l'unicità dell'iscrizione. In sostanza, a fronte di un'attività di lavoro autonomo che richiede l'iscrizione alla gestione separata, può coesistere l'iscrizione a un'altra gestione. Tale soluzione ha trovato l’avallo anche della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 15/2012, ha riconosciuto la legittimità costituzionale della norma di interpretazione autentica in riferimento all’art. 3 Cost., art. 24 Cost., comma 1, art. 102 Cost., art. 111 Cost., comma 2, e art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

Infine i Giudici delle Leggi hanno evidenziato come la regola espressa dalla norma interpretativa autentica di cui sopra (D.L. n. 78 del 2010, art. 12, comma 11) è nel senso che l’esercizio di attività di lavoro autonomo, soggetto a contribuzione nella Gestione separata, che si accompagni all’esercizio di un’attività di impresa commerciale, artigiana o agricola, la quale di per sé comporti l’obbligo dell’iscrizione alla relativa gestione assicurativa presso l’INPS, non è regolato dal principio dell’attività prevalente, e che spetta al Giudice di merito di volta in volta constatare se ci siano i requisiti per una doppia iscrizione previdenziale e, per verificare se ci sono collaborazione e ingerenza abituale dell'amministratore nell'ambito produttivo della società, si devono tener presenti elementi quali “la complessità o meno dell'impresa, l'esistenza o meno di dipendenti e/o collaboratori, la loro qualifica e le loro mansioni”.

Per le motivazioni suddette il ricorso dell’istituto previdenziale è stato rigettato dalla Corte suprema, con compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

NON C’E’ REATO SE IL MANCATO PAGAMENTO DEI CONTRIBUTI E’ DETERMINATO DAL FALLIMENTO DEI PRINCIPALI CLIENTI DELL’IMPRENDITORE E CHE QUESTI DIMOSTRI LA SUA VOLONTA’ DI FAR FRONTE ALLE OBBLIGAZIONI ANCORCHE’ SENZA RIUSCIRCI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 36278 DEL 21 AGOSTO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 36278 del 21 agosto 2019, ha statuito che non si può condannare l'imprenditore che non provvede a versare i contributi previdenziali senza considerare che i suoi pochi clienti importanti sono falliti e per la sua azienda non c’è altra soluzione che il concordato preventivo e la dichiarazione d'insolvenza.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno evidenziano che l'imputato imprenditore, nel caso in esame, non si era limitato a lamentare una semplice crisi di liquidità, ma – ex adevrso – una vera e propria impossibilità assoluta ad adempiere, avendo dato ampia dimostrazione che la debacle societaria gli avrebbe fatto rimettere finanche la propria abitazione offerta in garanzia per un finanziamento finalizzato al pagamento delle obbligazioni sociali.

Per i Giudici di piazza Cavour, il ricorso dell'imputato va accolto in toto contro le conclusioni del sostituto Procuratore Generale, che ne chiedeva addirittura l'inammissibilità, ancorché per compiere il reato di omissione contributiva è sufficiente il dolo generico, ovvero la coscienza e la volontà di non effettuare i versamenti all'Inps. Infatti, se i conti sono in rosso, quando arriva il giorno di paga il datore di lavoro deve ripartire i soldi disponibili in modo da adempiere prima l'obbligo previdenziale, a costo di non corrispondere gli stipendi per intero.

In nuce, per la S.C., è del tutto inadeguata la motivazione della Corte d'Appello che si era limitata a richiamare la giurisprudenza di legittimità sul dolo generico relativo al debito verso l'Inps per oltre 93 mila euro, non avendo -invece- valutato elementi che avrebbero potuto incidere sul profilo psicologico della condotta. Nel caso specifico, la ditta operava in un settore particolare come l'installazione di impianti di telecomunicazioni, e che il fallimento delle committenti principali aveva fatto precipitare la piccola azienda nel baratro, donde l’assoluzione dal reato.

 

LA VIOLAZIONE DEI CRITERI DI SCELTA LEDE IL DIRITTO DI INFORMAZIONE E CONSULTAZIONE E RENDE IL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO.  

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22366 DEL 6 SETTEMBRE 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22366 del 6 settembre 2019, ha statuito che la violazione dei criteri di scelta determina l’impossibilità di inserire il lavoratore nell’elenco dei licenziati.

La Corte d'Appello di Napoli, in riforma del Tribunale di Torre Annunziata, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato e, per l’effetto, condannava la società alla reintegrazione del lavoratore, oltre al pagamento dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 1, comma 46, Legge 92/2012.

I Giudici distrettuali rilevavano, infatti, che le comunicazioni inviate ai lavoratori e alle OO.SS. non indicavano in alcun modo i criteri di scelta del personale licenziato, circostanza che escludeva l’ipotesi – paventata dalla società – di un mero vizio di procedura, le cui conseguenze sarebbero state prettamente indennitarie.

Gli Ermellini, in ultima istanza, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di secondo grado, hanno ricordato il ruolo fondamentale che riveste il diritto d’informazione e consultazione, diritto oggi elevato a rango di diritto fondamentale dell’Unione Europea. Peraltro, tali violazioni impediscono al sindacato di porre in essere il controllo di legittimità.

In conclusione, la violazione dei criteri di scelta rende illegittimo il licenziamento, mentre una violazione degli obblighi procedurali rende efficace il licenziamento del lavoratore. 

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

Condividi:

Modificato: 23 Settembre 2019