9 Ottobre 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

E' ONERE DEL DATORE DI LAVORO DIMOSTRARE LA SUSSISTENZA DELLA GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23055 DEL 3 OTTOBRE 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23055 del 3 ottobre 2017, ha (ri)statuito che nel licenziamento del dipendente per giustificato motivo oggettivo grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare la sussistenza delle motivazioni poste a fondamento dell'atto di recesso.

Nel caso de quo, una lavoratrice veniva licenziata perché non in possesso del titolo di “operatrice socio-sanitaria”. Tale requisito era divenuto indispensabile a seguito di apposita legge emanata dalla Regione Calabria che concedeva due anni di tempo ai lavoratori dipendenti per adeguarsi o, quantomeno, per iscriversi ad apposito corso di formazione.

La prestatrice adiva la Magistratura evidenziando che altri lavoratori della medesima azienda, nella sua stessa situazione di empasse, creatasi a seguito della normativa regionale, non erano stati destinatari di alcun provvedimento espulsivo.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione sostenendo che gli altri dipendenti avevano fornito, perlomeno, la prova dell'avvenuta iscrizione ad apposito corso di formazione entro due anni dall'emanazione della normativa de qua.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno (nuovamente) evidenziato che, nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo grava esclusivamente sul datore di lavoro l'onere di fornire prova incontrovertibile della sussistenza delle motivazioni poste a fondamento dell'atto di recesso non potendosi in alcun modo “invertire” l'onere della prova richiedendo al prestatore la dimostrazione di fatti non inerenti la propria sfera lavorativa.  

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il datore di lavoro non aveva fornito alcuna dimostrazione della mancanza dei titoli della lavoratrice, ed ancor più non aveva fornito prova dell'avvenuta iscrizione agli appositi corsi di formazione da parte degli altri dipendenti, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno respinto il ricorso confermando l'illegittimità dell'atto di recesso datoriale.

 

SOLO IN CASO DI CESSAZIONE DELL'ATTIVITA' DELL'INTERA AZIENDA E' POSSIBILE IL COLLOCAMENTO IN MOBILITA' DELLA LAVORATRICE MADRE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22720 DEL 28 SETTEMBRE 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22720 del 28 settembre 2017, ha (ri)confermato, in tema di licenziamento della lavoratrice durante il periodo di gravidanza e fino al compimento di un anno di età del figlio, che il divieto ex art. 54, comma 3, lett. b) del D.Lgs. n° 151/2001 prevede la sola eccezione nei casi di cessazione dell'attività dell'azienda.

Nel caso de quo, una lavoratrice era stata licenziata durante il periodo di gravidanza, all’esito di una procedura di licenziamento collettivo, avviata per chiusura del solo reparto contact center, dotato di autonomia funzionale, cui era adibita la stessa dipendente. La Corte d'Appello di L'Aquila, confermando la decisione di primo grado, aveva dichiarato l'inefficacia del licenziamento e condannato la società datrice a corrispondere, in luogo della reintegrazione, l'indennità sostitutiva pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto ed ulteriori 5 mensilità a titolo di risarcimento del danno.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice invocando la condizione della cessazione dell'attività di azienda, posto che erano stati licenziati a seguito di procedura di mobilità, tutti i dipendenti del reparto in questione, tra i quali si trovava adibita la lavoratrice in questione.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo l'attuale contenuto della seconda parte del comma 4, art. 54 del D.Lgs. n° 151/2001 che recita: "La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della Legge 23 luglio 1991, n° 223, e successive modificazioni, salva l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito di cessazione dell'attività dell'azienda di cui al comma 3, lett. b)". Il tenore testuale della norma, hanno continuato gli Ermellini, prevede la non applicabilità del divieto di licenziamento nella sola ipotesi di cessazione dell'attività dell'azienda alla quale la lavoratrice è addetta; pertanto, trattandosi di norma che pone un'eccezione ad un principio di carattere generale, essa non può che essere di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica, ne consegue che, per la non applicabilità del divieto, devono ricorrere due condizioni, ovvero che il datore di lavoro sia un'azienda, e che vi sia stata cessazione dell'attività.

 

IL SOCIO ACCOMANDANTE RISPONDE PER INFEDELE DICHIARAZIONE ANCHE SE NON SI OCCUPA DELLA GESTIONE DELLA SAS

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 22011 DEL 21 SETTEMBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 22011 del 21 settembre 2017, ha statuito che il socio accomandante risponde per infedele dichiarazione anche se non si occupa della gestione della SAS.

IL FATTO

La controversia sottoposta al vaglio di legittimità riguardava un avviso di accertamento emesso a carico di una s.a.s. e divenuto definitivo per mancata impugnazione nei termini. Dalla rettifica operata nei riguardi della società sono scaturiti poi degli accertamenti di maggior reddito nei riguardi dei soci, in quanto l’Ufficio provvedeva ad imputare “per trasparenza” il maggior reddito (art. 5 TUIR).

La giustizia tributaria di merito, sia in primo grado che secondo, provvedeva, su ricorso dei soci, ad annullare le sanzioni a carico del socio accomandante.

In particolare la C.T.R. aveva ritenuto che al socio accomandante “non fosse imputabile alcun coefficiente di dolo o colpa per il maggior reddito accertato in capo alla società e, quindi, non le dovessero essere addebitate le sanzioni previste, poiché l’omesso controllo non sarebbe dipeso da negligenza o complicità ma nella comprensibile fiducia nell’agire dei suoi familiari, anch’essi soci nei quali era concentrato il potere gestionale, al quale era estranea, anche per formazione professionale”.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Ebbene, con la sentenza de qua, i Giudici delle Leggi, nell’accogliere in toto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, hanno disposto la cassazione senza rinvio della sentenza d’appello.

In particolare, i Giudici di Piazza Cavour, uniformandosi al principio di diritto esistente in giurisprudenza, hanno ricordato che, “il maggior reddito risultante dalla rettifica operata nei confronti di una società di personereddito che, a norma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 579, art. 5, va imputato al socio (come proprio di questo) ai fini dell'IRPEF (non essendo la società di persona soggetto passivo dell'imposta sul reddito), in proporzione della relativa quota di partecipazionecomporta anche l'applicazione allo stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione prevista dal D.P.R. 600/73, art. 46. Ciò vale anche per il socio accomandante di società in accomandita semplice, essendo irrilevante l'estraneità di tali soci all'amministrazione della società, in quanto ad essi è sempre consentito di verificare l'effettivo ammontare degli utili conseguiti: la sanzione, quindi, non viene irrogata all'accomandante sulla base della mera volontarietà, in contrasto con l'elemento della colpevolezza introdotto dal D.Lgs. 472/97, art. 5 in quanto, nel suo caso, la colpa consiste nell'omesso od insufficiente esercizio del potere di controllo sull'esattezza dei bilanci della società, ai sensi dell'art. 2320 cod. civ.”.

Infine, relativamente all’elemento sanzionatorio, i Giudici del Palazzaccio  hanno evidenziato che “ove il socio di società di persone non abbia dichiarato, per la parte di sua spettanza, il reddito societario risultante dalla rettifica operata dall'amministrazione a carico della società risponde delle sanzioni per l'infedele dichiarazione, atteso che la loro applicazione trova causa nella dichiarazione di un reddito inferiore a quello imponibile e che il socio non può farsi scudo della società, attribuendo esclusivamente ad essa la violazione fiscale, atteso che la sua posizione nell'ambito della compagine sociale, tanto nel caso in cui non rivesta la carica di amministratore, quanto, a maggior ragione, qualora la rivesta, gli consente il controllo dell'attività della società e della sua contabilità e, quindi, di verificare l'effettivo ammontare del suo reddito e, pertanto, degli utili conseguiti in proporzione alla propria quota di partecipazione.” (Cass. n. 10501/14, Cass. n. 22122/10).

 

PER LA CASSAZIONE NON È PREVISTO IL RADDOPPIO DEI TERMINI AI FINI IRAP TRATTANDOSI DI FATTISPECIE NON RILEVANTE PENALMENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 20435 DEL 25 AGOSTO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 20435 del 25 agosto 2017, ha statuito che è illegittimo emettere un avviso di accertamento IRAP oltre i termini ordinari, in quanto, non essendo previste per tale imposta delle sanzioni penali, in relazione alla stessa non può operare la disciplina relativa al raddoppio dei termini, vigente solamente a condizione che la violazione comporti un obbligo di denuncia penale, per uno dei reati contemplati dalla legge n.74/2000.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, ribaltando parzialmente la sentenza della CTR della Lombardia, accoglievano le doglianze proposte da un contribuente nei confronti dell’Agenzia delle Entrate per un avviso di accertamento IRAP, IRES, IRPEF e IVA relativo al 2004.  Nella disciplina previgente, il presupposto per il raddoppio termini veniva inizialmente circoscritto nell’individuazione di condotte da cui scaturiva l’obbligo di presentazione di denuncia penale ovvero nell’effettiva presentazione della stessa, per uno dei reati tributari di cui alla Legge n.74/2000. Tali reati, tuttavia, non contemplavano l’imposta regionale sulle attività produttive (id: IRAP); anche se, nella maggior parte degli accertamenti emessi con il raddoppio termini, aventi a oggetto il recupero delle imposte dirette, veniva recuperata anche l’imposta Irap, insieme alle altre. Per la S.C., tale condotta accertativa è illegittima, poiché le violazioni Irap non avevano rilevanza penale e dalle stesse non poteva scaturire alcun obbligo di denuncia.

In nuce, per i Giudici del Palazzaccio, il raddoppio dei termini non è mai applicabile alle contestazioni per l’imposta IRAP. Ciò in quanto le violazioni per l’imposta de qua non possono generare ipotesi delittuose. I reati tributari riguardano infatti esclusivamente le imposte dirette e l’Iva.

 

IL LAVORATORE HA L’OBBLIGO DI COMUNICARE IL CAMBIO DI INDIRIZZO DOVENDOSI RITENERE IN DIFETTO OPERANTE IL PRINCIPIO RECATO DALL’ART. 1335 C.C. PER LE NOTIFICHE ESGUITE PRESSO IL VECCHIO INDIRIZZO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22295 DEL 25 SETTEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22295 del 25 settembre 2017, ha statuito che il lavoratore è obbligato a comunicare la variazione del proprio indirizzo; in mancanza le comunicazioni inviate presso il vecchio indirizzo si considerano efficacemente notificate, applicandosi il principio recato dall’art. 1335 c.c..

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Napoli, a conferma della sentenza emessa dal Tribunale di Nola, riteneva illegittimo un licenziamento comminato ad una lavoratrice presso il vecchio indirizzo, e quindi, fuori termine la successiva comunicazione inviata dall’azienda presso il nuovo indirizzo della medesima. 

I Giudici dell’Appello motivavano la loro decisione basandosi sul presupposto che la lavoratrice avesse assolto all’obbligo di comunicazione del nuovo domicilio mediante la comunicazione effettuata a giugno 2007 per esplicitare l’opzione di mantenimento in azienda del T.F.R..

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno invece ritenuto fondate le motivazioni poste a base del ricorso dell’Azienda, in quanto il CCNL Metalmeccanici applicato dall’azienda impone l’obbligo di presentazione di un certificato di residenza all’atto dell’assunzione e per i successivi mutamenti di residenza e domicilio.

In concreto, non può ritenersi assolto idoneamente l’obbligo di comunicazione del cambio di domicilio attraverso una scelta di destinazione del TFR. Quindi, la prima comunicazione di recesso inviata al vecchio indirizzo è stata ritenuta efficace, non avendo la lavoratrice comunicato la variazione secondo quanto previsto dall’art. 23 del citato CCNL.    

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 9 Ottobre 2017