1 Ottobre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LEGITTIMO IL RICORSO AD INVESTIGATORI PRIVATI PER VERIFICARE CHE IL CONGEDO STRAORDINARIO VENGA REALMENTE UTILIZZATO PER LE FINALITA’ PREVISTE DALLA NORMA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 22196 DEL 12 SETTEMBRE 2018

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 22196 del 12 settembre 2018, ha nuovamente statuito che il datore di lavoro può ricorrere ad investigatori privati per verificare il comportamento del lavoratore che non abbia a che fare con il corretto espletamento della prestazione lavorativa.

Nel caso di specie, una dipendente veniva licenziata poiché, durante un periodo di assenza dal lavoro per fruire del congedo straordinario, dimorava in una località diversa da quella del parente, affetto da grave handicap, per il quale aveva richiesto di fruire del congedo stesso. L’azienda datrice di lavoro acquisiva prova del non corretto utilizzo del congedo straordinario grazie all’attività di investigatori privati.

La dipendente licenziata adiva la Magistratura restando soccombente in entrambi i gradi di merito.

Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum di prime cure, hanno nuovamente evidenziato che il datore di lavoro può utilizzare investigatori privati al fine di verificare la correttezza del comportamento dei dipendenti escluso il regolare adempimento della prestazione lavorativa. Inoltre, i Giudici di Piazza Cavour hanno evidenziato che il congedo straordinario ha la finalità di consentire la corretta assistenza a persone affette da grave handicap e l’utilizzo distorto di tale strumento di “giustizia sociale” può ben costituire valida ragione di licenziamento.

Pertanto, atteso che nel caso de quo il datore di lavoro aveva fornito prova certa ed incontrovertibile dell’uso distorto del congedo straordinario, atteso che la prestatrice dimorava in località distinta da quella in cui si trovava la persona affetta da handicap, i Giudici del Palazzaccio hanno confermato la piena legittimità dell’atto di recesso datoriale.

 

NEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO L'INDICAZIONE CONTRATTUALE DELLA CAUSALE DEVE COINCIDERE CON IL MOTIVO DELL'ASSUNZIONE A TERMINE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22188 DEL 12 SETTEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22188 del 12 settembre 2018, ha statuito, in tema di legittimità del contratto a termine, in ordine alle previsioni legislative vigenti ex art. 1 D.Lgs. 368/2001, che il lavoratore assunto debba essere effettivamente adibito all’adempimento di prestazioni funzionali al raggiungimento delle esigenze aziendali dedotte in contratto.

Nel caso de quo, relativo ad una assunzione a termine, – effettuata in vigenza del D.Lgs. 6 settembre 2001 n° 368 che condizionava la valida apposizione di un termine di durata al contratto di lavoro subordinato alla presenza di "ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo" – la Corte di Appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato la illegittimità del termine apposto, considerato che il richiamo della società datrice alle motivazioni per l'apposizione del termine, riguardanti l'abbrivio di un "progetto di gestione ottica documentale", non avevano dimostrato il diretto rapporto causale con l'impiego della lavoratrice che, di fatto, era stata adibita a mansioni in precedenza svolte da altri lavoratori in altri ambiti aziendali.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società duolendosi circa l'errata interpretazione del contratto e soprattutto affermando che la lavoratrice era stata utilizzata per sopperire a temporanee carenze del personale "ordinario" impegnato nella fase di sperimentazione del nuovo sistema di gestione dei documenti.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso precisando che il datore di lavoro, in tema di assunzioni a termine ex art. art. 1 D.Lgs. 368/2001, ha l'onere di specificare in apposito atto scritto, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive, ossia le esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificano l'apposizione del termine finale. Dai principi enunciati, hanno continuato gli Ermellini, risulta altresì essenziale anche la diretta utilizzazione del lavoratore nell'ambito e nelle attività indicate in sede contrattuale. Tale ultimo requisito difettava nel caso in specie essendo stata, la lavoratrice, adibita a mansioni non direttamente afferenti al progetto indicato nel contratto.

La sentenza risulta quanto mai attuale in relazione alla reviviscenza del meccanismo delle causali applicabili al contratto a termine dopo i primi 12 mesi, ad opera del decreto legge 12 luglio 2018, n° 87 (c.d. “decreto dignità”) in ordine alla completezza e specificità delle causali, nonché, alla loro effettiva sussistenza.  

 

E' OBBLIGATORIA L'ISCRIZIONE ALLA GESTIONE COMMERCIANTI DELL'INPS PER L'AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO CHE SVOLGE L'ATTIVITA' IN FORMA SOCIETARIA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21900 DEL 7 SETTEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21900 del 7 settembre 2018, ha statuito che l'attività di amministrazione di condomini sotto forma societaria, comporta l'obbligo di iscrizione dell'amministratore e socio d'opera.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Venezia aveva accolto le impugnazioni dell'Inps nella causa avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Vicenza aveva accolto le opposizioni alle cartelle esattoriali concernenti l'intimazione di pagamento di contributi dovuti alla Gestione Commercianti in relazione all'attività di amministratore di condominio, svolta da un contribuente in qualità di amministratore di società in nome collettivo della quale era socio unitamente alla moglie.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'amministratore di condomini deducendo la violazione e falsa applicazione della L. 23 dicembre 1996, n°662, art. 1, commi 202 e 203, e dolendosi dell'errata individuazione, da parte della Corte di merito, assumendo che quella da lui svolta di amministratore di condomini non aveva natura commerciale, ma carattere professionale ed intellettuale, a prescindere dalla forma individuale o societaria del suo espletamento, e che, inoltre, la stessa Corte aveva male applicato ed interpretato i requisiti dell'abitualità e della prevalenza.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ribadendo che per quel che concerne la gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali e del terziario, la disciplina è stata modificata dalla L. 23 dicembre 1996, n° 662, art. 1, comma 203 che prevede l'obbligo di iscrizione per i soggetti che siano in possesso dei seguenti requisiti:

a) siano titolari o gestori in proprio di imprese che, a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia, ivi compresi i parenti e gli affini entro il terzo grado, ovvero siano familiari coadiutori preposti al punto di vendita;

b) abbiano la piena responsabilità dell'impresa ed assumano tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione. Tale requisito non e' richiesto per i familiari coadiutori preposti al punto di vendita nonché per i soci di società a responsabilità limitata;

c) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza;

d) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri e ruoli.

Gli Ermellini hanno altresì evidenziato, avvalorando la tesi della Corte territoriale, che l'attività del contribuente non si era limitata allo svolgimento di opera professionale a carattere intellettuale, ma era stata svolta in forma imprenditoriale attraverso la società collettiva di cui egli era amministratore e socio, come evidenziato dal dato che era la società ad assumere gli incarichi relativi all'amministrazione di condomini e ad emettere le fatture riferite a tale attività, a nulla rilevando che la società fosse di modeste dimensioni, in quanto composta dall'appellato e dalla moglie, e che non avesse dipendenti, in quanto tali circostanze non escludevano che l'attività fosse stata espletata da quest'ultimo attraverso il complesso organizzato dei beni sociali e attraverso il distinto soggetto giuridico costituito dalla società commerciale.

Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini, il contribuente non era stato mai iscritto alla gestione separata, per cui non si poneva neppure la questione di una ipotetica doppia iscrizione e dagli accertamenti non contestati era emerso che l'attività della società era organizzata prevalentemente col lavoro proprio del contribuente, il quale partecipava al lavoro aziendale con i caratteri dell'abitualità e della prevalenza, essendo, tra l'altro, pensionato e non svolgendo altre attività soggette a diverse forme di contribuzione.

 

LA PENSIONE DI INVALIDITÀ E TUTTE PRESTAZIONI NON AVENTI CARATTERE CONTRIBUTIVO SPETTANO ESCLUSIVAMENTE AI RESIDENTI IN ITALIA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 21901 DEL 7 SETTEMBRE 2018

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 21901 del 7 settembre 2018, ha statuito che la pensione di invalidità civile è dovuta solo al cittadino residente all'interno del territorio nazionale Italiano, in quanto l'art. 10-bis, c. 1, del Regolamento CEE n. 1247/1992  non consente di esportare in ambito comunitario le prestazioni speciali in denaro, sia assistenziali che previdenziali, non aventi carattere contributivo, erogabili pertanto esclusivamente nello Stato membro ove gli interessati risiedono.

I Giudici di piazza Cavour, con l’ordinanza de qua, hanno accolto le doglianze dell’INPS avverso la sentenza dei Giudici Territoriali che aveva stabilito la sua condanna a erogare la pensione di invalidità civile agli eredi dell'interessato. In particolare, i Giudici di Prime cure, avevano respinto le eccezioni con cui l'Istituto rilevava la mancata residenza in Italia del presunto avente diritto, in quanto risultava provato e non contestato che per diversi anni, fino alla sua morte, questi aveva risieduto all'estero. Secondo l'INPS, infatti, l'interessato e i suoi eredi per lui, peraltro tutti residenti all'estero, non avrebbero avuto titolo per pretendere il pagamento dei ratei di pensione di invalidità per il periodo indicato, essendo la residenza sul territorio dello Stato un requisito costitutivo del diritto alla provvidenza richiesta.

La S.C. ha, dunque, evidenziato come la disciplina comunitaria in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale contempla un principio per cui le prestazioni speciali in denaro, sia assistenziali che previdenziali, ma non aventi carattere contributivo, sono erogate solo nello Stato membro in cui i soggetti interessati risiedono e ai sensi della sua legislazione, e dunque non sono esportabili negli Stati membri dell'Unione europea. In Italia, a solo titolo esemplificativo, rientrano tra le prestazioni inesportabili: le pensioni sociali; le pensioni, gli assegni e le indennità ai mutilati ed invalidi civili; le pensioni e le indennità ai sordomuti; le pensioni e le indennità ai ciechi civili; l'integrazione della pensione minima; l'integrazione dell'assegno di invalidità; l'assegno sociale; la maggiorazione sociale.

In nuce, gli Ermellini, confermando il proprio orientamento espresso in una propria recente sentenza n.7914/2017, e in virtù del principio contemplato dall'art. 10-bis, comma 1, del Regolamento CEE n. 1247 del 1992, hanno ribadito che le prestazioni speciali in denaro, sia assistenziali che previdenziali, ma non aventi carattere contributivo non sono in alcun modo esportabili in ambito comunitario, e sono erogate esclusivamente nello Stato membro in cui i soggetti interessati risiedono ai sensi della sua legislazione.

 

IL FATTO CONTESTATO PRIVO DI ILLEICITA’ E’ ASSIMILATO ALL’INSUSSISTENZA DEL FATTO CONTESTATO CON CONSEGUENTE REINTEGRA NEL POSTO DI LAVORO 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22380 DEL 13 SETTEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22380 del 13 settembre 2018, ha statuito che il fatto sussistente ma privo di illiceità è assimilato all’insussistenza del fatto, con conseguente reintegra nel posto di lavoro, ex art. 18 comma 4 della legge 300/70.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Brescia, in linea con del Tribunale di Brescia, accertava l’illegittimità del licenziamento e condannava la società alla reintegra nel posto di lavoro. Alla lavoratrice veniva contestato di aver lasciato € 1.500 nel suo armadietto per alcuni giorni, senza riporli nella cassetta di sicurezza e sottacendo la cosa agli ispettori. Secondo l’azienda lo aveva fatto con dolo per utilizzare il denaro per poi riporlo successivamente. Secondo la lavoratrice, i soldi li aveva dimenticati nel grembiule che aveva riposto nell’armadio e solo dopo due giorni rientrando dalle ferie si era accorta di averli ancora con se. Non aveva potuto depositarli subito perché la cassetta era chiusa. In concreto l’azienda non era stata in grado di dimostrare il dolo della lavoratrice, pur ritenendo la Corte il comportamento qualificabile come condotta colposa e quindi rientrante nelle ipotesi sanzionatorie conservative.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno rammentato che l’unico fatto che effettivamente risultava dimostrato, e anche contestato, è la mancata custodia del fondo cassa nella cassetta assegnata al dipendente, circostanza da cui è scaturito il licenziamento. E’ stata, dunque, esclusa l’intenzionalità di sottrarre denaro, ma dimostrato solo di aver avuto una condotta colposa disciplinarmente rilevante. Affinché una condotta possa essere ritenuta idonea a licenziare per giusta causa o giustificato motivo soggettivo bisogna sempre valutare gli elementi oggettivi e soggettivi del fatto, come il danno arrecato, l’intensità del dolo o il grado di colpa, precedenti disciplinari e così via, ovvero la proporzionalità della sanzione deve essere adeguata alla condotta in astratto (Legge e norme pattizie) e in concreto (elementi oggettivi e soggettivi). Quindi, non dimostrando l’azienda l’intenzionalità della lavoratrice, l’applicazione della sanzione espulsiva è illegittima.
In conclusione, ai fini della reintegra nel posto di lavoro di cui all’art. 18, comma 4, Legge 300/1970, il fatto sussistente ma privo di illiceità è assimilato all’insussistenza del fatto, con conseguente reintegra nel posto di lavoro.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 1 Ottobre 2018