13 Febbraio 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DELLA DIPENDENTE CHE INFORMA IL DATORE DI LAVORO DELLA SUA ASSENZA PER MALATTIA SOLO CON UN SEMPLICE SMS.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2630 DELL’1 FEBBRAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 2630 dell’1 febbraio 2017, ha statuito che é da ritenersi legittimo il licenziamento intimato alla dipendente che si assenta ripetutamente dal lavoro, in ultimo per uno stato di malattia comunicato, in prima battuta, solo con un breve messaggio di testo, inviato dal proprio cellulare, senza accertarsi che lo stesso sia stato regolarmente ricevuto dal datore di lavoro.

Nel caso de quo, una dipendente di una impresa artigiana di parrucchiera ed estetica, già destinataria di alcune contestazioni disciplinari per assenza ingiustificata dal lavoro, veniva licenziata in quanto non comunicava tempestivamente il proprio stato di malattia e la conseguente impossibilità ad eseguire la prestazione lavorativa. Nel corso del procedimento disciplinare, ex art. 7 della L. n° 300/70, la prestatrice si difendeva sostenendo di aver inviato un sms, al proprio datore di lavoro, per preavvisarlo dell'assenza, circostanza negata dal titolare dell'attività artigiana.

L'azienda procedeva ad intimare il licenziamento per giusta causa.

La dipendente, soccombente in entrambi i gradi di merito, ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che il comportamento della dipendente, particolarmente superficiale e poco attenta nel preoccuparsi dell'avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della sua assenza lavorativa per malattia, ben giustifica il recesso per giusta causa comportando il venir meno dell'affidamento futuro nel corretto adempimento della prestazione lavorativa.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina, la dipendente aveva inviato un breve messaggio di testo, dal proprio telefono cellulare, senza minimamente preoccuparsi della sua avvenuta ricezione da parte del datore di lavoro (il quale, infatti, sosteneva di non averlo mai ricevuto), i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno confermato la piena sussistenza della giusta causa di licenziamento essendo venuto meno il vincolo fiduciario fra le parti in riferimento alla possibilità della (futura) corretta esecuzione della prestazione lavorativa nell'eventuale prosieguo del rapporto contrattuale fra le parti.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DELLA LAVORATRICE MADRE CHE RIFIUTI IL TRASFERIMENTO DI SEDE AL RIENTRO IN SERVIZIO POST MATERNITA' SE IL DATORE DI LAVORO PREORDINATAMENTE ABBIA ASSUNTO PER LE MEDESIME MANSIONI ALTRO DIPENDENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3052 DEL 6 FEBBRAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3052 del 6 febbraio 2017, ha stabilito la legittimità del rifiuto ad adempiere la prestazione e la conseguente illegittimità del licenziamento intimato per opposizione al trasferimento sede se, al rientro da un'assenza per maternità, il datore di lavoro abbia assunto, per le medesime mansioni altro dipendente.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Firenze, uniformandosi al giudizio espresso dal Tribunale della stessa città, dichiarava la nullità del trasferimento disposto nei confronti di una lavoratrice, al rientro da un'assenza per maternità,  dalla sede di Firenze a quella di Milano e conseguentemente dichiarava illegittimo il licenziamento intimato in ragione del rifiuto ad adempiere la prestazione. In particolare, la Corte d'Appello riteneva che il trasferimento fosse stato preordinato all'espulsione della lavoratrice in ragione della condizione di maternità, considerato che la società datrice, quando ancora la lavoratrice era in astensione facoltativa, aveva assunto altro dipendente con identiche mansioni nel punto vendita ove era adibita la ricorrente, con contratto a tempo indeterminato, così provvedendo alla sua sostituzione.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice sostenendo la soppressione del posto di lavoro della lavoratrice che, invero, era stata sostituita da altro lavoratore con mansioni non perfettamente coincidenti.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso riconfermando le motivazioni espresse dalla Corte territoriale che obiettivamente aveva valorizzato il disegno complessivo aziendale nel quale il provvedimento di trasferimento si era inserito. Circostanze che, non confutate dalla società nella loro oggettività, erano di per sé idonee a dimostrare che il trasferimento era stato determinato dalla volontà di estromettere la lavoratrice. Il rifiuto della lavoratrice di prendere servizio, tenuto conto dello stato di famiglia della lavoratrice, madre di un figlio in tenera età, era pertanto giustificato secondo il principio inadimplenti non est adimplendum ex art. 1460 c.c..

 

PER LA CASSAZIONE LA CESSIONE DI QUOTE NON È RIQUALIFICABILE COME CESSIONE D’AZIENDA AI FINI DELL’IMPOSTA DI REGISTRO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 2054 DEL 27 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 2054 del 27 gennaio 2017, ha statuito che il contribuente può legittimamente scegliere a quale schema negoziale tipico far riferimento e, conseguentemente, applicare la disciplina prevista in tema di imposta di registro, anche se l’atto, da un punto di vista economico, ha i medesimi effetti di un altro contratto tipico; pertanto, l’Amministrazione Finanziaria non può riqualificare lo schema negoziale, limitandosi a valorizzare un collegamento funzionale tra gli atti tale da comportare un diverso effetto giuridico finale delle operazioni compiute.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, hanno accolto in toto le doglianze di una società che, dopo aver conferito un ramo d’azienda in due neocostituite società, successivamente, cedeva a soggetti terzi le sue quote nelle società in parola.  Gli atti posti in essere, venivano riqualificati e liquidati con una maggiore imposta di registro dall’Agenzia delle Entrate, che sosteneva come gli atti negoziali de quo erano stati posti in essere al solo scopo di cedere i due rami d’azienda.

Orbene, considerato che gli atti di conferimento di azienda e di cessione di quote scontano l’imposta di registro in misura fissa, al contrario della cessione di azienda, per la quale è invece prevista l’imposta di registro in misura proporzionale, veniva quindi liquidata una rilevante maggiore imposta per i due atti, oltre interessi e sanzioni.

In pratica, l’Agenzia delle Entrate aveva ricondotto ad unità una pluralità di atti, quali il conferimento d’azienda e successiva cessione di quote, tassandone l’effetto finale come cessione di ramo d’azienda, ex art.20 del DPR n.131/1986, richiamando l’effetto giuridico unitario dell’operazione.

Ex adverso, la S.C. ha ribadito che il tributo deve essere sempre applicato in relazione allo schema e alle conseguenze giuridiche che l’atto è idoneo a realizzare, non assumendo rilievo gli effetti economici. Ove venissero considerati elementi esterni si costruirebbe infatti una fattispecie imponibile estranea ai presupposti del citato art. 20 e il collegamento negoziale è evidentemente esterno all’atto.

 

L’IMMOBILE ACQUISTATO DALL’IMPRENDITORE PER USARLO AI FINI AZIENDALI DA’ COMUNQUE DIRITTO ALLA DETRAZIONE IVA QUANDO IL FABBRICATO È CLASSIFICATO IN CATASTO A USO ABITATIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 26748 DEL 22 DICEMBRE 2016

La Corte di cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 26748 del 22 dicembre 2016, ha statuito che il diritto alla detrazione dell’IVA non può essere negato in forza dell’astratta classificazione catastale dell’immobile a uso abitativo, occorrendo valutarne la destinazione all’attività di impresa.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, confermando il decisum dei Giudici del Merito, hanno respinto in toto le doglianze dell’Agenzia delle Entrate riconoscendo a un affittacamere la detrazione IVA nonostante l’immobile fosse accatastato a uso abitativo.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno definitivamente chiarito che il sistema dell’IVA è volto ad esonerare l’imprenditore dall’imposta dovuta o assolta in tutte le sue attività economiche, per garantire la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività in questione, purché esse siano a loro volta soggette ad IVA. In particolare, è l’acquisto del bene o l’acquisizione della prestazione di servizi da parte del soggetto passivo che agisce in quanto tale a determinare l’applicazione del sistema dell’IVA e, conseguenzialmente, del meccanismo della detrazione. Ciò in quanto, ha sottolineato la S.C., l’interpretazione contraria potrebbe comportare che la detrazione dell’IVA dovuta a monte venga negata a soggetti passivi per successivi impieghi professionali soggetti ad imposta, nonostante l’intento iniziale del soggetto passivo di destinare integralmente il bene in questione alla sua azienda, in vista di operazioni future.

In nuce, nel caso in parola, il soggetto passivo non risulterebbe interamente esonerato dall’onere dell’imposta afferente al bene da questi utilizzato ai fini della propria attività economica e la tassazione delle sue attività professionali provocherebbe una doppia imposizione in contrasto col principio della neutralità fiscale insito nel sistema dell’IVA. Pertanto, la conseguenza ineludibile che l’accatastamento dell’immobile tra quelli a destinazione abitativa non preclude la detraibilità dell’imposta relativa alle spese sostenute per il suo acquisto ovvero la sua manutenzione e ristrutturazione se, avuto riguardo all’utilizzo concreto dell’immobile, anche solo prospettico, è possibile dimostrare, sulla base di elementi oggettivi, che il medesimo è inerente all’esercizio effettivo dell’attività d’impresa.

 

IL TEMPO PER LA VESTIZIONE E SVESTIZIONE DISCIPLINATA DAL DATORE DI LAVORO RIENTRA NELL’ORARIO DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2965 DEL 3 FEBBRAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 2965 del 3 febbraio 2017, chiarisce che le operazioni per la vestizione e svestizione dirette dal datore di lavoro, gestendo tempi e modi, sono da intendersi rientranti nell’orario di lavoro.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Napoli, in riforma del Tribunale di primo grado,  condannava la società al pagamento delle differenze retributive, ritenendo  il tempo impiegato alla vestizione e svestizione dei lavoratori rientrante nell’orario di lavoro, in quanto si trattava di un’attività necessaria e obbligatoria  all’espletamento della prestazione lavorativa che avveniva sotto la direzione del datore di lavoro.

Nel caso de quo, gli Ermellini hanno sostanzialmente confermato il ragionamento giuridico dei Giudici di merito, ricordando che il tempo impiegato per indossare la divisa è da considerarsi lavoro effettivo e, quindi, da retribuire, quando tali operazioni siano dirette dal datore di lavoro attraverso una disciplina del tempo e del luogo di esecuzione, quale condizione obbligatoria per lo svolgimento dell'attività lavorativa. Difatti, nel caso in questione, era stato verificato che le attività vestizione e svestizione venivano svolte nei locali aziendali e in tempi disciplinati da un passaggio attraverso i tornelli azionabili con il badge e nel limite di 29 minuti prima dell’inizio della prestazione, in base a precisi obblighi e divieti sanzionabili dal datore di lavoro non lasciando alcuna discrezionalità ai lavoratori.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO


(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 13 Febbraio 2017